In occasione del 110° anniversario della nascita di Silone, esce Severina in lingua Catalana, Rent Colleció di Valencia, introduzione parte I

Severina, una santa weiliana e siloniana  

 

 

 

 

 

 versione italiana

 

« Tutto quello che m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui. È una contrada, come il resto d’Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non s’è mai spenta l’antica speranza del Regno, l’antica attesa della carità che sostituisca la legge, l’antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini » (US, 822). 

 

 

L’esperienza della orfanezza, il terremoto, la cattiva amministrazione politica del dopo terremoto lo segnarono profondamente, sicché già a 17 anni capeggiava le prime Leghe rosse dei contadini. Divenne presto direttore del settimanale socialista e pacifista “Avanguardia” e poi redattore del “Lavoratore” di Trieste.

Benché cresciuto in un ambiente di radicata tradizione cattolica, si allontanò dalla Chiesa per influsso del partito, ma anche perché non sopportava le incongruenze dei cattolici praticanti: in un periodo di tradimenti, delitti impuniti, illegalità d’ogni specie, le lettere pastorali dei vescovi si soffermavano sull’abbigliamento licenzioso delle donne, sui bagni promiscui al mare, sul turpiloquio: «Quel menare il can per l’aia, da parte di pastori che avevano sempre rivendicato la guida morale del gregge, era uno scandalo insopportabile. Come si poteva rimanere in una simile Chiesa?… »[2].

 Aveva 21 anni Silone quando al congresso di Livorno nacque il Partito Comunista Italiano ed egli ne divenne un attivo dirigente nella Federazione Giovanile. Inevitabilmente, sotto il fascismo, divenne attivista clandestino accanto ad Antonio Gramsci, in Italia e all’estero. Il 21 aprile 1924 l’“Avanti” annunciò il provvedimento di espulsione dall’Italia di Secondino Tranquilli “comunista, rappresentante commerciale dei Soviet in Spagna”. Passando per disavventure e stenti di ogni tipo, cambiando nomi e indirizzo, gli capitò più volte di essere processato, incarcerato ed espulso da vari paesi. Era completamente sradicato: non poteva risiedere in Spagna e si rifugiava in Francia, dove divenne redattore del settimanale “La Riscossa”, ma venne espulso anche da Parigi.

Pian piano la causa comunista gli si rivelò contraddittoria rispetto agli ideali proclamati e ai quali avevano dedicato gli anni migliori lui, i suoi compagni, i militanti. Quando il partito lo inviò a Mosca con Togliatti per  rappresentare il comunismo italiano,  i suoi dissensi con i metodi antidemocratici di Stalin divennero espliciti e scavarono una distanza sempre più forte dalla dirigenza dell’Internazionale. A Mosca ebbe il coraggio di contrapporsi a Stalin, rifiutandosi di firmare, senza averlo letto, il documento contro Trotzsky. Cominciarono così i suoi guai con il partito sino a che, nel 1930, in contemporanea con le persecuzioni e le purghe staliniane, Silone optò per l’abbandono del partito così da essere sotto tiro sia da parte dei comunisti che dei fascisti.

Da questi aveva subito anche la incarcerazione e la morte del fratello Romolo, un giovane forte e onesto, ultimo rimasto della sua famiglia, che si fidava del fratello maggiore e avrebbe voluto seguirlo, ma cadde in un tranello, catturato dalla polizia fascista, e morì per le percosse e gli stenti nelle carceri fasciste. Silone, che si sentiva responsabile della sua sorte, fece di tutto per salvarlo ma dovette arrendersi alla cattiva sorte. In tal modo si portò dietro una ferita profonda e la crisi si acuì:  senza amici, espulso dal partito, impossibilitato a tornare in Italia e nei paesi da cui era stato bandito, minato nella salute, senza soldi.

Si rifugiò in Svizzera dove trovò buona accoglienza e dove rinacque come uomo e come scrittore. Ormai tutte le dittature gli apparivano costruite in dispregio della persona umana e considerava le istituzioni e le chiese un rischio per la libertà della persona. Il distacco dal comunismo facilitò il suo ripensamento del cristianesimo, che egli sentiva parte irrinunciabile del suo essere, nella essenzialità evangelica, e che lo aveva portato a sintonizzare sin da ragazzo con don Orione, conosciuto quando, dopo il terremoto,  raccoglieva nelle sue case i ragazzi rimasti orfani. “Ricordati figliolo – gli aveva detto il prete santo – che Dio non è solo in Chiesa”. Silone prese a riformulare la sua identità come “cristiano postmarxista tanto nell’ideologia, quanto nella sensibilità”, ovvero con la famosa frase “cristiano senza Chiesa e socialista senza partito”. Aveva infatti rotto con le due Chiese più potenti: quella cattolica e quella comunista e questo condizionerà l’ostracismo della critica letteraria italiana.

