Mini Dossier “Silone e il terremoto” dal libro “Percorsi di una coscienza inquieta”

Dossier Silone e il Terremoto dal libro Ignazio Silone. Percorsi di una coscienza inquieta, 

 di Attilio Danese e Giulia Paola Di Nicola

 

 

Secondino Tranquilli ( Ignazio Silone) era uno studente ginnasiale quindicenne quando  il suo mondo crollò: nel 1915, il terremoto distrusse la Marsica, con 28.000 morti. Pescina fu il paese che, dopo Avezzano, San Benedetto e Gioia dei Marsi, ebbe il più alto numero di vittime. Sopravvissero 1500 abitanti su una popolazione di 5000. In quel 13 gennaio (giorno fissato nella memoria come  una pietra miliare), mentre i compagni del Seminario minore erano nel panico e i superiori lanciavano ordini, Secondino gridava: “Viva la libertà”[1],  prendendo la via delle scale. Andava incontro ad un cataclisma apocalittico: scompariva d’un sol colpo tutto il suo mondo, costringendolo a prendere atto della fragilità di tutto ciò che aveva amato: la casa, la famiglia, la chiesa e quegli ideali che gli erano sembrati intoccabili. «Nel terremoto… morivano ricchi e poveri, istruiti e analfabeti. Autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie»[2].

La morte, che sembrava vittoriosa ovunque, imponeva un diverso atteggiamento di fronte alla vita, tanto più che la madre era rimasta sotto le macerie. Lo impressionò la cattiveria umana. Assistette ai saccheggi, allo scatenarsi dell’avidità, all’emergere dei più brutali istinti soffocati qualche ora prima dal perbenismo, all’assassinio impunito di un parente, al furto del portafoglio dal corpo della madre morta da parte di uno zio, mentre il figlio fingeva di dormire. Una concorrenza spietata di tutti contro tutti. Gli eventi, suo malgrado, lo costringevano a prendere atto della crudele necessità che domina il mondo.

 

«S’è fatta d’improvviso una fitta nebbia. I soffitti si aprivano lasciando cadere il gesso. In mezzo alla nebbia si vedevano ragazzi che, senza dire una parola, si dirigevano verso le finestre. Tutto questo è durato venti secondi, al massimo trenta. Quando la nebbia di gesso si è dissipata, c’era davanti a noi un mondo nuovo. Palazzi che non esistevano più, strade scomparse, la città appiattita… E figure simili a spettri fra le rovine… Un vecchio avaro, l’usuraio del villaggio, era seduto su una pietra, avvolto in un lenzuolo come in un sudario. Il terremoto l’aveva sorpreso a letto, come tanti altri. Batteva i denti per il freddo. Chiedeva da mangiare. Nessuno lo aiutava. Gli dicevano: «Mangia le tue cambiali». È morto così… Abbiamo assistito a scene che sconvolgevano ogni elemento della condizione umana. Famiglie numerose il cui unico sopravvissuto era il figlio idiota… Il ricco che non aveva nemmeno una camiciola di lana per difendersi dal freddo… Dopo cinque giorni ho ritrovato mia madre. Era distesa presso il camino, senza ferite evidenti. Era morta. Io sono molto sensibile. Tuttavia non ho versato una lacrima. Qualcuno ha creduto che non avessi cuore. Ma quando il dolore supera ogni limite, le lacrime sono stupide… Mio fratello è stato trovato in un secondo tempo. A forza di urlare aveva la bocca piena di polvere»[3] .

