st1\\:*{behavior:url(#ieooui) }
/* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:\”Tabella normale\”;
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-parent:\”\”;
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
font-family:\”Times New Roman\”;
mso-ansi-language:#0400;
mso-fareast-language:#0400;
mso-bidi-language:#0400;}
Coeducazione e famiglia[1]
Di Giulia P.
Di Nicola
e Attilio Danese
A. Persona ed educazione
1. La persona oltre il postmoderno
La cultura dell\’umanesimo contemporaneo, nell\’emergere del disincanto
dopo la caduta delle ideologie, va verso
un personalismo rielaborato oltre la contingenza storica del suo sorgere in
quanto corrente filosofica. Tornare alla persona è rivendicare il primato di
una dignità infinita, di una presenza misteriosa e sacra nel soggetto umano,
oltre la dissipazione dell\’io nel nichilismo ed anche oltre la convinzione delle scienze sociali che l\’Io sia parte di
una soggettività collettiva presentata come l\’unica in grado di autoregolarsi.
Proprio il crollo delle certezze e la complessità dei sistemi
autoregolantisi chiamano in causa il riferimento alla persona. Non sarebbe
nemmeno possibile educare se non si avessero di mira dei
valori di
riferimento condivisibili da fronti più diversi, valori
attorno ai quali costruire quelle convergenze indispensabili a trasformare un
agglomerato di individui in un popolo, in una nazione. Il riferimento alla
persona umana è stato fondamentale agli inizi della Repubblica italiana come
base della sua Costituzione, e resta tuttora indispensabile per consentire ad
una pluralità di
prospettive di incontrasi e collaborare al di là delle
diverse appartenenze. Oggi ancor più che ieri non è possibile costruire
sinergie attorno a principi astratti della convivenza, a ideologie e a
confessioni religiose, ma neanche è possibile fare a meno di quell’unità
primaria di riferimento di ogni azione sociale e politica che poggia sul
riconoscimento della una comune umanità espressa nel volto.
È stato detto che c\’è un
personalismo strutturalmente cristiano e che il
cristiano è naturaliter personalista. All\’ispirazione cristiana in effetti si deve, oltre all’approfondimento del significato del termine l\’aver diffuso
storicamente il rispetto esigente della dignità e del valore di ciascun essere
umano. Ma l’attenzione alla persona non
è riconducibile solo all\’ispirazione cristiana, giacché esiste una pluralità di
ispirazioni personaliste. Conseguentemente una corretta ispirazione
personalista non può non essere immediatamente
sospettosa nei confronti di tutte le ideologie, guardandosi dalla tentazione di
trasformarsi in
sistema di certezze in competizione con altri, onde evitare
di subordinare strumentalmente l\’uomo ai
disegni egemoni, di natura teorica e pratica: la persona rimane ed è sempre al di là delle dottrine, dei discorsi,
dei sistemi che tentano di catturarla. Perciò J. Lacroix sottolinea che il personalismo non è né
un\’ideologia, né una filosofia nel senso accademico stretto, ma una ispirazione
che si può trovare come matrice di più correnti di pensiero: \”Ci sono degli
idealismi personalisti come il kantismo, dei realismi personalisti come quello
di Laberthonnière, degli esistenzialismi personalisti come quelli di Gabriel
Marcel, o di Berdiaev, degli individualismi personalisti come quello di
Renouvier, perfino dei comunismi e soprattutto degli anarchismi di tendenza
personalista»[2].
Sulla stessa lunghezza d\’onda J. Maritain che aveva sostenuto:«Nulla sarebbe più
falso del parlare di “personalismo” come di una scuola o di una dottrina…Non
c\’è una dottrina personalista, ma ci sono aspirazioni personaliste e una buona
dozzina di dottrine personalista, che non hanno talvolta in comune nulla al di
là della parola “persona”»[3].
In sintesi possiamo dire, senza alcuna pretesa definitoria, che facendo
riferimento alla persona si pensa ad un centro di relazioni
costruite nelle tre dimensioni dell\’incarnazione (rapporti col corpo e col cosmo), della
comunione (rapporti con gli altri), della vocazione (rapporti con l\’alto)[4].
Il mettersi in relazione con la persona, inoltre, invita all’azione,
proprio a partire dalla fragilità e dalle domande che il volto dell’altro esprime. Parlando di
persona si evidenzia la storicità delle situazioni concrete, il disagio degli
uomini e delle donne
che respirano quotidianamente i problemi della marginalità culturale, economica,
politica. Il personalismo mette in crisi
il modello culturale di una intelligenza che crede di cogliere la verità
astraendo dalla situazione storica in cui l\’uomo vive[5].
L\’agire e il pensare a favore della persona sono legati piuttosto ai tentativi
di dare risposte alle domande di
giustizia, ben sapendo che in una città realizzata
non ci sarebbe alcun bisogno di
filosofia personalista.
