Reazione al Caso “cittadinanza fiorentina ad Englaro”

Premessa

Morta Eluana e ottenuto ciò che volevano, i laicisti chiesero di mettere la sordina alla vicenda, per un curioso senso di pudore che non sapevamo avessero, salvo scoprire ben presto che tali premure erano uno scherzo: infatti sabato 21 febbraio ’09 è stata subito organizzata una manifestazione a piazza Farnese, a Roma, contro la legge sul testamento biologico che il Parlamento aveva messo in dirittura d’arrivo; e il 19 febbraio Beppino Englaro faceva sapere che avrebbe aderito e si sarebbe fatto presente con un collegamento ad hoc.[1] C’è dunque da credere che il desiderato silenzio mirasse – eventualmente – a im­pedi­re il conseguimento di una coscienza più matura e diffusa, contraria alla barbarie vista. Invero, questo caso – che recentemente ha preso le prime pagine dei giornali non solo italiani, ma del mondo intero – merita di essere riconsiderato sia per le molte pieghe che presenta, sia per la vasta portata che in un modo o nell’altro è destinato ad avere.

In effetti, il conferimento al sig. Englaro della cittadinanza onoraria da parte del Comune di Firenze, ha chiarito oltre ogni possibile dubbio che quello di Eluana era tutt’altro che un «caso pietoso», ma piuttosto una battaglia politica di quella stessa area culturale che prima ottenne il divorzio, poi l’aborto, poi promosse il referendum contro la legge 40. Si tratta dunque sia di una rivincita, sia della prosecuzione di un disegno di vasta portata. E, che si tratti solo dell’ennesima tappa, lo chiarisce proprio l’encomio della suddetta delibera fiorentina: «Beppino Englaro […] simbolo di eccellente insegnamento di grande integrità morale, di coraggio umano e civile, in difesa della legalità della laicità della Stato, dell’umanità, della civiltà». Allora, se non si è stupidi, il sugo è chiaro: tutti coloro che hanno contrastato la sua battaglia sono vigliacchi, prevaricatori della legalità laica, disumani e incivili. Sono cioè cattivi maestri, al contrario di Englaro, che prima o poi terrà la sua lectio magistralis, magari insignito di laurea honoris causa.

Dunque vi è un problema politico serio, che non concerne solo il fatto che a Firenze la delibera è stata approvata anche da molti consiglieri eletti col voto cattolico; ma concerne la questione di fondo del come rapportarsi dei cattolici con una tale controparte politica e intellettuale. La curia di Firenze ha reagito con vigore, ma la domanda è se ciò possa essere sufficiente, o se piuttosto non si esiga ben altro dibattito.

Come detto, il caso Englaro ha suscitato alluvioni di inchiostro sia sui media di grande diffusione, sia su organi di nicchia, più consoni a discussioni maggiormente approfondite. Era inevi­tabile. E il motivo di fondo traspare: vi è un’agenda della politica che ha ormai all’o.d.g. la necessità di dare un quadro normativo su temi eticamente sensibili, col risultato di un inevitabile confronto tra il pensiero cattolico e laico; e con gli stessi cattolici divisi tra coloro che sono più sensibili alle visioni del mondo culturalmente anticristiano, e quelli che intendono salvaguardare la dignità di un diverso immaginario. Così se il card. Martini ha sostanzialmente inteso sdoganare le posizioni del sen. Marino, non sono mancate reazioni di segno opposto, e non solo da Socci o dai vertici vaticani, ma anche da una parte del mondo laico (per es. Ferrara e il suo salotto), ovvero di intellettuali cattolici come la Scaraffia , storica militante della causa femminista.

