Abbiamo trovato sul sito fatti sentire un articolo pubblicato nel 2006 che oggi sembra profetico. Lo riportiamo senza sapere se ciò che vi si dice sia vero. In ogni caso se fosse così ci sarebbe da preoccuparsi
Goldman Sachs e i suoi prodi alla conquista dell’Italia
La statunitense banca d’affari è, senza ombra di dubbio, il vero centro di potere privato mondiale. È scesa, ultimamente, più agguerrita che mai per fare shopping in Europa e anche nella Bella Italia. Non dimentichiamo che tra i suoi dipendenti e consulenti super pagati ha vantato Romano Prodi, Mario Draghi e ora Mario Monti… Capintesta dalla Goldman Sachs per l’Europa fino a pochi giorni fa era Claudio Costamagna (ex Montedison), la cui moglie risulta una grande finanziatrice di Prodi. Facciamo qui i nomi di altri dipendenti di Goldman Sachs: forse non vi dicono niente ora, ma li vedrete magari in qualche posto di sottogoverno o «autority» del regime-Prodi. Sono: Diego De Giorgi, Massimo Tononi, Andrea Ponti, Chicco di Stasi, James del Favero…
1) Il super potere forte, Goldman Sachs
2) L’Italia consegnata a Goldman Sachs
3) Lo spettro delle svendite incombe sull’Eni
1) Il super potere forte, Goldman Sachs
“L’Europa è in vendita, Goldman sta acquistando”. La statunitense banca d’affari è, senza ombra di dubbio, il vero centro di potere privato mondiale, che è scesa, ultimamente, più agguerrita che mai per fare shopping in Europa. Fondata nel 1869 a Manhattan, grazie a due immigrati tedeschi: Marcus Goldman e Samuel Sachs, oggi, è una vera forza “imperialista”, col dire di Vladimir Ilic Uljanov detto Lenin. La Goldman Sachs è una vecchia conoscenza del nostro Paese. Tant’è. Nel 1992, banchieri, finanzieri e manager italiani, statunitensi e anglo-olandesi si incontrarono sul panfilo della regina Elisabetta, Britannia, e discussero del processo di privatizzazioni. Allora, si stabilì, di fatto, lo smantellamento del capitalismo pubblico italiano a prezzi stracciati. Guarda caso, tra i croceristi eccellenti c’era il finanziere George Soros, super finanziere d’assalto di origini ungheresi ma yankee d’adozione, a capo del “Quantum fund” (diretta emanazione del gruppo Rothschild) e protagonista di una incredibile serie di crack provocati in svariate nazioni, potendo contare su smisurate liquidità di diversa provenienza a volte ignota e oscura. A giugno, Britannia navigava nelle acque del Tirreno e tre mesi dopo, sarà settembre nero. In quel mese, ci fu la svalutazione del 30% della lira, facendo perdere, all’Italia, risorse, pari a 50 miliardi di dollari. Allora, in Bankitalia, c’erano il governatore Ciampi e il direttore centrale Dini, che fronteggiarono il maxi attacco speculativo nei confronti della lira.
Tanto per cambiare, l’operazione fu resa perfetta, grazie allo zampino dell’agenzia di rating Moody’s che declassò, senza leggere e scrivere, i Bot. Chi pagò caramente il crollo della lira, fu il risparmiatore italiano. Al che, Bettino Craxi puntò l’indice contro “una quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici”, parlando di “potenti interessi che pare si siano mossi alla scopo di spezzare le maglie dello Sme”, e di un “intreccio di forze e circostanze diverse”. In quel periodo, il governo italiano, che usciva sfiancato finanziariamente dalla svalutazione, avviò il processo di privatizzazione. Come dire, la ciliegina finale. All’evento, la Goldman Sachs non si fece trovare impreparata, visto che ha il dono di trovarsi al momento giusto e al posto giusto, quando in giro c’è profumo di affari. La banca giocò, allora, un ruolo decisivo e, oggi, corsi e ricorsi storici, sta facendo altrettanto per l’Europa, facendo più private equality e shopping nel settore delle infrastrutture, immobili e tecnologie. Aggiunge al mestiere di banca d’affari, l’attività di “compradores”, ossia rileva pezzi importanti di attività economiche. Si serve per gli acquisti di fondi e/o di strumenti finanziari esterni costituiti ad hoc, accompagnandosi, però, nelle operazioni, ad altri investitori. In questi giorni, la banca d’affari è impegnata ad acquistare il maggiore operatore portuale inglese, la Associated Britisch Ports, per 4 miliardi. Prima aveva rilevato per 3,7 miliardi il 51% di una grande fetta immobiliare della catena tedesca Karstadt. Quanto all’Italia, Goldman Sachs è sbarcata da tempo.