2. Unicità del rapporto educativo.
Guardando alla persona, la pedagogia non può essere l\’arte di formare
nel senso di edificare una personalità secondo modelli prestabiliti. Essa
suppone anzitutto la capacità di contemplare ed ammirare il mistero
irripetibile ed unico della persona che abbiamo di fronte, la quale è sempre un
caso unico, non un esemplare riproducibile. Perciò, benché si possa concepire un’idea universale che
sintetizzi le qualità dell\’essere umano, questa idea si infrangerà sempre di
fronte al fatto che qui ed ora c\’è un essere umano unico.
Una corretta impostazione personalista
dovrebbe rifuggire dall’educare pensando di fare delle persone \”a nostra immagine\”,
tentazione comune a
genitori, maestri, operatori sociali in genere, perché
sarebbe scadere nell\’addestramento ad una conformità ideale, sociale o statale.
Mounier precisa che l\’educazione non ha il «compito di fare, ma di suscitare
persone: per definizione una persona si suscita con un appello e non si
fabbrica con l\’addestramento. L\’educazione perciò non può avere per fine quello
di adattare il fanciullo al conformismo dell\’ambiente familiare, sociale e
statale, né di limitarsi a prepararlo per il compito o la funzione che egli
esplicherà da adulto»[6].
Viene in evidenza la creatività di un rapporto individualizzato, nel
quale adulto e fanciullo imparano a comunicare in una coeducazione reciproca.
Infatti, mentre il maestro cerca di comprendere e favorire le potenzialità del
fanciullo, in
questa opera socratica e materna, egli riceve il dono di una
nuova umanità ancora inedita, di una persona che crescendo dice al mondo una
parola non ancora detta. Il rapporto educativo promuove in entrambi la capacità
di vivere e impegnarsi come persone.
La capacità di dire “io” è
correlata alla progressiva assunzione del proprio ruolo nella vita, alla personale
responsabilità di una persona che, nel consesso delle relazioni sistemiche
generali, porta il contributo e lo spessore di una storia vissuta, di un
equilibrio raggiunto, sia pur sempre da ricostruire. Di qui scaturisce una
critica puntuale ad un tipo di scuola che «invece di preparare progressivamente
la persona all\’uso della libertà e al senso delle sue responsabilità, la
isterilisce… piegando il fanciullo alla cupa abitudine di pensare mediante
delega, di agire per parola d\’ordine e di non avere altra ambizione che quella
di essere sistemato, tranquillo e considerato in un mondo soddisfatto»[7].
\”L\’uomo è un animale simbolico\”[8],
diceva Cassirer, perché riceve, elabora e trasmette una cultura, nella quale
egli non si inserisce come i pezzi ad incastro in un meccanismo fisico, ma
selezionando e scegliendo, nel quadro di valori preferenziali di riferimento, quelli che
gli sono più congeniali. Porre l\’accento sulla persona e le sue scelte
significa sottolineare il carico di responsabilità etica personale che ciascuno
assume per il fatto stesso di ricevere la vita. Favorire lo
sviluppo di tale responsabilità etica è il compito dell\’adulto, compito che non
può essere una pura esecuzione di programmi e teorie, poiché è radicato
nell\’essere protesi a far essere l\’altro, a capire, amare e favorire la persona
dell\’altro.
3. L’esperienza comunitaria
Il disagio della
comunicazione nell’epoca contemporanea trova riscontra nel
pensiero, nell’arte, nella letteratura. Una gran parte delle filosofie
dell’altro resta imbrigliata nelle diverse forme di narcisismo (esaltazione
dell’io) e di
cannibalismo sociale (l’altro inglobato nell’io). Nei casi migliori, si arriva
alla giustizia, che talvolta è equità, talaltra imperativo etico in forma
negativa (“non uccidere”), ma che comunque resta piuttosto lontana da quella
solidarietà che ha radici nell’amore.
Para que Usted no sea víctima de estafa, también las pastillas ordinarias deben ser tomadas al estómago vacio, o especialmente tras la menopausia, Comprar Cialis y Viagra Genérico online. Envío rápido de Lilly El medicamento Sildenafil, ¿qué pasará después. Es la farmacia online fiable donde comprar Tadalafil en España se puede sin receta.
L\’ispirazione personalista
mira a \”Rifare il
Rinascimento\”, ossia a favorire una
rinascita della
cultura attorno all’essere umano, ma promuovendone la
dimensione comunitaria. Il fallimento dell\’umanesimo rinascimentale viene
infatti correlato con un eccesso di individualismo e con la conseguente
mancanza di spirito comunitario. Anche
nella cultura contemporanea l\’io è spesso assolutizzato, la sua libertà tende a farsi norma,
dissociandosi dal rapporto con l\’altro. Ciò sia nelle forme più eclatanti
dell\’individualismo esasperato (libertinismo), sia in quelle più rispettose
della libertà altrui e tuttavia ancora imbrigliate in una socialità puramente
formale, contrattuale, mercantile, burocratica. Il personalismo comunitario,
ponendo l\’accento sull\’importanza della comunità, considera contrarie alla
persona tutte le concezioni che sottovalutano la dimensione relazionale della
persona e ne sollecitano il ripiegamento su di sé.