Seguirono anni di impegno sui fronti della produzione letteraria, dell’animazione culturale e della lotta politica antifascista, socialista ed europeista, lottando contro la burocratizzazione e le istituzioni che atrofizzano lo spirito critico. Heinrich Böll (Premio Nobel per la letteratura 1972), che sognava anch’egli un cristianesimo sociale e un socialismo dal volto umano scrissi: «È vero, sa di utopia (…) Dimenticavo, c’è uno scrittore italiano che sento vicino in questo sogno, uno scrittore che stimo anche come uomo, Ignazio Silone».

Da parte sua Silone anche se aveva abbandonato i vincoli dell’ideologia e l’ateismo professo, non avrebbe potuto rinnegare il nucleo di fondo dell’ideale di giustizia che lo aveva attirato sin da ragazzo. Pensava che il socialismo sarebbe sopravvissuto al marxismo: «La mia fiducia nel socialismo… mi è rimasta più viva che mai. Nel suo nucleo essenziale essa è tornata a essere quella ch’era quando dapprima mi rivoltai contro il vecchio ordine sociale: un’estensione dell’esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell’attività umana; un bisogno di effettiva fraternità; un’affermazione della superiorità della persona umana su tutti i meccanismi economici e sociali che l’opprimono»[3].

In Svizzera Silone venne internato dalle autorità tedesche a Davos e a Baden (dove scrisse Ed Egli si nascose nel 1944) e poi di nuovo a Zurigo, in seguito alla richiesta d’estradizione del governo fascista, cui si opponevano le autorità svizzere. Proprio nel carcere di Zurigo, poco prima di Natale, nel ’42, scrisse le oltre venti fitte pagine del famoso Memoriale per la procura federale di Berna. Vi si legge tra l’altro:

«Esattamente 12 anni fa, nel dicembre 1930 fui ospite di questo stesso carcere, si trattava allora, per le autorità, di esaminare il mio caso, essendo arrivato in Svizzera sprovvisto di passaporto.

Se io adesso volgo uno sguardo indietro, al tempo da me trascorso in questo paese e alla trasformazione da me subitavi, mi sembra di essere diventato un altro uomo: avevo allora trent’anni: ero appena uscito dal partito comunista, al quale avevo sacrificato la mia gioventù, i miei studi e ogni interesse personale; ero gravemente  malato; ero privo di mezzi; ero senza famiglia (rimasto orfano a quindici anni, l’unico fratello che mi restava era allora in carcere, come cattolico antifascista e, poco dopo, in carcere morì); ero stato espulso dalla Francia e dalla Spagna; non potevo tornare in Italia; in una parola, ero sull’orlo del suicidio.

Attraversai in quell’epoca una crisi atroce, ma salvatrice. Come scrisse San Bernardo in uno dei suoi libri, vi sono degli uomini che Iddio rincorre, perseguita, ricerca e, se li trova e li afferra, li strazia, li fa a pezzi, li morde, li mastica, li ingoia e digerisce e ne fa creature del tutto nuove, creature del tutto sue; se io ripenso alle sofferenze, ai pericoli, agli errori, alla penitenza, sofferti da molti miei amici e da me stesso, mi sembra di aver avuto quella sorte dolorosa e privilegiata di cui parla San Bernardo.

In Svizzera io sono diventato uno scrittore; ma, quello che più vale, sono diventato un uomo. Non solo la mia concezione della società si è schiarita… ma, quello che più vale, lo stesso significato dell’esistenza dell’uomo sulla terra, lo stesso significato del reale ha riacquistato in me il senso cristiano e divino che avevo già avuto nella prima adolescenza e che poi avevo smarrito. Il mio allontanamento dalla politica poté dunque apparire dapprima un’imposizione di circostanze esteriori; ma, ben presto, a mano a mano che in me si compiva quell’interiore rinascita, esso corrispose ad un effettivo distacco della mia coscienza da ogni ambizione e bramosia di potere. Mi apparve evidente che la più alta aspirazione dell’uomo sulla terra dev’essere anzitutto di diventare buono onesto e sincero.

