Corrispondenze direttte dall’America di Flavio Felice, nostro direttore editoriale

Approcciandosi alla nuova America, quella che sta emergendo all’indomani della rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America, ci si rende conto come quel malcontento, definito da certa stampa, viscerale e poco ragionevole, che molti opinionisti italiani, ma anche statunitensi, indicano come la causa principale della vittoria di Trump, sia tutt’altro che una reazione viscerale e improvvisa, ma il frutto di una seria e motivata vertenza, maturata nel dibattito pubblico americano negli ultimi vent’anni. È la vertenza teorica e politica che riguarda il modo in cui affrontare le grandi trasformazioni dovute alla globalizzazione dei mercati, ai cambiamenti repentini, soprattutto in ambito tecnologico. Il cambio di paradigma, la rivoluzione digitale, non ha semplicemente ampliato il mercato in termini quantitativi, diremmo spaziali, ma ha modificato in termini qualitativi i processi del mercato, facendo emergere una serie di nuovi mercati, incomprensibili e incontrollabili, almeno se adottiamo gli schemi della teoria politica ed economica che ci hanno accompagnato in questo primo quarto di XXI secolo. La risposta che è maturata negli anni, non solo negli Stati Uniti e non solo con Trump, che è diventata una sorta di parola d’ordine dell’offerta politica di tipo nazionalista e populista, ma anche democratica, è protezionismo. Il ritorno alle politiche industriali di tipo protezionistico, come estrema difesa della propria industria e, di conseguenza, dei lavoratori, è sembrata la via più diretta, più ovvia e più efficace. Di questo si discute ormai in tutto il mondo e i primissimi atti che seguono la rielezione di Trump sembrerebbero andare esattamente in questa direzione. Oltretutto, bisogna registrare come il credo politico mercantilista-protezionista del neo rieletto presidente abbia ormai conquistato una buona parte del nuovo establishment del Partito Repubblicano. Tuttavia, ciò che appare più semplice, ovvio e diretto nel breve periodo, è di fatto lo è, non è detto che lo sia nel lungo periodo, dove, se è vero che, come diceva quel tale, noi non saremo più vivi, è altrettanto vero che lo saranno i nostri figlie e nipoti, in nome dei quali andrebbero seriamente contrastati i rigurgiti nazionalistici e protezionistici. In uno studio di Aaron Flaaen e Justin Pierce (Disentangling the Effects of the 2018-2019 Tariffs on a Globally Connected U.S. Manufacturing Sector, nuova versione 2024) si mostra come la politica protezionista della prima amministrazione Trump abbia incrementato i costi dei cosiddetti beni intermedi, quei prodotti necessari alla produzione dei beni di consumo finali delle aziende statunitensi. Gli autori dello studio in questione sostengono che la politica protezionistica, adottata dalla prima Amministrazione Trump, avrebbe danneggiato l’impresa manifatturiera statunitense, riducendo l’impiego manifatturiero del 2%. Il danno causato da quelle politiche protezionistiche sarebbe stato accentuato dal fatto che i paesi colpiti dal dazio inflitto ai loro prodotti, si sono prevedibilmente vendicati, e tale protezionismo vendicativo sarebbe costato all’industria manifatturiera statunitense un altro 1.1% di caduta del tasso d’impiego. Appare evidente che le ragioni del malcontento e della deliberata scelta da parte della maggioranza dei votanti statunitensi di votare per Trump, non possano essere meramente derubricate in nazionalismo e populismo. Esiste un forte disagio nella popolazione americana, in particolare presso la working class, che Trump ha saputo intercettare e alla quale, probabilmente, sta offrendo una ricetta che non funzionerà, stando almeno alle possible previsioni, sulla base dei dati relativi alle più recenti politiche protezionistiche. Alcuni analisti, di matrice liberale conservatrice, dunque che si oppongono a Trump, pur rimanendo nel campo del Partito Repubblicano, hanno definito la politica economica e industriale che si sta avviando ad adottare il neo rieletto presidente: “grievance-onomics”. Un’economia del risentimento e della lamentazione che sicuramente si è mostrata in grado di intercettare il consenso, al contrario dell’altra parte politica che è apparsa insensibile alle reali sofferenze di coloro che hanno pagato il prezzo più caro al processo di globalizzazione e alla rivoluzione digitale, ma che non lascia ben sperare di poter risolvere i problemi che così ferocemente ha saputo porre all’attenzione del dibattito politico. Crediamo che i problemi degli ultimi e dei penultimi che ormai lottano tra loro in una penosa guerra tra poveri e quasi poveri, non si risolva negando o nascondendo  il problema, rilanciando le “magnifiche sorti e progressive” di un futuro inarrestabilmente destinato al successo, e neppure ricorrendo alla miscela nazional-populista che sta conquistando il versante conservatore del campo politico. Forse è il momento di fare i conti con una radicalizzazione del discorso pubblico che ha reso caricaturale tanto la destra quanto la sinistra e converrebbe adottare i dispositivi politici ed economici che consentano il suo superamento. In primis, come scrive Michael R. Strain in Forget the Economy of Grievance (AEI Press), bisognerebbe lavorare a un’agenda economica che renda nuovamente protagonisti i lavoratori, innescando “rampe di opportunità per tutti”. È qui che entra in gioco il secondo fattore, quello più decisamente politico che riguarda direttamente il cuore della democrazia liberale e che possiamo sintetizzare con la questione della rappresentanza, non meramente elettorale, ma senza escluderla, visto l’esiguo numero di persone che ormai si recano alle urne; chi decide di non votare, è possibile che non intenda partecipare a un gioco che lo esclude o, più semplicemente, è probabile che non si senta attratto da nessuna delle offerte politiche disponibili. Siamo ormai di fronte a un’autentica urgenza, davanti a un incrocio le cui destinazioni non sono al momento certe. Possiamo ignorare il grido che viene dagli ultimi, e in nome della nostra spocchia democratica, illuminista e progressista, limitarci a denunciare la rozzezza e la cattiveria di chi risponde in maniera evidentemente inadeguata, rispetto alla soluzione dei problemi di fronte ai quali siamo posti. Altrimenti possiamo accarezzare il pelo del malcontento e allinearci alla nuova “greavance-onomy”, tanto nel lungo periodo saremo tutti morti. Oppure, potremmo imboccare una terza via, che non è una via di mezzo, ma una via alternativa tanto alla spocchia democratica quanto alla rabbia fieramente ostentata dell’economia rivendicativa, una via che restituisca rappresentanza autentica alle persone e ai nuclei civili che esse stabiliscono, e consenta a tutti di operare come attori protagonisti di una storia che effettivamente li riguarda personalmente e non spettatori distanti, per di più paganti, di un gioco al quale sono chiamati ad assistere, senza mai poter toccare palla.  
Fonti: http://tocqueville-acton.com