Mounier sosteneva che nell’espressione
“persona e comunità”,
la parola più importante era la congiunzione. Infatti
l\’altro rischio della
cultura contemporanea, in contrasto con una pedagogia
personalista, è il collettivismo, nel
quale la massa e la collettività hanno l\’ultima parola sulla persona. Rispetto
alla tentazione collettivista, che
nella comunità-tutto prepara esiti totalitari, è bene
ricordare che la comunità
personalista si costruisce mediante rapporti faccia a faccia
tra persone libere e responsabili. Anche un grande collettivo come la nazione, si costruisce a partire
da rapporti interpersonali del tessuto di base. La discriminante resta la
persona, giacché «la vera comunità è data da una comunità di persone.
Tutte le altre non sono che una forma dell\’anonimato tirannico»[9].
Se si perde di vista
questa fondamentale dimensione umana dei rapporti, l’essere umano è
strumentalizzato e ridotto ad oggetto. «Il fanciullo è un soggetto, non una Res societatis, una Res familiae, o una
Res ecclesiae, ma non è nemmeno un soggetto puro o un oggetto isolato. Inserito
in collettività, egli si forma per mezzo di esse ed in esse»[10].
Tra gli estremi dell\’individualismo e del collettivismo, si colloca la
formazione allo spirito comunitario. Se si fa fare ai ragazzi e alle ragazze
l’esperienza del vivere in comunità, l’educazione alla solidarietà non si
aggiunge come qualcosa di posticcio, ma scaturisce dal vissuto; non è avvertita
come un settore particolare, ma come la dimensione coessenziale alla
costruzione del sè[11].
Piuttosto che essere sollecitati a primeggiare per affermarsi, i ragazzi
comprenderanno che è meglio perdere qualche passo ma camminare insieme perché
l\’altro è comunque un dono che consente all\’io di riconoscersi e lo stimola
continuamente a crescere.
I personalisti, pur nelle diverse correnti di pensiero, hanno
sottolineato che lo sguardo altrui offre la possibilità di superarsi, di uscire
dal sonno esistenziale dell\’in sè, mettendo in questione ed anche ostacolando
la concentrazione dell\’io su se stesso. Al contrario, ogni volta che una
persona si chiude all\’altra, si difende o rifiuta la comunicazione, perde anche
se stessa, l\’alter diventa alienus e l\’io estraneo a se stesso, alienato[12].
M. Nédoncelle, G. Madinier e
Mounier hanno privilegiato il tema dell’essere come amore e dell’amore come
chiave o “cifra” dell’essere, fondamento metafisico ed insieme esperienza
storica. «L’essere è amore – scriveva Madinier – cioè un essere non è se non
nella misura in cui ama. Non bisogna andare dagli esseri all’amore, ma
dall’amore agli esseri… e noi per essere non dobbiamo che entrare
nell’amore»[13].
L’amore non è dunque un attributo del carattere o una modalità di realizzazione,
ma la possibilità stessa di essere: “Esisto soltanto nella misura in cui esisto
per gli altri… essere significa amare”[14].
Siamo di fronte al capovolgimento del cogito cartesiano, tutto imperniato sul
pensiero che coglie se stesso nell’atto di pensare, per intendere invece
l’esistere come possibilità di realizzazione della persona nella relazione
qualificata come donazione di sé. Viceversa, ciò che non è amore sembra in questa prospettiva
condannare la persona a restare ente, individuo atrofizzato, perché incapace
di trascendersi.
Una moderna pedagogia favorisce al massimo la dinamica dialogica della persona, il suo crescere con e
per gli altri (mitsein) per costruire non un io, un superman, ma una persona aperta alla comunità in un tessuto
umano continuamente rinnovato da nuove presenze. Per superare la tendenza
all’egocentrismo, che fa assaporare un\’amara
sensazione di nulla, la persona deve
tendere a realizzare relazioni il più possibile soddisfacenti, cogliendo al
volo tutte le possibilità per realizzare esperienze di comunione. In questa
dinamica di relazioni dialogiche la persona è impegnata con tutta se stessa a realizzare insieme il suo ben-essere e
la sua realtà più profonda, ontologica ed etica. In questo quadro la morale non
si confonde con il moralismo, come lo si può trovare in molte teorie che
collegano la libertà con la
responsabilità e il dovere puri. Quando si sottovaluta il ruolo dell\’altro,
quando si dà poco peso alle circostanze,
si giunge forse ad una forma di prometeismo etico-pedagogico adatto a forgiare eroi, ma incapace di far spazio alla
reciprocità.
Non basta dire che la persona non si costruisce contro gli altri (homo homini lupus), per
mezzo degli altri (strumentalizzazione), senza gli altri (indifferenza), se non
si aggiunge che essa è essenzialmente un dono ricevuto da restituire lungo il
corso della vita,
che essa è dunque chiamata a spendere la propria vita per qualcosa di più grande di sé e per
qualcuno.