Nel 2000, in Italia, fece shopping e business, avendo al fianco il suo fondo Whitehall, nel ramo immobiliare. Comprò dall’Eni, in via di dismissioni di rami secchi, l’area immobiliare di 300 mila metri quadrati di San Donato Milanese per circa 3000 miliardi di vecchie lire, dove dovevano trasferirsi i locali della Rai di Corso Sempione. Fu il primo grande acquisto immobiliare, ma non l’ultimo. Infatti subito dopo ne fece altri, tra cui gli immobili della Fondazione Cariplo nonché, con un altro big Usa, Morgan Stanely, i patrimoni mattonari di Unin, Ras e Toro. Sul piano industriale, la Goldman Sachs è presente nel capitale di Pirelli Cavi, mentre, recentemente, ha fatto il suo ingresso nel fondo Management&Capitali di Carlo De Benedetti. Nel 2001, il neo governatore di Bankitalia, Mario Draghi, quando si dimise da direttore generale del Tesoro e da responsabile delle privatizzazioni, passò armi e bagagli alla vice presidenza della Goldman Sachs International. In quel periodo, la banca d’affari svolse il ruolo di “advisor” di Abn Amro e di Banco di Bilbao: la banca olandese ha comprato l’AntonVeneta e gli spagnoli la Bnl. Inoltre, nel board di Goldman Sachs ha figurato anche Romano Prodi. Al momento, Mario Monti è l’unico italiano rimasto nella banca d’affari come consulente. Uomini forti per un potere superforte.
di Biagio Marzo
L’Opinione – Edizione 72 del 03-04-2006
2) L’Italia consegnata a Goldman Sachs
Nel 2005 la banca d’affari Goldmans Sachs – la stessa che si è assicurata il dominio in Italia con Draghi governatore, e presto se lo assicurerebbe con Prodi premier – è stata la prima nel mondo come «consulente» in fusioni e acquisizioni (m&a).
Mario Draghi a Bankitalia, proveniente dalla Goldman Sachs.
Mario Monti uscente dalla Commissione, è stato assunto alla Goldman Sachs.
Romano Prodi, futuro presidente del Consiglio, nella sua vita è entrato infinite volte a servizio della Goldman Sachs: era lì che trovava lavoro quando usciva dal settore pubblico italiano.
Non sarà un conflitto d’interessi? Un tantino? Poco poco?
Ma non si può eccepire. E’ vietato.
Nel quadro che ha creato Il Corriere dei Montezemolo e del resto del salotto buono, una nuova Mani Pulite (stavolta contro le sinistre arroccate attorno alle COOP), queste nomine e assunzioni ci dicono che non sarà più permesso formulare domande politicamente poco corrette, criticare le scelte degli Illuminatissimi Fratelli.
E’ la consegna dell’Italia ai poteri forti e alla banca d’affari americana.
Chissà che miele secerne la Goldman Sachs per attrarre così importanti maggiordomi dei poteri forti, o che linfa secerne l’Italia, per suscitare le cupidigie della Goldman Sachs: non abbiamo già dato, in privatizzazioni?
Gioielli industriali dell’IRI, pagati mille volte dai contribuenti italiani, non sono già stati svenduti tutti per un boccone di pane?
Non ha già regalato Ciampi la Nuovo Pignone, leader mondiale, alla sua concorrente americana?
E le banche d’affari americane, Goldman Sachs, Merril Lunch e Morgan Stanley, non hanno già incamerato allora – quando la prima Mani Pulite rese impossibile la difesa di quei gioielli, fu per questo che Craxi fu distrutto – 3 mila miliardi in grasse commissioni, per la loro esperienza nelle privatizzazioni?
Chissà.
Sembra ieri quel 2 giugno 1992, quando il «Britannia», panfilo di sua maestà britannica, arrivò di fronte a Civitavecchia con tutti i banchieri della City a bordo (Warburg e Barclay, Coopers Lybrand, Barino, eccetera) a intimare le condizioni della finanza anglo sullo smantellamento delle partecipazioni statali.
