Intervento sul Bene comune per la 45° settimana sociale

  © Dal Libro di A. Danese, Cittadini responsabili, Dehoniane, Roma 1994 pp. 115-145

  Capitolo IV

Itinerari di pensiero politico sul bene comune  

Sul tema del rapporto tra etica e politica, sono diverse le posizioni possibili in ordine al bene comune[1], anche quando si decide per i valori, ovvero si ritiene possibile e doveroso orientare l’agire politico con delle scelte mirate. Occorre partire dalla convinzione che non esiste un’analisi asettica e puramente oggettiva della realtà e ancor meno un’analisi avalutativa dei fenomeni sociali e politici, già a partire dal campo di ricerca preferenziale e dal linguaggio[2]. Dal momento che è sempre più chiaro che ogni ricercatore deve interrogarsi sui riferimenti che sottendono le sue interpretazioni della realtà, coloro che si pronunciano chiaramente per il bene comune invitano i politici e gli studiosi ad esplicitare i valori e metterli in rapporto con il bene delle persone e della comunità, per vedere se non si tratti piuttosto di disvalori coperti di falso neutralismo. Il concetto di bene comune, infatti, ha acquisito sufficiente credibilità, anche se non è privo di ambiguità[3]. Nel Magistero sociale della Chiesa esso legittima l’autorità politica.           1. Il pensiero predemocratico Nel modello di polis greca, il bene comune è prioritario, giacché la città è ritenuta un valore di gran lunga superiore a quello dei singoli che la abitano e che da essa traggono i loro diritti, come parte ed effetto di quel bene prioritario che è la convivenza ordinata[4]. L’individuo senza città è senza diritti, senza parola, extra moenia , privo di dignità umana, come una parte del corpo staccata dall’insieme. Il bene coincide con la città stessa rispetto a cui il sin­golo non ha in sé dignità superiore che gli consenta di fondare la sua sussi­stenza oltre l’esistenza della città[5]. La tesi viene ripresa anche da S. Tommaso, per il quale la città si ri­volge verso il più importante di tutti i beni umani, «mira infatti al bene co­mune che è preferibile e superiore al bene individuale»[6].Nell’accezione to­mista, subentra tuttavia un elemento nuovo che ridimensiona il valore della città, per subordinare il bene comune ad un fine sovratemporale, quale la con­templazione di Dio, proprio perché l’uomo non può essere finalizzato alla co­munità politica, secondo tutto se stesso e secondo tutti i suoi beni[7]. Occorrerà attendere le interpretazioni rosminiane prima e maritainiane dopo, per articolare l’equilibrio tra il bene comune e la vocazione di ogni persona umana[8].Nel modello giusnaturalistico di Hobbes e Locke, l’etica naturale non funziona: la morale comincia con la società civile[9]. Forza e legge costrin­gono l’uomo a comportamenti etici. La paura è il primo passo della saggezza e della virtù. Il bene comune coincide con la tutela delle condizioni materiali della convivenza, soprattutto la sicurezza della vita e dei beni, garantita dalla pace[10]. Nel modello utilitaristico, il bene comune è l’interesse pubblico nel senso del maggior numero di individui, dunque non un bene qua­litativamente superiore, ma una sorta di copertura degli interessi individu­ali (Hume, Bentham, J. Mill), per una massimizzazione dell’utilità collet­tiva[11]. Si postula che le azioni degli individui, benché orientate ai propri fini, abbiano conseguenze positive anche sulla società, per una sorta di armo­nia e di identità naturale tra gli obiettivi economici individuali e i fini della società. Pertanto non serve una morale alta, ma semplicemente una così detta “moralità mercantile”, che consiste essenzialmente nel mantenere gli impegni presi, dunque nella onestà da parte del soggetto e nella fiducia negli altri, una sorta di codice di onore e di rispettabilità.Il problema che resta aperto è l’incapacità «di rendere conto della natura intrinseca delle questioni di giustizia distributiva in cui non sono in gioco solo gli interessi e le preferenze, ma essenzialmente anche i diritti morali degli individui»[12]. Manca appunto all’utilitarismo la possibilità di coniugare la somma delle preferenze con il rispetto delle persone, confondendo il bene comune con la somma dei beni e degli interessi degli individui, fa­cendo prevalere il numero sulla persona, la quantità di beni sulla qualità, il benessere medio, confuso col bene comune, sulla condizione di ciascuna per­sona[13]. Nel pensiero di J.