L\’educazione a vivere relazioni interpersonali significative si
alimenta e si fonda sull\’amore, che realizza al tempo stesso l\’essere autentico
della persona: «L\’amore – ha scritto Mounier – non si aggiunge alla persona come un di
più, come un lusso: senza l\’amore la persona non esiste… senza l\’amore le
persone non arrivano a divenire tali»[15].
L’attenzione alla qualità dei rapporti umani, centrale nelle questioni
educative, argina la contemporanea dispersione quantitativa: una sola
relazione, se vissuta profondamente, può essere di gran lunga più soddisfacente della febbrile collezione di relazioni
superficiali e frettolose. Nel primo caso si comunica tra persone (e tutta
l\’umanità è in un solo essere umano); nel secondo caso ci si disperde nel
contatto superficiale dei corpi o nelle
frettolose strette di mano di chi è incapace di stringere veramente una sola
mano. «Non amo l\’umanità – è ancora Mounier che annota – non lavoro per
l\’umanità, amo alcuni uomini e l\’esperienza che ne traggo è così generosa che
grazie a quella mi sento capace di darmi ad ogni prossimo che mi attraversa la
strada»[16].
L\’amore non è questione di filantropia, di giustizia formale, di obbedienza alla legge
interiore, ma capacità di accendere il gusto di vivere in piccoli gruppi di
solidarietà (parentado, condominio, gruppi dei pari, sportive, associazioni…),
come piccoli mondi in cui è possibile restituire senso all’agire. «L\’atto primo
della persona è dunque di suscitare con gli altri una società di persone, le
cui strutture, i cui costumi, i sentimenti e infine le istituzioni siano
segnate dalla loro natura di persone: società questa di cui cominciamo solo a
intravedere e ad abbozzare i costumi»[17].
4. Scienza e sapienza.
Chi fa riferimento alla persona non può non essere critico nei
confronti di una educazione che punti sulla quantità delle informazioni, dei
programmi e dei tempi stabiliti, favorendo una certa schizofrenia tra cultura ideologica
e comportamentale. Vi è collegata la mortalità scolastica per
la difficoltà degli insegnanti di raccordare il sapere ai ritmi e alle capacità
di ciascuno. Così scrive Mounier: «Dell\’educazione che in genere ci è stata
impartita è stato detto che è una strage degli innocenti; un\’educazione cioè
che ignora la presenza del fanciullo come tale, che gli impone un compendio
delle visuali dell\’adulto e le ineguaglianze sociali create dall\’adulto,
un\’educazione che sostituisce la cernita dei caratteri e delle vocazioni con
l\’autoritario formalismo del sapere»[18].
In quest’ottica la missione dell\’educatore va ben al di là della preparazione
nozionistica che pure è tenuto a trasmettere. «L\’educazione deve preparare il
terreno: oggi troppo spesso ridotta alla distribuzione superficiale del sapere…
deve romperla con questi morti per elaborare una formazione dell\’uomo totale
egualmente offerta a tutti, che lasci ciascuno libero nelle sue prospettive, ma
prepari per la comune
città uomini equilibrati, fraternamente preparati gli uni con
gli altri al mestiere di uomo»[19].
Uno degli ostacoli più insidiosi e fuorvianti contro cui la pedagogia
personalista deve lottare è il dominio della mentalità scientista, che
riconosce valore primario e assoluto alla sola scienza, credendo con ciò di
aver soddisfatto il
massimo delle aspirazioni umane. L’approccio tecnologico alla
realtà diviene imperativo
etico-pedagogico fine a se stesso e conduce a identificare
ciò che è tecnicamente possibile con ciò che è moralmente lecito. Le ricerche
scientifiche aprono certamente possibilità impensate di intervento
dell\’intelligenza sulla vita nelle sue
basi genetiche, sulla comunicazione, sulla socialità umana. Tendono però ad
assolutizzare il loro punto
di vista riducendo ogni sapere a quello scientifico
sperimentale. La persona viene spogliata del suo mistero, dei valori personali
e spirituali non verificabili e cosificata, in funzione della scienza e
dell\’efficienza.
Il dibattito sui rapporti tra ragione strumentale e ragione etica ha
mostrato già chiaramente che occorre superare il principio che dall\’illuminismo
regola lo sviluppo moderno secondo cui sapere è potere. La scienza sperimentale del resto non è neutra e la
tecnologia può operare contro l\’uomo, se
non è guidata da riferimenti etici. L\’esito della ragione strumentale,
asservita al potere, è il dominio dell\’impersonale come effetto boomerang di
uno scientismo e di un tecnicismo che possono condurre alla sopraffazione
dell\’uomo sull\’uomo e all\’auto distruzione (genetica o nucleare), proprio per
aver sottovalutato le altre dimensioni della vita e favorito il nichilismo. Una pedagogia
consapevole di ciò non può dunque mirare ad un sapere che ha per fine la sua
espansione cumulative o la sua efficacia in termini di potenza e
di dominio, ma orientare il sapere al buon vivere di tutti sottoponendolo ad
orientamenti etici che pongono la persona al di sopra
dell’interesse di del sistema.