Una torta da 100 mila miliardi, come scrisse Massimo Gaggi, giornalista de Il Corriere che era a bordo.
Ci andò anche Mario Draghi, d’ora in poi intoccabile e non criticabile governatore di Bankitalia. Allora era direttore del Tesoro.
E dovette giustificarsene in audizione parlamentare: «dopo aver svolto l’introduzione me ne andai, e la nave partì senza di me…in questo modo evitai ogni possibile sospetto di commistione».
Il Britannia infatti prese il largo.
In acque internazionali, su suolo britannico, gli italiani invitati ascoltarono le condizioni.
Fatto è che Draghi, nell’introduzione, aveva lodato le privatizzazioni così: «uno strumento per limitare l’interferenza politica…un obbiettivo lodevole»: lo stesso programma de Il Corriere oggi. Allora, il tecnocrate dettava la linea politica.
Bastava: poi scese.
Restarono, fra gli altri, Rainer Masera (un altro intoccabile), Giovanni Bazoli (Ambroveneto), Beniamino Andreatta: che sarebbe diventato di lì a poco ministro.
Nel governo Amato, al Bilancio; nel governo Ciampi agli Esteri, nel governo Prodi alla Difesa.
Un coccolone ha impedito al Beniamino tecnocratico di ricoprire altri ministeri, di perfezionare i danni.
Gli altri, purtroppo, sono vegeti e pronti.
A consegnare l’Italia a Goldman Sachs.
Nel settembre ’93, alla privatizzazione della Comit fu incaricata di presiedere la Lehman Brothers; a quella del Credit, la Goldman Sachs.
In verità Franco Nobili, il precedente capo dell’IRI, aveva dato quest’ultimo incarico alla Merrill Lynch; ma a quel punto Nobili era in prigione in attesa di giudizio per Mani Pulite (solo il tempo necessario: poi sarà prosciolto con formula piena), e comandava Prodi.
Fu Prodi a dare l’incarico alla Goldman Sachs, «della quale era stato consulente fino a pochi giorni prima». (1)
La Merrill Lynch, nel giorni in cui aveva l’incarico, aveva offerto alla Deutsche Bank il pacchetto di Credito Italiano in proprietà all’IRI per 6 mila lire ad azione.
La Goldman Sachs fissò il valore del Credit a 2.075 lire per azione, meno della quotazione in Borsa, che era sulle 2.230 lire.
Insomma vendette per 2.700 miliardi qualcosa che ne valeva almeno 8 mila.
Persino l’Espresso si chiese: «è dunque un regalo quello che l’IRI sta facendo al mercato? Dal punto di vista patrimoniale è così».
Prodi ne ha fatti, di regali.
L’Italgel, 900 miliardi di fatturato, venduta per 437 alla Nestlé.
La Cirio-Bertolli-De Rica (CBD), 110 miliardi di fatturato, valutata sui 1.350 miliardi, venduta a una finanziaria lucana mai sentita, la FISVI di tale Francesco Lamiranda, «appoggiato dalla sinistra democristiana della Campania» secondo Il Corriere.
Era la sua unica credenziale, perché Lamiranda soldi non ne aveva.
Offrì dapprima 130 miliardi, poi 310.
Avrebbe pagato, chiarì, vendendo i pezzi dell’azienda che si offriva di comprare.
Ma restò l’unico acquirente.
Un’asta ci voleva: non fu fatta.
Bisognava vendere a questo Lamiranda.
Pietro Larizza, allora capo della UIL, descrisse l’operazione così: «la FISVI acquista senza avere ancora i soldi per pagare; per formare il capitale necessario, vende una parte di ciò che ha comprato; per quel che rimane cerca ancora soci finanziatori per completare l’acquisto».
Antonio Bassolino (un merito gli va riconosciuto) denunciò alla Procura di Napoli quell’affare: «c’è il pericolo che privatizzazioni fatte in questo modo espongano pezzi del nostro apparato produttivo alle mire speculative e affaristiche».
Era peggio di così.
Un perito di nome Renato Castaldo scoprì che dietro lo sconosciuto Lamiranda c’era l’Unilever, la multinazionale olandese.