 

La catastrofe segnò praticamente la fine della famiglia Tranquilli (oltre alla madre e al padre, quattro dei sei fratelli – Elvira, Maria, Cairoli, ancora Maria – erano morti ancora piccoli e Domenico si era spento a 14 anni). Il fratello più piccolo, Romoletto, nato nel 1904, che si trovava con la madre al momento del terremoto, fu tirato fuori dalle macerie ferito alla spalla[4]. Ai due orfani restava la nonna paterna, l’indimenticabile figura di Maria Vincenza, alla quale furono affidati e che provvide per Romolo alla sistemazione in un istituto salesiano. Secondino invece restò a Pescina (con una parentesi al Seminario di Chieti) per essere poi accolto all’Istituto S. Pio X di Roma[5].  I soccorsi del dopo terremoto tardavano ad arrivare ed erano poco efficaci. Alle pendici della collina fu attrezzato un villaggio di tende per i sopravvissuti. Rimasto solo, Secondino dovette riorganizzare tutto il mondo all’esterno e dentro di sé. Si trattava di elaborare un lutto di portata metafisica, senza sapere su chi poter contare. Non è possibile leggere e cercare di comprendere il “caso Silone” senza tentare d’immedesimarsi con la profondità del trauma che subì[6].

Andò ad abitare nel quartiere più povero del Comune, dove erano state approntate baracche prive di servizi igienici, che potevano essere raggiunte solo attraversando un fosso chiamato “Tagliamento”. Secondino e i suoi amici erano scandalizzati dal contrasto tra le sofferenze proprie e della povera gente e per contro i misfatti dei rappresentanti dello Stato, che si aggiungevano ai tanti crimini rimasti impuniti. L’ideale della giustizia perdeva ogni riferimento oggettivo.  «Simili episodi di violenza, con l’inevitabile seguito di arresti di massa, di processi, di esorbitanti spese giudiziarie, di condanne penali, rafforzavano negli animi dei contadini, come è facile immaginare, la sfiducia, la diffidenza, la rassegnazione. Lo Stato riacquistava i suoi connotati di irrimediabile creazione del diavolo. Un buon cristiano, se vuol salvarsi l’anima, eviti pertanto il più possibile ogni contatto con esso. Lo Stato è sempre ruberia, camorra, privilegio e non può essere altro»[7]. Lui aveva perso la mamma, la famiglia, i beni e la gente continuava  a rifugiarsi ancora nella scappatoia del “Farsi i fatti propri”.

Secondino esprime il suo sdegno su “Avanti”: «Chi ha vissuto queste ore non le dimenticherà più e non dimenticherà il proprio avvilimento e il proprio furore al pensiero di appartenere a uno Stato civile che si dice anche grande e potente, la cui capitale non era che a quattro ore di treno da paesi abbandonati alla sventura come se fossero dispersi in una contrada barbara e deserta»[8]. Il “Tagliamento” finì col segnare la linea di un fronte di guerra civile paesana che separava i ribelli dagli uomini perbene. «Per prima cosa si procedé all’oscuramento notturno mediante la distruzione a sassate delle lampade di illuminazione pubblica. Così divenne pericoloso, anche per i carabinieri, avvicinarsi al Tagliamento durante la notte. I malcapitati erano accolti a sassate di invisibile provenienza»[9].

 

Dolore, solitudine, paura del futuro, rabbia segnarono decisamente un diverso percorso di vita. In una lettera scritta da Pescina al fratello, il 25 maggio 1915, quando fu costretto a lasciare il Seminario di Chieti (l’edificio era stato requisito dal governo per uso ospedaliero), vengono in evidenza da una parte lo strazio per la perduta famiglia e dall’altra la preoccupazione di ritrovarsi senza mezzi di sussistenza.

«Carissimo fratello,

ogni disgrazia è seguita da disgrazie! E il terremoto ha voluto dietro di sé la guerra e la guerra vorrà ancora!… Chi sa cosa vorrà? Ed io per la guerra sono dovuto tornare a Pescina, che il Seminario di Chieti l’ha requisito il governo come ospedale militare.

Ahimé! Son tornato a Pescina. Ho rivisto con le lagrime agli occhi le orride macerie, sono ripassato tra le misere capanne coperte alcune da pochi cenci come i primi giorni, dove vive con una indistinzione orribile di sesso, età e condizione la gente povera.

Ho rivisto anche la nostra casa dove vidi con gli occhi esausti di piangere, estrarre la nostra madre, cerea, disfatta. Ora il suo cadavere è seppellito eppure anche là mi pare uscisse una voce. Forse l’ombra di nostra madre ora abita quelle macerie inconscia della nostra sorte pare che ci chiami a stringerci nel suo seno.