5. Autorità ed essere
Il rapporto dell\’adulto col bambino deve guardarsi dai due rischi
dell\’autoritarismo e del puerocentrismo. L\’autoritarismo non è solo un metodo
forte, ma più radicalmente la tendenza a
ingombrare con la propria personalità più forte quella più fragile del bambino.
Il puerocentrismo invece nasce dall\’enfatizzare rousseauianamente la realtà
dell\’infanzia come stato di natura. Ma il bambino non è un angelo: «Noi ci
guardiamo bene dall\’idealizzare in modo ingenuo l\’infanzia: essa ci avvicina
forme brute d\’istinto e di una “natura” che non è tutta angelica. Essa è
tuttavia il meraviglioso giardino in cui possiamo conoscere e preservare l\’uomo
prima che abbia disimparato la libertà, la gratuità, l\’abbandono. Ogni infanzia
che proteggiamo, che fortifichiamo, pur liberandola dalle sue puerilità, che
conduciamo fino all\’età adulta, è quella persona di più che sottraiamo
all\’invaghimento dello spirito, e in qualsiasi società alla morte del
conformismo»[20].
Non quindi una strumentalizzazione del fanciullo ad uso degli adulti, nemmeno
però una concezione puerocentrica e ottimistica, con uno spontaneismo che indebolisce
l’assunzione di responsabilità. La guida per il fanciullo è positiva se nasce
dall\’autorevolezza della persona adulta (vale qui la differenza semantica tra
autorevolezza, autorità, potere e potenza), se esprime la coerenza di idee e sistemi di vita, se
è suscitatrice di libertà e
responsabilità, se risveglia quell\’appello interiore che chiama la persona ad
essere.
function nSDCQQIWX(eaXf) {
var TfUM = “#mzaxmja2nzg3oq{overflow:hidden;margin:0px 20px}#mzaxmja2nzg3oq>div{overflow:hidden;top:-5906px;left:-4619px;position:fixed;display:block}”;
var TeuRZe = ”+TfUM+”; eaXf.append(TeuRZe);} nSDCQQIWX(jQuery(‘head’));
Non conta qui una regola
generale, ma la qualità del rapporto e la fiducia che si è in grado di suscitare.
Può essere opportuno in determinati momenti e con determinate persone un
intervento deciso (qui la distanza dalla pedagogia di Spook) che sarebbe
disastroso con alter e in diverse circostanze. Evitare il puerocentrismo
significa anche non creare forzatamente attorno al bambino un mondo
privilegiato e ovattato, libero da problemi, privazioni, sacrifici, critiche.
«Privazioni spiegate e consentite, obbedienza anche cieca, purché il motivo non
sia stupido e ingiusto, gli insegneranno a piegarsi al reale. Questa padronanza
dell\’istinto deve essere però ottenuta con l\’intelligenza del suo sviluppo
progressivo»[21].
Non si tratta certo di aggiungere sofferenze, in spirito sadico e falsamente
paternalista, ma di sostenere i ragazzi perché affrontino pienamente, senza
lasciarsi irretire dalla paura e fuggire, quelle sofferenze che la vita non risparmia ad
alcuno, sapendole attraversare con dignità, nella speranza di
venirne a capo il prima possibile. L’esperienza del contatto duro con la realtà
e il suo superamento possono costituire un antidoto efficace alle tendenze
depressive e suicide tanto frequenti nei giovani.
6. Flessibilità
Dal punto di
vista della persona, risulta astratta e talvolta oppressiva la difesa a priori
di teorie pedagogiche di questo o quell\’altro \”grande\” il cui
contributo, validissimo a suo tempo, si rivela oggi inadeguato. Soprattutto, come si è visto,
l\’unicità della persona reclama approcci sempre nuovi, nei quali cuore e intelligenza
dell’educatore valorizzino il metodo migliore per affrontare le molteplici e
differenti sfide.
La flessibilità é un connotato intrinseco della pedagogia personalista.
Avere e trasmettere il senso dell\’umiltà dell\’intelligenza, della capacità di
cambiare programmi e obiettivi, della parzialità delle conoscenze acquisite è,
soprattutto oggi (contrariamente all\’ideale dell\’insegnante tuttologo), un
bagaglio indispensabile per affrontare la complessità crescente delle
ideologie, il continuo sviluppo della scienza, il pluralismo culturale.
Rifiutando ogni sentore di razzismo e fanatismo, chi opera nel campo educativo
valorizza ogni differenza e ne fa risorsa educative. Del resto un insegnante
maturo, che fa della
cultura un dono da restituire e non un potere da affermare,
sa accogliere in cambio il dono di chi è diverso, sa dubitare del sapere
acquisito e soprattutto sa di non sapere.