La mia attività di scrittore è stata la testimonianza di quella mia lotta e maturazione interna. I miei libri sono il resoconto delle incertezze, delle difficoltà, dei successi, della vittoria della mia anima, nella lotta contro quello che poteva esserci di volgare e meramente istintivo nella mia vita precedente.

Io non credo che i miei libri abbiano un valore letterario molto grande; io stesso conosco molto bene i loro difetti formali. Il loro valore è essenzialmente quello di una testimonianza umana; vi sono della pagine in quei libri che sono state scritte col sangue»[4].

Finalmente Silone poté tornare in Italia con l’aiuto degli americani con un volo tenuto segreto per motivi di sicurezza nel 1944. Darina ha raccontato quello che fu per Silone il ritorno in patria: «L’aereo ci portò a Napoli, all’aeroporto militare di Capodichino. Silone si sdraiò sull’asfalto e lo baciò. Fummo condotti la sera stessa alla Reggia di Caserta. L’indomani passammo tutta la giornata su un grande terrazzo prospiciente la pianura capuana, coperta di vigne dorate. Silone non si stancava di guardare quel panorama. “Che bel paese!” ripeteva. “Che bel paese!”. Aveva le lagrime agli occhi»[5].  Nello stesso anno potè sposare anche la bella e colta Darina Laracy, irlandese.

Nel 1948 Silone si allontanò definitivamente dalla politica per seguire la sua vocazione di scrittore. L’amica degli ultimi anni, la scrittrice Luce D’Eramo, ci ha consegnato la seguente risposta alla sua domanda: «“Di che ti rammarichi?”. “D’aver perso tempo – scuote piano la testa – Benché avessi chiaro che era impossibile tornare nel Partito comunista e che era inutile restare nel Partito socialista, tuttavia mi rammarico d’aver perduto troppo tempo ancora. Un tempo che avrei potuto impiegare meglio, anche politicamente, dicendo quello che pensavo indipendentemente dal Partito. Questo, sì, è un rammarico, cioè di non aver lasciato la politica militante nel ’47…Nel ’47 ero ormai convinto che le strutture del paese sarebbero rimaste sostanzialmente com’erano. Dovevo lasciar perdere allora, invece continuai ancora per qualche tempo, forse per forza d’inerzia”»[6].

In sintonia con illustri intellettuali europei (Andre Gide, Richard Wright, Stephen Spender, Arthur Koestler, Louis Fischer) Silone partecipò alla stesura di un importante libro che raccoglieva testi di intellettuali delusi dal comunismo: The God That Failed (Bantam Books, New York 1950).

Ormai era un uomo maturo, sposato, talvolta chiuso e burbero, ma come scrittore aveva trovato il suo filo d’oro, la sua vocazione. Si poteva dire di lui quello che egli aveva scritto della nonna dei suoi romanzi: “aveva imparato l’arte di ingoiare amaro e sputare dolce”. In Uscita di Sicurezza, un retrospettiva appassionata sulla sua vita e una sorta di “diario politico”,  Silone scrive a proposito del suo rapporto con Dio: «Nelle prove più tristi della vita ci salviamo appunto per avere conservato nell’anima il seme di qualche certezza incorruttibile… Che tristezza però capire certe cose quando sulla testa cominciano ad apparire i primi capelli grigi, rendersi conto di avere sciupato gli anni e le energie migliori»[7].

I contenuti dell’opera siloniana e l’incisività della sua prosa gli ottennero successi significativi.  Così scrisse Irwing Howe (1969): «Ogni sua parola sembra avere una qualità speciale, un’impronta di fraterna, disincantata umanità. È veramente un po’ un mistero che la critica letteraria con tutte le sue solennità, non ha mai ben penetrato: che un uomo, scrivendo così semplicemente e senza pretese, possa far sentire come inconfondibilmente suo tutto ciò che pubblica». Thomas Mann, dopo aver letto Fontamara, scrisse all’autore: «Vorrei dirle quanto l’apprezzo e la stimo come uomo e come artista, e con quanta profondità mi afferra e mi colpisce la serietà della sua vita, di cui ho potuto ascoltare recentemente qualche particolare più intimo, e come mi è caro e prezioso conoscerla, cosa che verosimilmente non sarebbe stata possibile se entrambi i nostri destini avessero avuto un corso più piatto e comodo ». Bertrand Russell lo accostò alle grandi personalità italiane di sempre.