Ho rivisto il luogo dove tu, fortunatamente fosti scavato.

Ho rivisto tutto ed ora…ora cosa farò?

Gli esami non li potrò fare perché dovrei andare in qualche città e bisognerebbe del denaro che non si trova, ma poi, ma poi dove andrò? Come è incerto e forse terribile il mio avvenire. Mi veggo cogli studi interrotti, privo di ogni aiuto materiale e morale; sì anche morale!

Già un barlume di speranza mi era apparso: mentre ero a Chieti (venne) a trovarmi una Dama di Corte di S. M. Regina Elena che mi promise di incaricarsi di me. La Dama faceva  parte del patronato della Regina Elena per gli orfani e mi disse di essere già venuta a visitare te nel S. Cuore. Il nome della Dama non lo so; se tu lo potessi sapere scrivimelo subito.

Io non so come fare, cerco di sperare ancora, poi…venga quel che venga l’accetterò. Se tu sapessi qua cosa si patisce!… Se tu puoi fare qualcosa per me ti prego di farlo. Raccomandami a qualche Signora che ti visitasse; consigliati col superiore al quale darai i miei umilissimi ossequi.

Baci affettuosissimi

                                                                                                                                           Secondo

 

PS. Rispondimi subito, subito. Ora sto alla baracca con zio Peppino, la nonna, zia Maria Luigia, Domenico, zia  Agata è tornata dal manicomio senza che zio Peppino la venisse a riprendere, se fosse venuto ti sarebbe venuto a trovare. Tutti ti salutano»[10].

 

Dopo il terremoto il profilo psichico di Secondino cambiò. Il terremoto mostrava che il mondo che era come lo scenario di un teatro inconsistente, metafora dello sconvolgimento necessario per poter vedere oltre le illusioni infantili. In Il seme sotto la neve Pietro farà ugualmente riferimento alla metafora del teatro per descrivere l’altro crollo, quello del mondo politico e racconterà alla nonna come cambia la realtà quando si esce dal mondo degli uomini per bene e si diviene abitanti della stalla, tra Infante e gli animali: «Mi sembra che, fino a quel giorno, io non sia stato me stesso, ma abbia rappresentato una parte, come un attore a teatro, acconciandomi perfino una maschera adeguata e declamando le formule prescritte. Teatrale convenzionale finta m’appare ora tutta questa nostra vita… Considerato a occhio nudo, come ora a  me è dato di vederlo, il nostro paese reca tratti evidenti della fragilità e provvisorietà delle quinte di teatro: una notte avremo un terremoto un pò più rude dei soliti e l’indomani la rappresentazione sarà finita»[11].

 

 

Dopo molti anni torna a Pescina e i ricordi del terremoto sono ancora presenti:

Nel racconto Ai piedi di un mandorlo Silone racconta le sue impressioni alla vista del paesello:

«Cos’è la particolare tristezza che prova chiunque torni, dopo anni d’assenza, in una contrada ove già visse a lungo, e sosti a osservarvi, non visto oppure non riconosciuto, l’ordinario svolgersi della vita? Sto cercando di capirlo mentre dall’alto di questa collina contemplo il mucchio di case grigie e nere del mio paese nativo… al paese nessuno mi aspetta. Di buon passo ho preso la scorciatoia tra le siepi di rovi e le vigne, ma nella salita, m’è venuto un pò d’affanno. Eh, non sono più un ragazzo. Nella memoria questo sentiero era meno erto e più lungo. Invece, appena sormontato il piccolo colle, ecco già di fronte a me il paese.

Esso c’è apparso all’improvviso, nella sua antica e oscura voragine. A quella vista, non so perché, m’è mancato il respiro e ho rallentato il passo. Mi sono guardato attorno, ho cercato una pietra o una zolla su cui riposare. Non ho fretta, dato che nessuno mi attende. Adesso mi trovo ai piedi di un mandorlo, un pò discosto dal sentiero. Appena alcuni passi più sotto, dove la strada carrozzabile fa gomito, si alza la croce che i padri passionisti eressero molti anni or sono, al termine d’una loro predicazione di quaresima.