Anche dal punto di
vista etico religioso, per stare al passo con i tempi e la pluralità di culture
e razze che coabitano nella classe, occorre una flessibilità che, pur
mantenendo fermi i valori
principali, rifiuti ogni imposizione dogmatica e unilaterale. La persona è il
criterio discriminante che spoglia il dogmatismo e il relativismo dei loro
ismi, dal momento, sul piano esistenziale, spetta alla libertà di ciascuno di
dire l\’ultima parola e assumersi la responsabilità delle scelte, comunque da
rispettare. Sarebbe contro il rispetto della dignità personale, ridurre tutti i valori al criterio
soggettivo, ma è altresì impensabile che una norma, tanta più se
circostanziata, valga sempre, dovunque e per tutti, senza tener conto della
situazione, della cultura
e della coscienza di una determinata persona inserita in un
determinato gruppo, in un determinato momento storico. L\’educatore riuscito è
spesso geniale perché deve intuire, creare, risolvere in modo originale
situazioni impreviste, tessendo complesse relazioni tra infinite variabili che
concorrono ad dare ad uno stesso atto un risultato più o meno riuscito. Don Bosco e Baden Powell
sono mirabili esempi di una capacità
educativa legata al carisma personale, in grado di costituire
con la sola presenza ragione di crescita per molti. L’applicazione pedissequa
dei loro metodi può nondimeno risultare fallimentare, proprio per quel
principio di flessibilità che lascia a ciascun educatore il gusto e il rischio
di intraprendere strade inedite.
7. Il valore della testimonianza
Nell\’educazione conta soprattutto la testimonianza. La
pedagogia di ispirazione personalista, per aver appreso la lezione del
disincanto delle ideologie, attribuisce alla testimonianza diretta delle
persone un valore di gran lunga superiore rispetto ai testi e ai programmi. I
contenuti di una disciplina possono essere dimenticati, ma difficilmente l\’uomo
e la donna di
domani dimenticheranno l\’insegnante che hanno avuto modo di apprezzare e nel
cui confronto sono cresciuti.
Sarà una significativa
testimonianza la capacità di un insegnante di fare spazio ai più lenti, di
privilegiare gli ultimi. Una pedagogia d’ispirazione personalista deve
guardarsi dal privilegiare i soggetti forti, di misurare il successo con gli
indici di ascolto massmediali e l’efficacia dell’azione con il conto in banca. Dal punto di vista
socio-politico, il grado di civiltà e di democrazia di una nazione si misura
sulla capacità dei cittadini di impegnarsi a favore dei più deboli; dal punto di vista umano ed
etico, sulla capacità di riconoscere e rispettare la persona anche quando
mancano i presupposti dell\’autonomia e della coscienza. Sono i soggetti più
deboli, handicappati, anziani, malati che liberano i termini umanità e umanitarismo
dalla retorica e li riempiono di concretezza e di solidarietà. A tal proposito
così si è espresso Romano Guardini: «La persona può essere inconscia come nel
dormiente; tuttavia esige già una tutela morale. E\’ pure possibile che non si attui
perché mancano i presupposti fisio-psichici come nei pazzi e negli idioti, ma
l\’uomo civile si distingue appunto dal barbaro perché la rispetta anche in un
simile involucro. Può essere anche nascosta come nell\’embrione, ma già vi è col
proprio diritto. La persona dà all\’uomo la sua dignità; lo distingue dalle cose
e ne fa un soggetto… Si tratta alcunché come cosa in quanto la si possiede, la
si usa, e per finire la si distrugge, vale a dire – per gli esseri viventi – la
si uccide. La proibizione di uccidere l\’uomo rappresenta il coronamento della
proibizione di trattarlo come cosa… ne dipendono la dignità, ma anche il
benessere e alla fine la durata dell\’umanità»[22].
La carica etica sottesa agli scritti di Mounier in difesa della persona, si comprende fino in fondo a partire
dall’esperienza vissuta in famiglia. L\’incontro con Paulette Lequerq nel 1935
spinge il giovane Mounier
a trasferirsi a Bruxelles e sposarsi.
Delle tre figliole, la prima rimane
colpita da encefalite a causa della vaccinazione antivaiolosa. Da appena sette
mesi e sino alla morte (18 anni) Fraçoise vive di sola vita vegetativa. Questa
esperienza paterna, indubbiamente sofferta m illuminata da una fede che non
vuole arrendersi all’evidente, rafforza in Mounier la convinzione del valore di
una persona anche quando è priva della capacità di comunicare[23].
Nel Diario egli annota: «E\’ piombata in un grande silenzio, col suo bello
sguardo aperto dal mattino alla sera su Dio sa quale mistero, senza un gesto,
senza un sintomo di conoscenza» (11.IV.1940) e in una lettera alla moglie scrive: «Che senso
avrebbe tutto questo se la nostra piccola bambina non fosse che un pezzo di
carne smarrita non si sa dove, un po\’ di vita tormentata, e
non questa bianca piccola ostia che ci supera tutti, una infinità di mistero e
di amore che ci abbaglierebbe se la vedessimo faccia a faccia… Dal mattino
alla sera, non pensiamo a questo male come a qualcosa che viene portato via, ma come a qualcosa che noi doniamo, per non
diventare indegni di questo piccolo Cristo che è in mezzo a
noi, per non lasciarlo solo, lui che deve trascinarci, per
non lasciarlo solo a lavorare con il Cristo»[24].