Ormai  i libri di Silone venivano pubblicati in varie lingue con significativo successo di critica e pubblico. Quando Albert Camus nel 1957 ricevette il Premio Nobel disse esplicitamente: « A meritare il Nobel era Silone. … Se io mi sento legato a lui, è perché egli è nello stesso tempo radicalmente legato alla sua terra, eppure è talmente europeo!».  Riconoscimenti internazionali non mancarono: nel 1966 Silone ricevette la laurea honoris causa a Yale, negli USA. Ancora una laurea honoris causa gli fu data dall’Università di Tolosa (motivazione: «aver anticipato con la sua opera i problemi giovanili del maggio parigino») e ottenne anche il Premio internazionale di letteratura a Gerusalemme.

In Italia invece l’opera di Silone non godeva di buona critica e i premi letterari, come il “Viareggio”, non lo considerarono meritevole. Significativa è la frase che, secondo alcuni, avrebbe pronunciato il presidente del premio, Leonida Repaci, parlando di Uscita di sicurezza: «Non si può premiare un libro che offende la memoria di Togliatti». Carlo Bo commentò: «Silone è stato escluso dal Viareggio, così come finora lo abbiamo escluso dalle nostre preoccupazioni e riflessioni quotidiane, un po’ perché il suo caso disturba, dà noia, perché affrontarlo richiederebbe un alto impegno e finirebbe per investire tutta la nostra struttura intellettuale e spirituale»[8]. La consacrazione come scrittore in patria giunse tardiva, nel 1968 (tra i premi a Udine, il Premio Moretti d’Oro, a Venezia il Super Campiello), quando venne pubblicato il testo L’avventura di un povero cristiano, che presentava la vicenda di Celestino V, il papa che per Dante aveva fatto “per viltade il  gran rifiuto” del papato (Dante, Inferno, III canto, verso 60), ma che Silone presentava come un uomo moralmente integro, incapace di compromessi curiali.

Dopo aver ricevuto il premio mondiale della letteratura “Del Duca” a Parigi (1971) Silone fu colto da malore e venne ricoverato. La  salute non gli consentì più frequenti spostamenti dalla sua casa di Roma in via di Villa Ricotti. Continuò però a scrivere e partecipare a dibattiti intellettuali.

La morte lo raggiunse il 22 agosto del 1978, in una clinica di Ginevra assistito da Darina, a quattro giorni da un’attacco celebrale. Aveva 78 anni, tre mesi e ventidue giorni. I fogli di Severina, l’ultimo scritto,  erano ancora sullo scrittoio, accanto al letto[9].  Darina, aderendo ad una sua richiesta, recitò il Pater Noster. Lo vide morire come aveva desiderato “con dignità e consapevolezza”, dicendo lucidamente “Maintenant c’est fini. Tout est fini.  Je meurs”. Che in punto di morte abbia parlato una lingua non sua fu un fenomeno che il medico considerò unico. Perché il francese? Era la lingua che padroneggiava meglio ed era anche la lingua di Simone Weil.

Silone ha lasciato un testamento spirituale, ritrovato da Darina nella scrivania e pubblicato in appendice a Severina. Vi si legge:

“(Credo) Spero di essere spoglio d’ogni rispetto umano e d’ogni altro riguardo di opportunità, mentre dichiaro che non desidero alcuna cerimonia religiosa, né al momento della mia morte, né dopo. È una decisione triste e serena, seriamente meditata.

Spero di non ferire e di non deludere alcuna persona che mi ami. Mi pare di avere espresso a varie riprese, con sincerità, tutto quello che sento di dovere a Cristo e al suo insegnamento.  

Riconosco che, inizialmente, m’allontanò da lui l’egoismo in tutte le sue forme, dalla vanità  alla sensualità. Forse la privazione precoce della famiglia, le infermità fisiche, la fame, alcune predisposizioni naturali all’angoscia e alla disperazione, facilitarono i miei errori. Devo però a Cristo e al suo insegnamento, di essermi ripreso, anche standomene esteriormente lontano. Mi è capitato alcune volte, in circostanze penose, di mettermi in ginocchio, nella mia stanza, semplicemente, senza dire nulla, solo con un (forte) sentimento d’abbandono; un paio di volte ho recitato il Pater noster; un paio di volte ricordo di essermi fatto il segno della Croce.