-J. Rousseau il concetto di bene comune si muove all’interno del rapporto tra volonté générale e volonté de tous. Il fine dello Stato è il bene comune e la volontà generale ha il compito di con­servare «il benessere del tutto e di ognuna delle parti», attraverso il deliberare sulle leggi. Ma, perché ciò si verifichi, è necessario che ciascuno dei membri che compone il corpo sovrano sappia sollevarsi al di sopra del proprio partico­larismo, cercando la volontà generale[14]. Poiché ciò genera contra­sti, è difficile anche per Rousseau raggiungere la volontà generale da parte dei singoli cittadini, nei quali tende a prevalere la volontà particolare e l’interesse privato. Per superare ciò, è necessario possedere una virtù civica che, «frutto di “raison” e “conscience”, lungi dal prevalere facilmente e imme­diatamente sulle passioni e sugli egoismi, va continuamente salvaguardata at­traverso un processo di formazione etico-politica»[15]. È la legge naturale per Rousseau il fondamento dell’impegno etico che ciascuno si assume, aderendo al patto e che legittima l’obbligazione che da esso riceve[16]. L’obbedienza alla legge permette ai cittadini di rimanere liberi. Scrive Rousseau: «Mediante quale incredibile artificio si è potuto trovare il mezzo di assoggettare gli uo­mini per renderli liberi?… Questi prodigi opera la legge. Gli uomini debbono solo ad essa giustizia e libertà. Questo organo salutare della volontà di tutti ri­stabilisce attraverso il diritto l’uguaglianza naturale tra gli uomini»[17]. Si tratta comunque di un artificio per convincere i cittadini che, ob­bedendo alla legge, si obbedisce in verità a se stessi. Come fa osservare J. Talmon, «la volontà generale è per Rousseau qualcosa di simile a una verità matematica o a un’idea platonica. Essa ha una sua propria esistenza ogget­tiva, sia che venga o non venga percepita. Deve tuttavia essere scoperta dall’intelletto umano. Ma dopo averla scoperta, l’intelletto umano evidente­mente non può rifiutarsi con onestà di accettarla»[18]. Da ciò scaturisce una volontà generale che esercita la sovranità senza divisioni e senza limiti: «fa parte dell’essenza del potere sovrano di non poter essere limitato: esso può tutto o non può nulla»[19]. Siamo alle premesse per la «democrazia totalita­ria», quasi moderna religione laica. «La sintesi di Rousseau — scrive Talmon — è in se stessa la formulazione del paradosso della libertà della democrazia tota­litaria in termini che rivelano il dilemma nella forma più sorprendente, vale a dire in quelli di volontà. Vi è una specie di volontà generale oggettiva, sia essa voluta da qualcuno o no. Per diventare realtà deve essere voluta dal po­polo. Se il popolo non la vuole, deve essere costretto a volerla, perché la vo­lontà generale è latente nella volontà del popolo»[20]. La volontà generale di­venta quasi onnipotente e si impone a tutti. I diritti dei singoli sono bene­volmente affidati alla ragionevolezza ed equità del sovrano, senza contrappesi e limitazioni di sorta. «Non esistono più strumenti idonei a frenare, limitare, correggere l’operato del sovrano qualora, come è sempre possibile, venga meno a quei criteri di giustizia a cui dovrebbe ispirarsi nelle sue decisioni. Non solo gli individui hanno rinunciato alla loro facoltà di resistergli, dandosi senza riserve con tutti i loro diritti e con tutto il loro “potere” e la loro “forza”, ma, secondo quanto s’è già osservato, non esistono e non possono esistere nel “corpo politico” limiti all’autorità sovrana o contropoteri in grado di bilanciare la sua autorità, assoluta nel senso più pregnante del termine»[21]. La democrazia totalitaria rousseauiana ha abbandonato il cittadino in balia della volontà generale. Il bene comune, cui la volontà generale è finalizzata, finisce per travolgere il singolo, la cui unica salvezza è possibile nel ricono­scere di aver sbagliato, scambiando «il proprio punto di vista particolare con l’infallibile intelligenza dell’universale»[22]. Nel momento in cui il bene comune lede i diritti della persona, esso