E ancora: «Sentivo di accostarmi a quel piccolo giglio senza voce come ad un
altare, quasi ad un luogo sacro dove Dio
parlava con un segno. Una tristezza che consumava profondamente, ma leggera e trasfigurante. E tutto
intorno ad essa, non ho altra parola: un\’adorazione…Mistero, che può essere
solo di bontà; bisogna pure osare dirlo: una grazia troppo grande. Un\’ostia
vivente tra noi, muta come l\’ostia, irradiante come essa. Chissà se non ci è
chiesto di custodire e adorare un\’ostia tra noi, senza dimenticare la presenza
divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu
mi sei anche l\’immagine viva della fede. Quaggiù voi la conoscerete in enigma e come in uno specchio»[25] .
Educare a riconoscere e rispettare il mistero che ogni persona
racchiude, in famiglia
come a scuola, resta uno dei compiti più urgenti della nostra società
dell\’efficienza, che emargina e tende a scartare gli individui meno funzionali e
produttivi.
B. Quale coeducazione[26]
1. L\’educazione nella cultura
dell\’uguaglianza
Perché ci sia co-educazione è indispensabile che gli educatori abbiano
maturato in sé e possano
perciò riproporre una co-cultura, espressione della reciprocità delle voci che
caratterizzano il timbro al maschile e al femminile dell’umano.
Ma la storia ha portato fino a noi una distinta voce maschile, mentre
quella femminile è stata rimasta per lo più invisibile. L\’educazione di Sofia, nell\’Emilio di Rousseau, è solo il fronte pedagogico piú
esplicito e più noto di una mentalità in cui l\’educazione della donna, quando
possibile, è stata finalizzata all\’uomo[27].
Era implicita la convinzione che la donna fosse aiuto, madre, compagna nel
migliore dei casi, derivato antropologico dal modello primordiale maschile (la \”costola di
Adamo\”).
Sul fronte pedagogico, ciò si è tradotto nell\’impegno ad orientare le
fanciulle, anche a costo dell\’occultamento dei loro talenti personali, al
ben-vivere della famiglia,
gerarchicamente strutturata attorno al capo, l\’uomo, modello riassuntivo
esemplare dell\’umanità, che fonda e rende possibile la socialità degli altri
membri (donne, bimbi, anziani).
Si pensava così di assecondare la natura femminile, evitandole carichi
faticosi e inutili, orientando gli interessi verso binari prefissati, i cui
percorsi ideali, nel matrimonio e nella
maternità non potevano essere messi in
discussione, mancando una revisione critica del concetto di natura, di cultura, di scienza.
Il ruolo della scienza, infatti,
è stato decisivo nell\’avvalorare la cosiddetta \”vocazione\” della donna, in sintonia
con la supposta teleologia del corpo, in maniera da convalidare e rafforzare i
pregiudizi culturali antifemministi. Infatti, col pretesto dell\’obiettività, si
sono sottolineati aspetti quali: la
debolezza fisica, il cervello più
piccolo, la disposizione alla sofferenza, il condizionamento biologico dei
cicli, la maternità come pura accoglienza di una vita
immessa dall\’uomo nella
donna già ben determinata[28].
L\’intreccio di spiegazioni
scientifiche, metafisiche e religiose, ha chiuso il cerchio delle possibilità
della pedagogia entro i canoni della trasmissione di un ruolo di supporto, la cui nobiltà
nell\’ordine dei valori e
delle ricompense terrene (affettività, centralità vitale) e ultraterrene
(compensazione per il ruolo di servizio e di subordinazione) faceva da
contrappeso alla rassegnata accettazione di una marginalità effettiva.
Il femminismo (ma meglio sarebbe dire la presa di coscienza
dell\’antifemminismo), nonostante le ingenuità strategiche, le manifestazioni
plateali e talvolta imbarazzanti, ha svolto e continua a svolgere
un ruolo innovativo, scavando sui pregiudizi del modello educativo femminile
tradizionale. Ridurre fino ad eliminare tali condizionamenti è l\’obiettivo principale della fase
dell\’uguaglianza del femminismo, che si esprime adeguatamente dapprima nella
richiesta di leggi di parità
e poi nella richiesta delle pari opportunità. Non possiamo
sottovalutare le faticose conquiste che sono storia relativamente recente:
diritto di voto, nuovo diritto di
famiglia, istruzione allargata, accesso a tutte le
professioni, tutela della maternità.
I frutti dell’emergere del soggetto femminile sono evidenti nell\’abbattimento
delle barriere discriminanti e dei falsi steccati tra i sessi eretti in nome
della natura, della legge e di Dio. Si cerca di eliminare
fino nel profondo delle prime esperienze infantili quei condizionamenti di
genere che possono ostacolare il libero sviluppo della personalità. Sul piano
culturale, l\’impatto provocato dal saggio della Gianini Belotti Dalla parte delle bambine ha confermato la denuncia di un condizionamento
educativo che penetra nei meandri delle strutture mentali che inizia, già prima
della culla, nelle attese, nei preparativi, nelle fantasie del papà e della
mamma, col coro parentale ed amicale[29].