Ma il “ritorno” non è stato possibile, neanche dopo gli  “aggiornamenti” del recente Concilio. La spiegazione del mancato ritorno che ne ho dato, è sincera. Mi sembra che sulle verità cristiane essenziali si è sovrapposto nel corso dei secoli un’elaborazione teologica e liturgica d’origine storica che le ha rese irriconoscibili. Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia. Solo facendo violenza su me stesso, potrei dichiarare di accettarlo; ma sarei in mala fede»[10].

 Silone fu sepolto a Pescina come aveva desiderato: «Mi piacerebbe di essere sepolto così, ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, a Pescina, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino in lontananza». Orami godeva di una fama che neanche le polemiche degli anni recenti su sul suo presunto essere stato spia fascista sono riuscite a spegnere. Furono in molti a rendergli omaggio. Per Sandro Pertini, partigiano del “Partito socialista italiano di unità proletaria” e poi Presidente della Repubblica Italiana (1978-1985): « Silone era un uomo dal cuore puro, un intellettuale onesto. Di Silone c’è una frase che ho sentito di recente: “Gli schiamazzi della folla non possono far tacere la voce della coscienza”. C’era tutto Silone in quella frase». Similmente ha reagito lo scrittore Mario Pomilio: «Un testimone e quasi un simbolo del travaglio dei nostri anni, un’antenna dei nostri problemi, un modello di forza d’animo, di dignità, di coerenza e insomma uno dei pochi nostri contemporanei nei quali indipendentemente dal posto che gli spetta nella storia letteraria, possiamo tranquillamente riconoscere la statura del Maestro, quale sarebbe certamente stato considerato in una società diversa, meno inaridita dagli interessi di parte».

 

2. Rapporti con la Spagna.  Silone da Berlino si recava in Spagna per assolvere alla missione affidatagli dal partito di collegamento tra l’Internazionale e il comunismo spagnolo. Alcuni momenti del suo rapporto con la Spagna:

1. Silone, come si è già detto, si chiamava Secondino Tranquilli. Usò per la prima volta lo pseudonimo di Ignazio Silone proprio in Spagna (1923), dove era stato inviato dal Komintern e in particolare da Willy Muenzenberg, dirigente tedesco dell’Internazionale a Berlino. Qui scriveva su «La Batalla», giornale di Barcellona fondato da Joaquìn Maurìn e legato ai comunisti e ai Comitati sindacali rivoluzionari. «Il nome di Silone – ha scritto – mi fu occasionalmente suggerito da due motivi: esso ricordava il capo della resistenza dei Marsi, Poppedius Silo, nella guerra sociale contro Roma, ed era quindi simbolo di autonomia. Inoltre, per un’illazione un po’ forzata, poteva indicare la simpatia per l’opposizione catalana contro Madrid, in armonia quindi con lo spirito degli articoli che scrivevo. Quando, molti anni più tardi, riesumai quello pseudonimo per uso letterario, l’accompagnai col nome d’Ignazio… al fine di battezzare il cognome pagano»[11].  

Don  Luigi Orione, il prete amico incontrato per la prima volta mentre si prodigava a favore dei ragazzi orfani dopo il terremoto della Marsica, in una lettera (1920) attesta di aver incontrato Silone diretto in Spagna: «Mi sono incontrato in questi giorni, in treno, con Tranquilli Secondino, quello di Pescina, il primo dei fratelli, non so se tu lo conosci: un bolscevico. Veniva dalla Russia e andava in Ispagna, evidentemente a farvi della propaganda. Non l’avevo visto; egli viaggiava in 2da ed io in 3°. Egli vide me, e corse a cercarmi, pieno di commozione e di affetto. Proprio oggi, mi manda da Madrid un giornale: è Cristo che rinasce»[12]. A lungo don Orione aveva sperato per Secondino e per il fratello Romolo il ritorno alla Chiesa cattolica e un avvenire sereno, con una famiglia e un lavoro. Le cose non andarono così, ma il rapporto di affetto e di stima rimase costante lungo tutto il corso della vita. Silone ne diede testimonianza al processo di beatificazione del  piccolo “grande” prete.

