Lunedì 13.II.2012 ore 17,45 un nuovo ciclo Vox Dei, il fascino della musica sacra a cura di Benedetto di Curzio.

 

 

SALA DI  LETTURA

 

Salotto culturale 2011    -X edizione

col Patrocinio della Città di Teramo, della Provincia di Teramo, della Regione Abruzzo, Del MBC, della Diocesi di Teramo, dell’Arciconfraternita SS. Annunziata

Lunedì 13.II.2012 ore 17,45  presso la Sala “Prospettiva Persona” continuano gli Incontri del Salotto Culturale  in Via N. Palma, 33 – Teramo  con  un nuovo ciclo Vox Dei, il fascino della musica sacra  a cura di Benedetto di Curzio.

L’incontro del prossimo lunedì fa perno  sul   Magnificat in re maggiore BWV 243 di J.S.Bach e sul Te Deum di A. Bruckner.

Si potranno  ascoltare alcuni brani antologici.  

La cittadinanza è invitata

 

Approfondimento

 

Il Magnificat in re maggiore BWV 243 è una delle più significative opere vocali di Johann Sebastian Bach. Il titolo di questa meravigliosa cantata sacra ­- in lingua latina – per orchestra, cinque solisti (due Soprani, un Contralto, un Tenore e un Basso) ed un coro a cinque voci è tratto dal cantico presente nel primo capitolo del Vangelo di Luca (Lc 1, 46-55), dove la Madonna, ispirata dalle lodi della cugina Elisabetta, magnifica appunto e ringrazia Dio: in primo luogo per aver compiuto “grandi cose” avendole concesso di generare il Messia grazie all’incarnazione del quale “tutte le generazioni” la chiameranno “beata”, e in secondo luogo per avere Jhwh soccorso il popolo ebraico, mostrando misericordia ad Israele.

Scandita in dodici parti la Cantata inizia, trionfale e solenne, giusto con un Magnificat, intonato tra squilli di trombe dal coro che più volte torna a ripetere questo verbo di lode al creatore. Segue il brano Et esultavit: bel canto melodioso, interpretato dal soprano, con accompagnamento orchestrale. Terzo movimento – Quia respexit humilitatem – è ancora un’aria per soprano solista, cui si affiancano oboe e basso continuo. Il pezzo prosegue, senza cesura, passando il testimone al successivo Omnes Generationes, in cui il coro emerge dal pieno orchestrale con l’insistito ribadire le sole parole “tutte le generazioni” (quelle cioè che chiameranno beata la Madonna). Segue il Quia fecit mihi magna [qui potens est], intonato dal Basso con accompagnamento d’organo, a manifestare giubilo per le “grandi cose” (magna) che Dio ha concesso a Maria, la cui voce è affidata a un registro maschile, come altrove d’altronde, allorché il testo tratti della potenza divina. È quindi la volta del duetto (per Contralto e Tenore) Et misericordia: sorta di canto in forma di preghiera, guidata da violini e flauti. Trombe e timpani sostengono poi il coro, a rimarcare come il Signore: Fecit potentiam [in brachio suo, dispersit superbos mente cordis sui], ossia “dispiegò la potenza [del suo braccio, disperse i superbi nei pensieri del loro cuore]”. Nel pezzo successivo il Tenore ricorda con accenti drammatici che Dio:  Deposuit potentes [de sede et exaltavit humiles], cioè “depose i potenti dal trono ed esaltò gli umili”. E, dopo un commovente dialogo tra i flauti e il contralto (Esurientes), tocca al Trio (Suscepit Israel) fra i due Soprani e il Contralto che, guidati dagli oboi, danno voce a un Adagio d’estrema intensità espressiva, cui fa seguito il coro maestoso a declamare il Sicut locutus est [ad Patres nostros]: “come era stato promesso [(da Dio) ai nostri padri]”. Infine, sostenuto da tutta l’orchestra, il coro modula con gravità il Gloria patri, che termina con la melodia del Magnificat iniziale, destinato a concludersi in un amen solenne. Essendo la regina delle Cantate sacre bachiane, il Magnificat ha sempre goduto di vastissimo interesse discografico.

 Liberamente tratto da http://www.wuz.it/recensione-disco/5686/magnificat-bwv243-johann-sebastian-bach.html

 

Bruckner, ormai maturo e affermato,  compone il Te Deum nel 1881.

Anton Bruckner, rivolto per predestinazione verso l’invisibile, con il conforto di una comunità che segue coralmente le tracce spirituali dei padri. Egli rende solenne ogni cenno compositivo come l’ostensione di un calice.
Ad Ansfelden, in quel paese di contadini dell’Austria del Nord, provinciale e chiuso seppure non lontano da Vienna, la musica nella seconda metà dell’Ottocento era non solo servizio ma anche sentimento religioso.
Lo crea di getto, come quando, stretti da un’emozione intensa, ci viene l’impulso di scrivere una poesia. Ma lo rivede per quasi tre lustri, come per ripensare molte volte al modo di ringraziare per un lascito importante.
Nell’opera investe non solo tutto il suo credo, ma anche il patrimonio linguistico musicale appreso dalla tradizione sacra: un modello gregoriano di vocalità, evoluzioni virtuosistiche tipiche di certa decoratività tardo-barocca, preziosa polifonia rinascimentale. Si cimenta nell’ordire una fuga intricata e vorticosa, ma si serve con sapienza di una coralità spiegata, tripudiante.
La scelta degli strumenti partecipa alla gran festa di devozione. L’organo aggiunto in funzione di pedale è lo stagno nel quale si riflette la sonorità di tutta l’orchestra bruckneriana, immenso organo dai registri lucenti, tanto pronti al clamore quanto a nascondersi sotto un discreto e tenero recitare delle voci soliste.
L’accostamento Te Deum-Nona Sinfonia, non fa che assecondare il pensiero mai realizzato del compositore di adattare l’opera sacra a finale suggello dell’ultima sinfonia. Del finale restano invece una quarantina di pagine. Invero alla foggia di un’opera d’arte concorre anche il caso, e l’incompiutezza assume un valore significante: l’ultimo movimento resta un lungo adagio, vario come la fantasia riepilogativa di un’esistenza intera. Il quadro dissolve come il rassegnato svigorirsi del soffio vitale di fronte al dubbio irrisolto tra lodare Iddio perché la morte è vita o maledirlo perché la vita è morte.
Bruckner sapeva che sarebbe stato l’ultimo lavoro: i precedenti di Beethoven e Schubert rappresentavano più che un presagio. Per questo lo pensa grande, testamentario, ricco di lasciti e autocitazioni. Sarebbe un patetico memoriale se lo spirito forgiante non si fosse prodigato per rigenerare quella materia – già impiegata – per una forma nuova. La lentezza senile nel comporla gli è di peso, ma leggero è il pensiero di Dio, cui rivolge, con candore e coraggio, una dedica.
La partita compositiva è giocata da due contendenti archetipici della musica: il ritmo battente e il canto corale. Un confronto senza fusione: natura-uomo, vecchia storia di parentele difficili, di figli irrequieti e madri matrigne. La conciliazione non è credibile per un artista che ammicca alla modernità e usa un linguaggio che guarda al futuro. È così che il canto tocca intervalli distanti, gli ottoni non temono di cozzare contro dissonanze aspre e squillanti, i bassi brontolano spesso cromatismi enigmatici e oscuri. Il ritmo nello Scherzo è ossessivo e straniante, ricorda Stravinskij.

Liberamente tratto da

http://www.sistemamusica.it/2001/marzo/pag21.htm