perde la caratteristica che gli è propria: arrecare vantaggio a tutti i componenti della società.Nel pensiero hegeliano il bene dello Stato è indicato come preminente su quello dell’individuo per il fatto che coincide col loro stesso bene etico. Scrive Hegel: «Di fronte alle cerchie del diritto privato e del benessere privato, della famiglia e della società civile, lo Stato, da una parte è una necessità esterna ed è la loro più alta forza, alla cui natura le loro leggi, come i loro interessi, sono subordinati e da essa dipen­denti; d’altra parte, però, esso è il loro fine immanente e ha la propria forza nell’unità del suo scopo universale e degli interessi particolari degli indivi­dui»[23]. Questo rapporto interno che, come eticità, congiunge l’individuo allo Stato, il particolare all’universale, fonda e legittima per Hegel la concezione etica dello Stato come Spirito, come connessione interna delle parti col tutto, quasi membra di un unico corpo[24]. Scrive ancora Hegel: «[Lo Stato] ha un rapporto del tutto diverso con l’individuo, poiché è spirito oggettivo, l’individuo medesimo ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto com­ponente dello Stato, l’unione come tale è essa stessa il vero contenuto e il vero fine, e la destinazione degli individui è di condurre una vita univer­sale»[25]. Di qui il primato dello Stato sull’individuo e dell’ambito politico sul bene morale, sia pure nella distinzione delle sfere particolari. Ne risulta una concezione dello Stato che, per dirla con Gurvitch «è ad un tempo partigiana del socialismo di Stato e individualista, perché identifica ogni società civile con la somma delle vo­lontà individuali e fa appello allo Stato onnipotente per mantenerla in questa situazione»[26]. Al di là del dibattito che si è sviluppato oggi su questi temi, resta indubbio che in Hegel il bene dello Stato ha un diritto del tutto diverso dal bene del singolo[27]. Il bene comune finisce col ridursi al bene politico.Nella concezione marxiana, il bene comune è anch’esso di ordine sto­rico, ma con la caratterizzazione di una copertura ideologica degli interessi delle classi dominanti, che legittimano così la loro supremazia agli occhi delle classi subalterne[28]. Si tratta dunque di una sovrastruttura rispetto alla varia­bile dominante della storia, ossia i rapporti di produzione. La politica in generale è espressione della classe bor­ghese capitalista e suo strumento di dominio, destinato a scomparire insieme allo Stato. Essa non può cercare il bene comune, perché allo sguardo disincantato del marxismo, la politica è intrinsecamente un male, prodotto da condizioni di oppressione ingiuste e perciò destinata all’eclissi insieme alla divisione della società in classi e all’oppressione dello Stato[29].Il pensiero cattolico, per uscire dall’empasse del totalitarismo, opera una distinzione fondamentale tra bene pubblico e bene comune. È A. Rosmini il primo a porre questa distinzione, affidando alla filosofia politica il compito di individuare l’etica politica e in concreto di determinare «il vero fine di questa grande associazione che civile si chiama»[30]. L’etica politica precede la stessa filosofia po­litica: «Essa solo insegna a non fermare gli occhi su qualche fine intermedio e parziale… Essa mette un’inviolabile legge a tutti i governi, quella legge onde li obbliga di volgere tutto ciò che fanno, al vero bene umano: non perché il fine della società civile sia il bene umano in tutta la sua ampiezza, ma perché, qualunque sia quella porzione di bene a cui essa è ordinata, questa porzione di bene dee sempre appartenere al bene dell’uomo»[31]. Questo insistere sul “bene dell’uomo”, come bene da privilegiare, deriva dal fatto che Rosmini vuole salvare il diritto di ogni persona al bene supremo, fine ultimo o “rimoto”, «consistente nell’appagamento dell’animo de’ sozi, e non dar mai a quello un prezzo incondizionato, ma relativo a questo»[32].           