3. Quando Silone frequentava la Spagna era spesso in coppia con Gabriella Seidenfeld, una ragazza di 24 anni,  comunista fedele, conosciuta a Fiume nel 1921, quando egli presiedeva il Congresso provinciale dei Giovani comunisti. Gabriella era diversa dal tipo di donna timida cui era abituato. Era intelligente, colta, sensibile, impegnata. Silone strinse un rapporto di complicità affettiva e politica con lei e quando fu chiamato dal partito a Trieste, Gabriella lo accompagnò, come continuò a fare successivamente nei continui spostamenti in giro per l’Europa. Gli fu segretaria, amante, mamma, ma soprattutto compagna fedele nella clandestinità, soffrendo con lui la fame, le fughe, il carcere, fino all’espulsione dal Partito. In Spagna la coppia viveva sotto stretta sorveglianza e con  la posta sequestrata. Quando Silone venne arrestato dalla polizia a Madrid (1923), Nel Carcer Modelo, divenne amico di un professore che gli ottenne di lavorare nella biblioteca, dormendo la notte nell’infermeria. Ne approfittò per leggere Dostoevskij: «…Ebbi l’immensa gioia di leggere per la prima volta I fratelli Karamazov e L’idiota. Non so dirvi quanto ne rimasi sconvolto e rapito. Nessun’altra opera letteraria mi ha fatto una tale impressione. Finii col perdere ogni nozione di tempo e di luogo»[13]. Nell’infermeria conobbe una suora giovane e bella: «Si stabilisce tra loro una forte e platonica amicizia, fatta di lunghi colloqui notturni, di scambi di idee, di reciproche professioni di fede, ed è proprio questa giovane suora, il cui ricordo accompagnerà Silone per tutta la vita, ad evitargli l’estradizione in Italia. Quando il prigioniero arriva  a Barcellona, la nave è già partita»[14]. Gabriella fu portata nel carcere femminile, al fianco di una cinquantina di donne accusate di reati comuni, in particolare con una prostituta. Divenne un punto di riferimento per tutte, grazie alla disponibilità a scrivere lettere per chi ne avesse bisogno, trasformando la carcerazione in occasione di solidale complicità.  

 

Silone scrittore. «Vorrei sfuggire al destino del professionalismo… Vorrei sfuggire alla propaganda e all’agitazione, cose utili, ma c’è tanta gente che le sa fare meglio di me. Vorrei dire due o tre cose, prima di morire, che nessun altro può dire e che il destino mi ha incaricato di dire. Due o tre cose che ogni operaio e ogni contadino e ogni comunista e ogni fascista debba pensarci su, che ogni uomo debba pensarci su»[15].

Silone ha scritto per meditare e comunicare l’amarezza della sua condizione esistenziale (in questo senso lo scrivere è stato per lui anche meditazione e terapia) e la sua insoffocabile sete di giustizia e di fratellanza. Il romanzo d’esordio, Fontamara (Zurigo, 1933) fu la rivelazione di uno scrittore che, tra i primi, assieme ad una nutrita schiera di scrittori anglosassoni, affrontava le tematiche sociali all’interno della forma narrativa del romanzo.  Silone però analizzava gli ambienti contadini, laddove altri avevano invece analizzato il mondo operaio della società post-industriale. Lo scenario è un piccolo borgo della Marsica, nel quale i contadini vivono lontani dagli avvenimenti politici e storici che sembrano non riguardarli, oppressi come sono da una povertà atavica e dalle sopraffazioni di speculatori e fascisti. Ne risultano: uno spaccato amaro, disincantato e satirico della vita nelle campagne, l’ignoranza dei “cafoni”,  la loro decisa distanza dalla politica, la loro forza nel lottare e pagare col sangue,  la loro radicata tradizione di solidarietà e ospitalità.

L’opera fu scritta in tedesco ma poi, tradotta in ventotto lingue, si diffuse in tutta Europa Risultò chiaramente che Silone era un autore “impegnato” in cui la dimensione etico-politica  prevaleva sulle raffinatezze letterarie. «Lo scrivere non è stato, e non poteva essere per me – ha scritto – salvo che in qualche raro momento di grazia, un sereno godimento estetico, ma la penosa e solitaria continuazione di una lotta, dopo essermi separato da compagni assai cari. Le difficoltà con cui sono talvolta alle prese nell’esprimermi non provengono certamente dall’inosservanza delle famose regole del bello scrivere, ma da una coscienza che stenta a rimarginare alcune nascoste ferite, forse inguaribili, e  che tuttavia, ostinatamente, esige la propria integrità»[16].