Non è qui il caso di fare una rassegna dei vari interventi. Neppure è il luogo di considerare gli effetti pratici che tale dibattito ha prodotto. È invece significativo che il tema non sia andato in cavalleria con la morte di Eluana, ma continui a essere trattato in varie sedi e modi: dall’articolessa su Repubblica del teologo Mancuso, alle prese di posizione del Foglio a quelle di singoli intellettuali cattolici, come per es. la Tamaro su il Giornale, ecc. E addirittura Civiltà Cattolica dedica il suo editoriale del secondo fascicolo di febbraio proprio a un tale argomento, prendendo garbatamente le distanze dal non possumus di Napolitano. Questa persistenza mediatica del tema in parte si deve al fatto che il Parlamento ha una legge correlativa in corso d’opera. In parte, però, il motivo di fondo è quello suddetto: non si è ancora arrivati a quella chiarezza di posizioni che consentano di conseguire una collocazione politica più avanzata, e cioè una coscienza collettiva più matura. Se poi questo discorso vale in generale, vale anche per il mondo cattolico in parti­colare, tutt’ora erede – almeno così sembra – dell’antica faziosità dei guelfi e ghibellini. E questo effettivamente è un problema tutto cattolico, perché se diversità di posizioni sono legittime e salutari, quando si arriva allo scontro fazioso o ad atteggiamenti di disprez­zo/superiorità verso altri cattolici, eviden­temente si ripresenta quella spina che fu della Chiesa di Corinto, e che Paolo col massimo impegno cercò di estrarre dal Corpo Mistico.

Sembra dunque ragionevole tornare su un argomento che del resto è impossibile esaurire con un solo intervento: basti pensare all’enorme questione dottrinale del rapporto tra etica e politica, che in questa sede non sarà toccata che minimamente.[2] Obiettivo di questo intervento non è dunque di sentenziare, ma di porre scenari e interrogativi consistenti che, volendo, si potrebbero anche leggere come una indiretta risposta a Mancuso e ad altri. Si potrà o meno condividere la mia posizione e il mio stile letterario: non chiedo consenso. Spero invece si riconosca che implicitamente propongo domande non eludibili, e obiettivamente meritevoli di essere discusse.

Venditti, su La 7, venerdì 7 marzo ’09 ha richiamato il fatto che il coma persistente pone un problema di potere. Ha ragione. E qui vengo alle domande di cui sopra. A chi lo diamo questo potere? Al tutore? E se il tutore fosse tentato di optare per la morte del «tutelato»: a parole per nobili motivi, ma di fatto per bassi o venali interessi? Può la legge disinteressarsi di una tale eventualità? C’è un problema di immaginario collettivo, che è il nodo del problema politico, ed è insieme anche il nodo del problema pastorale. L’im­maginario di oggi anticipa la società di domani. Quale dunque l’immaginario migliore? Quello proposto da Ferrara, ossia che nessuno può essere lasciato morire, sinché vi sia qualcun altro disposto a farsene carico, oppure quello in cui qualcuno ha il diritto di uccidere qualcun altro, come l’antico pater familias? Ma se l’immaginario collettivo è un fronte critico, allora lo è anche l’insieme degli agenti sociali che lo formano: intellettuali e mass-media. E dunque si pone il problema delle linee culturali ed editoriali anticristiane. Storicamente la Chiesa reagì fin che poté con la censura (&Dario Fo e il suo «Mistero buffo», ecc.); poi col nulla della sopportazione passiva. Due linee entrambe perdenti. Vogliamo continuare così, o è il caso di cominciare a immaginarne una terza? Ossia: i cattolici come prendono posizione di fronte alla de-costruzione e ri-costruzione dell’imma­ginario? Perché non vi è dubbio che la secolarizzazione ha la sua radice qui, nella de-costruzione dell’immagi­nario cristiano, ottenuta dal pensiero laico con la tecnica delle battaglie per il riconoscimento. Benedetto XVI sta combattendo in tutti i modi per ottenere un controriconoscimento da parte della cultura laica, in parte con successo, in parte suscitando incrementi di ostilità. Ha torto il papa nella sua azione, o gli intellettuali cattolici dovrebbero seguirlo e combattere per quel controricono­scimen­to che porti equilibrio, e che è essenziale per arginare l’emorragia massiva di fede? Infine: siamo proprio sicuri che i «laici» siano maestri di tolleranza? Non si sta diffondendo un’intolleranza nuova, basa­ta su miti recenti, che vanno denunciati per ciò che sono?[3]

Il portato politico e pastorale di queste domande è chiaro. Mi auguro che le questioni poste suscitino quel dibattito che non meritano perché le ha poste un filosofo o un teologo, ma per se stesse, proprio perché impegnative. E chi dovrà affrontare le questioni impegnative: chi ha cuore e testa, o chi è specialista nel fare propaganda?