Avendo individuato i due fini della società, Rosmini può privilegiare il fine remoto: «Non conviene dunque sacrificare giammai il fine rimoto della società al suo fine prossimo; ma viceversa, deesi subordinare il fine prossimo e farlo servire a vantaggio del rimoto»[33]. La spiegazione è semplice, il fine remoto è pro­prio di ogni persona «bene proprio dell’uomo, appagamento morale dell’animo»[34]. Compito del governo medesimo è consentire la realizzazione di questo bene supremo; diversamente tradisce il «suo ufficio e rende inutile l’esistenza della società»[35]. D’altra parte, se è la persona il fondamento di ogni diritto sociale, la stessa unione sociale non può ordinarsi contro di essa. Il bene comune allora è il «bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale»[36], che trovano nella giustizia il principio regolatore, a differenza del bene pubblico che trova nell’utile il suo criterio. Anche se il bene comune pre­suppone il bene politico, «che deve essere procurato per arrecare vantaggio a tutte le persone componenti il corpo sociale», tuttavia non si può confondere col bene assoluto, prerogativa di ogni persona. Non esiste bene comune senza il bene di ogni persona e senza la possibilità per questa di accedere al bene as­soluto, per quella capacità di diritto extra-sociale che nessuno può alienare, né attraverso un contratto, né per motivi di scambio[37]. Nel positivismo viene assunto il modello conoscitivo delle scienze fisico-naturali come paradigma dapprima universale (Comte, Saint-Simon, Spencer) e successivamente limitato ai campi in cui il modello è adatto a sot­toporre a verifica quanto ipotizzato. Ne risulta la estromissione dei giudizi morali dalla politica, nel senso che i valori, non essendo fatti (vedi la distinzione di Max Weber), non sono controllabili né verificabili nella regolarità delle leggi, ma sono il prodotto della sfera emotiva e soggettiva dell’uomo[38].   Nell’epoca moderna, la politica si viene ad identificare con la forza e la sfera della libertà si ripiega nel privato, mettendo le premesse di quello che è lo sviluppo invadente dell’economia, delle oligarchie di partito, della tecnicizzazione della politica, dell’individualismo e della burocrazia. Per Weber vale la distinzione tra l’etica della convinzione, per la sfera privata, in cui dominano i principi universali, e l’etica della responsabilità, in cui conta invece il risul­tato, che caratterizza perciò la sfera politica. Nell’impostazione weberiana, l’etica viene circoscritta a livello di coscienza individuale e viene svalutata a livello politico, nel cui ambito valgono i criteri dell’efficacia e del successo, radicalmente incompatibili con quelli della pura testimonianza (sino alla con­temporanea mentalità della Leistungsgesellschaft tedesca o dell’efficientismo esasperato). In quest’ottica, la ricerca del modo migliore per realizzare il bene co­mune, che caratterizza la filosofia politica, diviene superflua e astratta, quando non si scopra chiaramente che essa è una copertura degli interessi di singoli o di gruppi. Alla filosofia politica non resta che rinunciare a qualsiasi formula­zione assiologica e ridurre tutto il discorso politico a scienza del linguaggio, dei metodi, della struttura logica. Guadagna terreno la scienza sulla politica, la correttezza dei procedimenti sulle domande di fondo, il metodo sulla ricerca del bene comune, il come sul perché, il linguaggio sulla comunicazione dialo­gica.Del resto, anche l’opposta teoria storicista, nelle sue forme più radicali, finisce per combattere ogni forma di essenzialismo e di metafi­sica, per arrendersi all’impossibilità di riconoscere spessore ai valori e dunque ad un bene comune permanente, oltre le mutevoli condizioni della storia, giac­ché è nella storia che si realizzano ed esauriscono i valori di volta in volta pri­vilegiati. L’uomo viene di fatto soggiogato al fluire del tempo, perché non porta in sé alcun senso ultramondano della vita, se non quello che nella storia emerge (Dilthey[39]). I valori non sono solo non razionali e non verificabili, ma so­prattutto validi a certe condizioni, in determinate epoche storiche e in particolari culture, come sottolinea L. Strauss[40].  Questa con­vinzione di fondo, intrinseca alla posizione storicista, se aiuta ad una valuta­zione contestuale delle ideologie e dell’idea stessa di bene comune, toglie però vigore a quei princìpi che possono essere considerati universalmente validi e che fanno da baluardo contro le cadute e i regressi della storia.                    