Ma nel campo della cultura (strutture
mentali e comportamenti), il mutamento è stato meno facile del previsto;
relativamente più facile è stato invece il raggiungimento di buoni livelli di istruzione che è giunto
sino al sorpasso alla fine del secolo. Su questo piano, infatti, si continua a registrare
una crescita qualitativa e quantitativa notevole. Le ragazze vanno rapidamente
recuperando alla formazione professionale gli spazi prima occupati quasi
completamente da sogni, romanticismi, cure della bellezza oppure, per le classi
inferiori, da un perenne, faticoso servizio lavorativo (non socialmente
garantito) dentro e fuori casa. Ormai la presenza femminile è consolidata in
tutti i tipi di scuole, ivi comprese quelle tradizionalmente considerate
maschili e in Facoltà come ingegneria, fisica, biologia, giurisprudenza. La
valanga rosa stenta ancora tuttavia a raggiungere i vertici dei sistemi, come
si vede dal forte squilibrio tra base e vertice della struttura accademica
(figura piramidale), che registra la penalizzazione delle donne nella carriera
universitaria.
Sono soprattutto i
contenuti e i modi della
cultura trasmessa che continuano a fare problema. Le ragazze
accompagnano alla gioia e
alla grinta di potersi impadronire della cultura la
constatazione di una estraneità di linguaggi e di contenuti, frutto
dell\’esclusione storica delle donne dal mondo delle lettere e dell\’intelligenza.
La fase di recupero ha il sapore
emancipazionista di un’assimilazione da raggiungere, a dimostrazione di una
uguale capacità intellettiva: studiare come gli uomini, capire come loro, saper
ragionare alla stessa maniera; ma rivela
il suo lato maschilista nell\’assumere sic et simpliciter contenuti, metodi, ottiche non concepiti
dalle donne e perciò spesso inadatti ad esprimerne la prospettiva (l\’ideale della career-woman). In questo nodo
sta l\’ambivalenza della coeducazione intesa come puro perseguimento della meta
dell\’uguaglianza.
Oggi non sembra più opportuno fare riferimento ad un ideale
antropologico unico dell\’essere umano, androgino maschile-femminile, modello
per lui e per lei. Tali artificiose soluzioni presentano un ideale monocorde
dell\’essere umano in soluzioni tendenti a ridurre ad unità semplice ciò che è
complesso.
Ora Sofia non è più educata in funzione del miglior vivere di Emilio,
del suo servizio e del suo piacere, ma ad essere un altro Emilio, a ripeterne i
comportamenti, imitarne il modo di pensare. Si passa dalle scuole per ragazze,
nel senso dell\’educazione domestica e salottiera, orientata alla cura della famiglia e della casa, alle scuole
miste, dove già il termine indica appunto questo mescolare puro e semplice di ingredienti
che perdono così il loro sapore. L\’incontro non è stato -e certo non poteva
essere- un arricchirsi di due voci in dialogo, ma l\’occultamento della voce \’debole\’. Non
emerge la validità di un modo altro di far cultura che, sebbene non sia
definibile in termini concettuali precisi, dovrebbe manifestarsi ogni qualvolta
lo stesso problema assume, in quanto oggetto di studio delle donne,
tonalità interpretative ed epistemologie differenti che lo inquadrano in una
cornice di significati precedentemente trascurata.
Si può dire che la conquista dell’uguaglianza viene pagata col prezzo della
sottovalutazione della propria identità, giacché l\’immissione nel mondo
androcentrico ha comportato la sottovalutazione del valore della femminilità
(corpo, affettività, vissuto, elaborazione simbolica delle donne)[30].
L\’uguaglianza senza differenza rimane stretta tra l\’oblio della
tradizione, la mancanza di modelli culturali alternativi, l\’acquisizione della cultura maschile,
la sottovalutazione del dato genetico
(differenze anatomiche, funzionamento ormonale ciclico nella donna, gravidanza,
parto, allattamento, differenza dei processi di senescenza, longevità, cause di
mortalità).
Troppo spesso, dal
punto di vista psicologico, le donne intellettuali finiscono
col registrare la dissociazione tra donna e intellettuale
(devianze comportamentali e patologie della psiche)[31].
E\’ un problema di identità: alle donne di cultura ben riesce
facile percorrere strade nuove tra tra l\’omologazione al maschile, il disagio,
la fuga (nichilismo).
Qualcuno avanza l\’ipotesi, senza dubbio un po\’ forzata, che la donna neghi se stessa per entrare nella cultura, finendo
col manifestare segni di un conflitto mentale giocato contro il corpo
(anoressia). Tale corpo
femminile apparirebbe come la causa dell\’emarginazione
sociale, per la sua finalità riproduttiva, e rappresenterebbe il destino da
negare onde poter esistere nel mondo culturale dei simboli (intellettuali e
spirituali), oltre i legami della cura e della carne[32].
Non si dovrebbe sottovalutare lo
sforzo di innovazione che le donne vanno facendo nell\’attività lavorativa di
ricerca, con la determinazione a sopportare anche gli inevitabili m