«E’ documentato che la Unilever», scriveva, ha «inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l’IRI…predisponendo anche le clausole da inserire nel contratto» fra Prodi (IRI) e Lamiranda.
L’Unilever?
Prodi è stato consulente dell’Unilever dal ’90 al ’93, come consulente di vaglia, a decidere le acquisizioni.
Ecco dov’è il miele che Goldman Sachs cerca.
Ecco dov’è la linfa che trovano i grand commis nella Goldman Sachs.
L’ape cerca i fiori, i fiori si volgono all’ape.
E’ una storia d’amore.
Non amano noi, però.
Ci vogliono spogliare.
NOTE
1) Massimo Pini, «I giorni dell’IRI, storie e misfatti da Beneduce a Prodi», Mondatori, 2000, pagina 238. Gran parte delle informazioni di questo articolo vengono dal libro di Pini.
di Maurizio Blondet
EFFEDIEFFE 03/01/2006
3) Lo spettro delle svendite incombe sull’Eni
Dopo aver lasciato lo Stato “in mutande”, gli ex di Goldman Sachs guardano al colosso energetico
Ora che un dirigente della Goldman Sachs guida la Banca d’Italia e un consulente della Goldman Sachs si prepara a guidare il governo delle sinistre vogliamo che lorsignori lo sappiano: li teniamo d’occhio. Siamo noi, il popolo italiano, i loro datori di lavoro: se li vedremo obbedire di nuovo a Goldman Sachs lo denunceremo con tutti i mezzi.
Perché le loro passate azioni non ci lasciano tranquilli. Queste azioni sono già state raccontate, ma vale la pena di metterle in luce più chiara.
Tutto comincia nel settembre 1992, quando il finanziere americo-ungaro-israeliano George Soros lancia un attacco speculativo contro la lira. Carlo Azeglio Ciampi è capo di Bankitalia. La sola cosa che dovrebbe fare sarebbe una telefonata alla Banca Centrale tedesca (Bundesbank), la più potente d’Europa e chiedere: mi sostenete? Ossia: siete disposti a spendere centinaia di milioni di dollari per acquistare lire, sostenendo il corso della nostra moneta? Se quelli rispondevano di no, ogni difesa era inutile, perché impossibile, dato che Soros usava l’effetto-leva dei derivati: per ogni dollaro che puntava, era come ne puntasse cento. Bankitalia, a quel punto, doveva fare solo una cosa: lasciare fluttuare la lira ai venti della speculazione. Invece Ciampi “difende” la lira da solo: dilapidando 48 miliardi di dollari in valuta estera e prosciugando le riserve valutarie di Bankitalia.
E come previsto la manovra non riesce. La lira si svaluta del 30%. Ciò significa che da quel momento, gli stranieri che vogliono acquistare le industrie di stato e parastato italiane, potranno pagarle il 30% in meno. La preparazione alle svendite era già avvenuta. Il panfilo “Britannia” della regina d’Inghilterra era apparso davanti a Civitavecchia (2 giugno 1992), per dettare le condizioni delle privatizzazioni. Il “Britannia” era carico di finanzieri della City, delegati dei Warburg, dei Baring, dei Barclays: costoro convocano sul Britannia (ossia su suolo inglese) esponenti di spicco dell’Iri, dell’Eni, dell’Agip, della Comit, di Assicurazioni Generali e, come si sa, Mario Draghi, allora direttore del Tesoro, dipendente pubblico italiano. Draghi scende prima che il “Britannia” prenda il largo diventando suolo inglese ma ha il tempo di fare un discorsetto in cui approva l’urgenza di privatizzare per sottrarre le industrie di Stato alla politica. Fatto sta che, sceso Draghi, i finanzieri di Londra si dividono, come al mercatino dell’usato, i gioielli dell’economia italiana. E si profilano altri sconti.
Difatti, di lì a poco, sale al governo Giuliano Amato: anche lui un coccolino dei “poteri forti” finanziari internazionali. Basta a indicarlo il fatto che Amato, braccio destro di Bettino Craxi, viene miracolosamente esentato dalla bufera di Tangentopoli. In quel frangente, guarda caso, l’agenzia Moody’s – di punto in bianco, e senza che sia accaduto nulla di nuovo – “declassa” l’Italia, mettendola fra i paesi a rischio d’insolvenza.