2. Il relativismo etico nel pensiero formalista 

Nel modello formalista di H. Kelsen, l’idea di bene comune è consi­derata una ideologia artificiosa, criticata perciò come concetto politico. Kelsen sostiene che un’autentica democrazia non può fondare razionalmente i valori ed è ob­bligata a muoversi entro i canoni del relativismo etico. Sarebbe questo relativismo la garanzia della correttezza democratica[41]. Il discorso politico viene legato alla epistemologia. Le regole del gioco valgono in questo caso più dei contenuti e, nonostante l’irrinunciabilità dell’esperienza dei valori, questi restano confinati nel mondo delle ideologie, fuori del controllo della ra­gione. Per Kelsen, infatti, esiste una opposizione fondamentale tra assolutismo e relativismo filosofico. Il primo suppone l’esistenza di una realtà indipendente dalla conoscenza umana e perciò reclama il ricorso ad una intelligenza creatrice e a valori oggettivi assoluti, conoscibili nel cammino verso la verità. Il relativismo, invece, ritiene che la realtà esiste solo in rela­zione alla conoscenza, dunque non ha una sua struttura oggettiva, è relativa anche rispetto ai valori, in fin dei conti decisi dall’essere umano, che può ac­cedere solo all’esperienza fenomenica, ai fatti e non ai valori (di qui la centralità della conoscenza scientifica). Kelsen sostiene apertamente: «Uno dei principi fondamentali della democrazia è che ognuno deve rispettare l’opinione politica degli altri, giacché tutti sono uguali e liberi. Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e di pensiero, così caratteristici della democrazia, non trovano posto in un sistema politico basato sulla credenza nei valori assoluti»[42].La convinzione che sostiene la teoria di Kelsen e dei suoi seguaci è che i valori non sono immanenti al reale e sarebbe arbitraria una qualunque de­duzione dalla realtà. Essi così perdono di peso, perché non razionali, le­gati alle dimensioni emotive e fantasiose, regolati non da riscontri oggettivi, ma da un insieme di fattori non verificabili (relativismo etico so­stanziale parallelo allo scetticismo conoscitivo). Prevale la strategia del com­promesso, che regola la pluralità secondo logiche di maggioranza, di opinione pubblica, di rapporti di forza e di opportunità. Significativo è il fatto che tale relativismo venga coniugato con un supposto maggiore rispetto della tolleranza e del pluralismo sostan­ziale delle opinioni altrui, tutte equipollenti quanto a razionalità e valore og­gettivo e tuttavia diversificate e selezionate dagli accordi democratici di volta in volta raggiunti («democrazia procedurale»)[43]. In tale ottica, perciò, il pluralismo è perfettamente conflittuale, in un mercato di idee e valori che la de­mocrazia pone in condizioni di indifferenza e, dopo averli fatti passare per la libera concorrenza, li riconosce validi soltanto in base alla vittoria sul campo, considerata fondamento legittimo. Più che il rispetto della persona, viene in evidenza il rispetto della formula democratica, considerata espressione della sovranità popolare, ossia della facoltà dei cittadini nel loro insieme di decidere sulla verità e sull’eticità[44]. Si evidenzia una certa contraddittorietà in questo non scegliere tra i valori e poi esaltare la tolleranza pacifica, che è già di per sé un valore, in questo prendere le distanze dalla dimensione cognitiva e poi riconoscere una certa assolutezza alle procedure[45]. Kelsen conclude però che è opportuno e corretto non decidere per i valori, ma lasciare al loro libero con­flitto l’ultima parola. Commenta