Di qui posso osservare la parte più antica dell’abitato. È la prima ora della sera, l’avemaria dev’essere suonata da poco. Una leggera nebbia violacea, formata dall’umidità e dal fumo dei camini, aleggia sulla fossa del fiume e dissimula, tra le case e le stalle, i vuoti lasciati, circa mezzo secolo fa, dal terremoto.  Vedo una lunga fila di carri, di ritorno dalla campagna, risalire la strada accanto al fiume e smistarsi tra le case. Dalla chiesa escono alcune donne e bambini: sarà in corso qualche novena. Vedo un uomo fermo sulla porta dell’osteria, un pò sbieco, con una spalla appoggiata allo stipite della porta. Non m’arriva però alcuna voce, non il minimo rumore, forse a causa del vento che soffia in senso contrario. È come se assistessi alla proiezione d’un vecchio  film muto, un pò logoro e con scarsa luce.

Di questo angusto luogo, in altri tempi, io conoscevo ogni vicolo, ogni casa ogni fontana e quali fanciulle, in quali ore, vi attingessero acqua: ogni porta, ogni finestra, e chi vi si affacciasse, in quali momenti. Per una quindicina d’anni questo fu il chiuso perimetro della mia adolescenza, il mondo noto e le sue barriere, lo scenario prefabbricato delle mie angosce segrete. Ma – adesso me ne rendo conto – il sentimento che poc’anzi m’ha fermato il passo non è la comune ansietà degli emigrati, è il cruccio o sgomento di certi uomini anziani di fronte al fatale scorrere del tempo: bensì qualcos’altro. Cerco di capire. Questa realtà che adesso mi sta di fronte, io l’ho portata per anni in me, parte integrante, anzi centrale di me stesso, ed io sentivo in essa, non certo al suo centro tuttavia, a mia volta, sua parte integrante. Invece ora che l’ho davanti, essa mi si rivela per quello che è, un mondo estraneo, che continua a vivere per conto suo, anche senza di me, nella maniera che gli è propria, con naturalezza e indifferenza. Non diversamente, in altre parole, di quello che mi apparirebbe un formicaio. Così, penso, l’ulteriore svolgersi della vita umana sarà visto, dopo un certo numero di anni, da un morto, se gli è concesso di vedere.

Seguendo questa riflessione, sento chiarirsi la confusa apprensione di poc’anzi in uno stato d’animo umile e desolato: quello dell’irrimediabile solitudine e precarietà dell’esistenza individuale. Mi chiedo perché sono tornato e penso di ripartire subito. Ma un rumore di passi che si avvicinano mi trattiene. È una vecchia donna, vestita poveramente di nero, che porta sulle spalle un pesante fardello di rami secchi. Cammina curva come una bestia da soma. Uno spettacolo certo non nuovo dalle nostre parti, a mezza costa tra il piano e la montagna. Troppo attenta a dovere posare i piedi ella non si accorge di me, che la riconosco. Era una nostra vicina di casa. Un suo figlio, alle scuole elementari, era mio compagno di classe e di giuochi. Quali disgrazie possono averla ridotta in quelle condizioni? Suo marito, i suoi figli non vivono più. Mi alzo per raggiungerla. Forse accetterà di essere aiutata nel trasporto della legna»[12].

In La pena del ritorno Silone racconta di un precedente ritorno al paese già all’età di 25 anni circa, in treno e senza valigia: «Durante il viaggio rimasi a lungo con la testa appoggiata al finestrino. Attraverso i vetri vidi venirmi incontro il paesaggio per tanti anni conservato nella memoria come un presepio, i campielli sassosi, le montagne brulle oscure disabitate; vidi apparire e sparire le stazioncine deserte, porte e finestre sprangate, i muri cadenti, le macerie. Nell’oscurità, dall’aspro odore, riconobbi l’origine contadinesca degli uomini e delle donne pigiati assieme nella carrozza, assieme ai loro fagotti valigie casse sacchi, rimpinzati di acquisti fatti in città»[13].