 



[1] In effetti il sacro doveroso silenzio entro le cui impenetrabili mura elaborare il proprio lutto, è durato assai poco: lo stesso 21 febbraio Englaro era infatti ospite su Rai3, nel popolare programma di Fazio, e per circa 20 minuti in una delle fasce di massimo ascolto, prima delle 21. Naturalmente il padre di Eluana può fare ciò che crede meglio, anche diventare il portabandiera di una legge sull’eutanasia o candidarsi al Parlamento Europeo. Questo non riguarda la coscienza cattolica, ma la sua. Però tali comportamenti, incoerenti con dichiarazioni anteriori, rendono evidente che quello di Eluana non è mai stato un caso pietoso di natura privata, proprio perché il padre ha cercato in ogni modo i riflettori, sia prima, sia dopo la morte della figlia. Neppure mi scandalizza la pecunia sonante entrata in casa coi suoi due libri su Eluana, che certo non hanno avuto tre soli lettori: c’è denaro e denaro, e non tutto è benedetto. No, io il padre di Eluana non lo approvo, ma lo difendo. Cioè non mi interessa e non è mio compito entrare nei misteri della sua coscienza. Non posso però tacere che Fazio, nella circostanza, si è fatto carico di chiedergli scusa a nome di tutta Italia. E allora questo è troppo, perché diventa accusa pubblica nei confronti di tutti coloro che – semplicemente – hanno dissentito non dalla coscienza privata di un padre, ma dalla battaglia politica del sig. Englaro. E se questo fosse già gravissimo su La 7, diventa veramente intollerabile in Rai. Un conduttore Rai deve aver rispetto anche di coloro che non la pensano come lui. Non è possibile che un tale criterio debba valere solo per Vespa.

[2] Basti pensare alla questione dell’articolazione tra etica privata ed etica collettiva, all’etica dei corpi intermedi (non esclusi sindacati e partiti), al problema dell’interferenza/circolarità tra norma ed etica, ecc. Habermas ha posto una questione molto seria: lo Stato ha bisogno di coesione civile, ma la coesione civile è il frutto di un’etica condivisa, che né lo Stato – salvo sia totalitario –, né i partiti possono promuovere. E allora? Da dove i rimedi ai danni della frammentazione? Ebbene, sul caso Englaro si è consumato di fatto lo scontro tra due linee di pensiero opposte: una favorevole a incrementare la frammentazione, l’altra contraria. Che la Bonino si schieri sul primo fronte non stupisce. Ma, quando intellettuali cattolici di peso la seguono, che si deve pensare? Che poi non si debba essere così ingenui da supporre che la norma sia il collante risolutivo, è chiaro. Ma il problema è che prima della norma vanno discusse le strategie politiche di fondo.

[3] La recente querelle suscitata dalla revocata scomunica a quattro prelati anticonciliari, ne è un esempio emblematico. Scrive Benedetto XVI nella Lettera ai Vescovi del 10 marzo 2009: «E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo, almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può essere lui pure trattato con odio, senza timore e riserbo». Chi non sia fazioso vede bene l’acutezza e la profondità del giudizio del Papa: almeno in Italia, purtroppo, è così. Siamo ammalati di risentimento sociale: chi apre il cuore agli immigrati, vorrebbe la Lega all’inferno; chi si fa paladino della libertà, è anticomunista; chi difende i magistrati, vorrebbe Berlusconi sulla graticola; ai veltroniani si è bloccata la digestione vedendo Prodi da Fazio su Rai3, e sentendo ciò che ha detto, ecc. C’è una disabitudine cronica a capire le ragioni altrui, mentre si è diventati maestri nel denigrare, ridicolizzare, fraintendere, impedire agli altri di farsi capire. Questa non è solo cultura scandalosa, ma suicida.