opportunamente R. Gatti: «Si può osservare che l’emergere dell’idea della democrazia come puro e semplice insieme di “regole del gioco” segna il momento in cui la separazione tra etica e politica, tipica della modernità, s’introduce a pieno titolo nella riflessione sulla demo­crazia e la orienta in maniera decisiva… la politica si presenta come il luogo asettico e incontaminato dai valori in cui si svolge un inutile dialogo tra sog­getti portatori di “ideologie” che, radicate nell’irrazionalità dell’animo, sono sorde le une nei confronti delle altre e incapaci di pervenire a un accordo gui­dato dalla ragione»[46]. Conferma, a sua volta, Campanini: «Se i valori non sono il fondamento della democrazia, ma semmai una delle sue conseguenze, vi è da domandarsi se in ipotesi il mero rispetto formale delle “regole del gioco” non possa dar luogo ad altri contenuti che essi pure pretendono di presentarsi come valori, ma che sono invece la semplice espressione della volontà dei de­tentori del potere… Non vi è, in altri termini, alcuna garanzia che le decisioni collettive assunte attraverso procedure perfettamente legali… esprimano i va­lori di cui la democrazia dovrebbe essere portatrice»[47]. La teo­ria kelseniana quindi riflette l’incapa­cità della nostra epoca di elaborare un’idea condivisibile di bene comune, oltre gli universali procedurali e le finzioni[48]. Siamo su posizioni evidentemente diverse ri­spetto a quel riconoscimento di una perenne aspirazione al bene come giustizia che si ritrova nella recente elaborazione di I. Mancini, come «via perennis» alla ricerca di un principio orientatore («gloria del diritto»)[49].  Il razionalismo critico di Popper, pur nella sua diversità, concorda sul non cognitivismo etico e dunque nel considerare la democrazia come il go­verno razionale per eccellenza, ma di una razionalità orientata al controllo delle procedure e dei governanti, capace solo di fissare le regole metodologiche[50]. I valori, anche se possono essere legittimamente proclamati da profeti e po­eti, non possono essere razionalmente motivati e selezionati, perché hanno tutti pari cittadinanza, dal punto di vista democratico-politico. Pur avendo di mira un riformismo democratico orientato verso l’«umanitarismo» razionalista, Popper non è esente dall’accusa di pragmatismo, perché non chiarisce i valori che orientano il mutamento e la ragione[51]. D’altra parte, aveva raccomandato: «Agisci per l’eliminazione dei mali concreti piuttosto che per realizzare dei beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto ad elimi­nare le miserie concrete… con mezzi diretti… Non permettere che i sogni di un mondo perfetto ti distolgano dalle rivendicazioni degli uomini che soffrono qui ed ora»[52]. Egli stesso riconosce di nutrire una «fede irrazionale nell’atteggiamento di ragionevolezza»[53] e mette in guardia dall’entusiasmo morale non ragionevole, considerato causa di totalitarismo. Giunge così a sostenere che i più gravi danni del secolo sono dovuti non alla malvagità «ma, al contrario, all’entusiasmo morale, spesso mal riposto, che ci anima: alla preoccupazione di migliorare il mondo in cui viviamo. Le guerre che ci oppongono sono fondamentalmente guerre di religione; guerre fra teorie opposte sul modo di realizzare un mondo migliore»[54]. Emerge così un timore del fanatismo che può avere le sue ra­gioni (specie se letto nell’ottica degli avvenimenti contemporanei), ma che di­viene intransigente quando pretende di considerare addirittura dannoso l’impegno morale a migliorare il mondo.           

continua a  II