 

Quando ricorda la madre il terremoto giganteggia ancora:

La vita non facile dei genitori e la loro morte furono certamente esperienze di dolore che Secondino ripropose variamente nei suoi scritti. La storia di Matalena in Vino e Pane, anch’essa travolta dalle macerie della casa, fa pensare all’immaginario di Secondino sul vissuto materno:

«La buon’anima di mio marito aveva penato sei anni in Argentina per poterla costruire (la casa). Tutti i soldi che mi rimandava, servivano per i muratori e i falegnami. Quando crollò la casa era  finita appena da tre mesi. Io rimasi sepolta in cantina per una settimana. Veramente non sapevo che si trattasse di un terremoto… Quando, dopo una settimana, le macerie che si erano accumulate sopra il mio rifugio furono sgombrate e fu aperta una buca attraverso la quale potevo uscire, non mi sentivo il coraggio di farlo. “Lasciatemi morire qui” gridavo alla gente “Non ho più voglia di vivere”.. Il racconto riproduceva ogni volta nella povera donna una lunga crisi di lagrime»[14].

Forse per questa associazione tra femminilità e dolore, la figura della madre sarà  associata  ripetutamente all’icona dell’Addolorata. Ogni madre gli apparirà particolarmente vicina al dolore sconsolato della madre del Cristo, specie se con un figlio ingiustamente perseguitato. Così è per la mamma di Andrea Cipriani, la mamma di Luca, la nonna-mamma di Pietro Spina, in Il seme sotto la neve. 

«“Pareva l’Addolorata – ha scritto Silone della mamma di Luca – alla quale hanno tolto il figlio. La sua vita, si può dire, si era fermata al giorno della tua condanna”. A quelle parole lo sguardo di Luca si velò di lagrime…”Dimmi, cantava ancora qualche volta? Quando io ero a casa, lavando i panni, ammassando il pane, usava sempre cantare”. “Sì, cantava la sera per addormentare un mio fratello più piccolo” disse Andrea”. Erano nenie assai dolci e malinconiche, che forse lei stessa inventava, perché mia madre diceva  di non averne mai udite di simili”»[15].

La morte della madre ha avuto sicuramente un ruolo importante nello sbandamento adolescenziale di Secondino. Del resto Silone stesso – come si vedrà più avanti – racconta  del disorientamento conseguente al fatto di non sentirsi chiamato da alcuno alla sera, quando tutti gli altri ragazzi si ritiravano in famiglia obbedendo alla voce dei genitori.

La figura materna tornerà a giganteggiare nella memoria di Silone tutte le volte che sentendosi amato da don Orione o da Gabriella Seidenfeld[16], vedrà quasi risorgere in sé i tratti del figlio educato e buono che era stato.

Alla fine degli anni ’50, un giorno Silone chiede a Raffaele  se gli può trovare una coperta tessuta dalla madre,  la pagherebbe qualsiasi cifra. Raffaele gli mostra alcune coperte abruzzesi tessute a mano: Silone riconosce in una bellissima coperta di lana, dagli inconfondibili colori rosso e nero, quella uscita dalle mani della madre. Naturalmente il cugino non accetta nulla in cambio, ma un giorno Maria è incaricata di portare da Roma a casa di Raffaele una medaglia d’oro che Silone aveva ricevuto per un premio[17].

 

La figura della nonna rientra ancora nella memoria del terremoto:

In Il seme sotto la neve Silone descriverà una splendida figura di nonna, dal viso “pallido e triste” e la testa “come modellata nell’avorio… i lineamenti scarnificati, sottili, puliti, netti, con la pelle aderente alle ossa”, dal “frequente e affannoso respiro che solleva il petto”, dai movimenti che hanno “una grave e come improvvisa pesantezza, appena dissimulata dall’abbondanza di stoffe dell’antiquato abbigliamento”. Aggiunge subito dopo Silone: «La sola cosa viva della sua persona restano le mani che  ella protende verso il fuoco per rianimarle; mani esili lunghe scarne, avvizzite come vecchi sarmenti, agitate da un leggero tremore e, a osservarle meglio, un pò rattrappite; controluce, esse rivelano l’intreccio delle articolazioni leggermente deformate dall’artrite, con i ceppi e le divaricazioni delle vene ingrossate dalla sclerosi. Solo il cerchietto della fede conserva la sua capacità e incide nell’anulare sinistro una cesura d’ombra»[18]. Soprattutto la nonna è descritta lapidariamente come esperta nell’arte di “ingoiare amaro e sputare dolce”[19].