Risultato: lo Stato deve pagare interessi più alti sui Buoni del Tesoro, se vuole che qualcuno glieli compri. Lo Stato si dissangua; e poiché subito Soros lancia la speculazione sulla lira, tutto peggiora. È una manovra concertata fra Moody’s, Soros e i suoi banchieri di riferimento (Rotschild)? Io penso di sì. Ricordo un fatto degno di nota: fra i più accaniti speculatori contro la lira nella fase iniziale dell’attacco di Soros, si segnalano Goldman Sachs e Warburg. Quei Warburg che poi “consigliano” al governo italiano di rivolgersi a Goldman Sachs per gestire le privatizzazioni.
E così l’alta finanza internazionale si sceglie i gioielli di stato, con calma, soppesandoli come la massaia che compra i peperoni al mercato. Perché costano poco: le privatizzazioni 93-94 renderanno allo stato solo 26 mila miliardi; Ciampi da solo, nella sua inutile “difesa della lira”, ha speso il doppio (denaro pubblico, di noi contribuenti). Tutti ci commuoviamo quando il nonno d’Italia ci esorta ad aver fiducia nella Patria. Chissà se ha sventolato il tricolore anche nella riunione del Bilderberg del 22-25 aprile 1993, che si riunì in Grecia e aveva il tema Italia all’ordine del giorno. Non lo sappiamo perché la riunione, come sempre, fu a porte chiuse. Certe fonti danno presente Ciampi a quella riunione, ma non ne siamo sicuri, e non possiamo esserlo, data la segretezza che le circonda. Erano presenti, si dice, anche Gianni Agnelli coi suoi fidi: Mario Monti, Antonio Meccanico, Tommaso Padoa Schioppa, Renato Ruggero. Patrioti anche loro. Ma di quale patria?
Il fatto è che, dopo quella riunione del Bilderberg, Ciampi fa una mossa delle sue: “internazionalizza” il debito pubblico italiano, fino a quel momento prevalentemente interno. È una scelta grave e non necessaria. All’epoca gli italiani, coi loro risparmi, comprano volentieri i Bot. Per lo Stato, è un vantaggio enorme: perché s’indebita coi suoi cittadini (a cui può chiedere “sacrifici”, ossia di pazientare a farsi pagare gli interessi) e nella sua moneta, la lira, che può stampare a volontà. Invece, Ciampi offre i Bot sui mercati finanziari esteri. Dove gli interessi dovrà pagarli in dollari, ossia in una valuta su cui non ha il controllo e che non può stampare quando vuole. Di fatto, mette il debito italiano nelle mani della grande finanza – le solite Goldman Sachs, Warburg, Barclays – e alla mercè delle “valutazioni” delle agenzie cosiddette “indipendenti” come Moody’s. La mossa di Ciampi riduce l’Italia nella situazione di un paese del terzo mondo; e senza alcuna necessità.
Ecco la storia passata. Per questo dico: teniamoli d’occhio, i lorsignori che tornano al comando dell’Italia Questi vogliono ancora svendere qualcosa. Che cosa? Alcune fonti ci dicono: l’Enel, ma soprattutto l’Eni. S’intende, i due nostri relativi colossi sono già stati privatizzati. Ma, soprattutto l’Eni, non fa ancora del tutto gli interessi anglo-americani che nel settore dell’energia mirano ad accaparrarsi la disponibilità diretta delle fonti petrolifere, e mettere sotto controllo unico gli attori secondari nel gran mercato del greggio e del gas.
L’hanno provato a fare con il petrolio russo: crollo organizzato del rublo, deficit alle stelle, un Boris Eltsin ben felice di vendere le vecchie imprese sovietiche a qualunque prezzo. Fu così che i Rotschild prestarono a un piccolo avventuriero russo, Khodorkovski, i soldi per comprare a prezzi da usato la Yukos. Ora che Vladimir Putin si è ripreso la Yukos e fa una “propria” politica nazionale energetica con la sua Gazprom, gli anglo-americani cercano in tutti i modi di isolare la Russia. La presenza di aziende relativamente autonome come l’Eni ostacola questo processo di soffocamento.
Occhio a lorsignori. Italiani di destra e di sinistra, di centro e di sotto e di sopra: teniamoli d’occhio noi, perché non c’è nessun altro che faccia gli interessi italiani.
di Maurizio Blondet
La Padania [Data pubblicazione: 14/01/2006]