 


[1] Testimonianza del compagno Mauro Amiconi, riportata in Don Luigi Orione e la Piccola Opera della Divina Provvidenza,  a cura di D. Venturelli, Edizioni don Orione, Roma 1998, VI/I (1912-1918), p. 531.

[2] US, 818

[3] P. Guth (a cura di), Quand Silone raconte sa vie, in «Le Figaro Littéraire», 29 gennaio 1955, 1 e 4, in RSI, LXX.

[4] Romolo fu affidato al Patronato “Regina Elena” insieme ad altri ragazzi. La Marchesa Spalletti Rasponi riuscì a fare approvare in Parlamento una legge a tutela degli orfani della Marsica in tempi brevissimi e il patronato “Regina Elena” affidò a don Orione gli orfani. Cf  A. Lanza, Don Orione e la Contessa Spalletti, «Messaggi di Don Orione», 32 (2000) n. 100, pp. 51-57.

[5] L’Istituto o Collegio Pio X, situato in Via Etruschi 36, al quartiere Tiburtino, era tenuto dai Giuseppini, cui apparteneva  Don Angelo Zia, in stretta collaborazione con Don Orione ad Avezzano.

[6] L’invito a comprendere, e non a giudicare, “l’opera di un autore tra i più tormentati e inquietanti della civiltà letteraria del Novecento” viene anche dal libro di V. Giannantonio, La scrittura oltre la vita. Studi su Ignazio Silone,  Loffredo Editore, Napoli maggio 2004

[7] US, 817.

[8] I. Silone, “Avanti” del 18 gennaio 1915.

[9]  US, 814-815.

[10] La Lettera è riportata nell’Appendice di D. Giardini, Ignazio Silone. Cronologia della vita e delle opere,   Adelmo Polla editore, Roma 1999. Sull’argomento cf L. Biondi, Ignazio Silone: lettere a don Orione, in «Messaggi di don Orione», 4 (2001), 79-87. Al di là dell’angoscia per la situazione senza sbocco, la Biondi sottolinea la presenza di una speranza tenace e attiva che spinge Silone a cercare già a quindici anni “uscite di sicurezza”  percorrendo ogni possibile spiraglio, in specie quello della Dama di Corte. Romolo undicenne indirizza una lettera alla “Magnanima Regina” solo due giorni dopo la lettera riportata di Secondino, molto probabilmente suggerita dallo stesso fratello, se non dettata dal superiore di Romolo. 

[11] SN, 727.

[12] I. Silone, Ai piedi di un mandorlo, racconto apparso nel 1970 in un fascicolo fuori commercio, curato dall’editore De Luca, omaggio di amici di Ignazio Silone per il suo settantesimo compleanno, rip. in RSII, 1252-1254 e in N. Di Paolo, Emigrazione: da Ellis Island ai giorni nostri, Ed. del Paguro, Salerno 2001, 82-3.

[13] US, 912.

[14] VP, 281.

[15] SL, 315-16.

[16] Si veda la lettera  di Ignazio Silone a Gabriella Seidenfeld in D. Biocca, La pena del ricordo: Ignazio Silone e Pescina dei Marsi, in “Abruzzo contemporaneo”, 7 (1988), 9-23, 21. 

[17]  Notizia riportata dal libro di M. Moscardelli, La coperta abruzzese – Il filo della vita di Ignazio Silone Aracne Editrice, Roma  2004, cfr anche http://www.amici-silone.net

[18] SN, 524.

[19] Cf SN,  521-533, saltim.