Seguirono numerosi libri pubblicati sempre all’estero, come Der Fascismus, nel ‘35, sempre in tedesco, Pane e vino (1936), La scuola dei dittatori (1938), Il seme sotto la neve (1941), Ed egli si nascose (1944). Le opere scritte dopo la Liberazione dal Fascismo, quando Silone rientrò in Italia, approfondivano il versante autobiografico e cristiano: Una manciata di more (1952), drammatica testimonianza della parallela crisi spirituale di un uomo politico e di un uomo di Chiesa; Il segreto di Luca (1956), apologia della libertà di coscienza di un cafone innocente inchiodato dalla legge e dal conformismo dei paesani;  La volpe e le camelie (1960), che racconta di alcuni esuli italiani nel Canton Ticino, insidiati dalle attività spionistiche della polizia fascista.

I libri di Silone dalla Svizzera facevano il giro del mondo attraverso gli esuli antifascisti e i simpatizzanti stranieri, che lo consideravano il  “nuovo Machiavelli” del XX secolo. Riuscì così a diventare un punto di riferimento per i nuovi scrittori del Neorealismo.

Vennero poi gli ultimi due libri che s’imposero anche alla critica italiana, nonostante l’ostilità comunista: Uscita di Sicurezza (1965), premiato al “Marzotto”, nel 1968 e L’avventura di un povero cristiano (scritto dopo la polemica sui fondi CIA). In quest’ultima opera Silone ricostruiva la sofferta esperienza del frate abruzzese Pietro Angelerio dal Morrone, eletto papa nel Medioevo col nome di Celestino V, ma che si rifiutò di sacrificare la propria integrità spirituale ai compromessi della funzione istituzionale e finì con l’abbandonare il papato. La scelta di Celestino V, giudicata da Dante Alighieri un “gran rifiuto”, una manifestazione di colpevole ignavia, viene invece esaltata da Silone, che vi vede una coraggiosa affermazione della coerenza evangelica contro le tentazioni del potere e dei compromessi ecclesiali. L’opera affrontava, sul versante religioso, lo stesso tema di fondo trattato in  Uscita di sicurezza (1965) dal punto di vista autobiografico e storico politico. Sulla stessa scia si pone Severina, romanzo incompiuto, che riflette l’ammirazione dell’autore per Simone Weil. E’ degli ultimi anni anche Memorie dal carcere svizzero (1979).

Silone é un autentico, grande scrittore, nonostante le perplessità di chi critica l’eccesso di considerazioni morali, le quali sono tutt’uno con la sua vocazione letteraria e col suo impegno civile. Gli schemi narrativi siloniani, fatti di un linguaggio semplice, per certi versi poco letterari, poggiano su vicende tragiche narrate tra leggende, proverbi, credenze popolari, memorie del suo Abruzzo. La rappresentazione quasi mitica dei “cafoni” assume una valenza per certi aspetti inedita nella letteratura, essendo Silone il primo a presentare la realtà contadina del meridione d’Italia non più come idilliaca e oleografica, ma con tutto il suo disperato pathos di indicibile dolore e rassegnazione.

Le opere di Silone vennero conosciute in Italia solo dopo la seconda guerra mondiale. Ma negli anni ’50, egemonizzati  culturalmente dal PCI, cadde su Silone una sorta di “congiura del silenzio”, almeno fino agli anni ’60 quando sarà rivalutato per la sua opposizione al regime sovietico (Stalin era morto, c’erano stati i fatti di Ungheria nel 1956), e per il suo essere “socialista cristiano” (al governo nazionale italiano c’era i socialisti alleati con i cattolici).  Negli anni ’80 Bettino Craxi, allora segretario del PSI, iniziò un’opera di valorizzazione che purtroppo fu interrotta dalla bufera giudizia.

 

 

 

La maggiore preoccupazione di Silone era quella di penetrare il significato della vita umana e della storia nell’ottica di un umanesimo integrale, alla confluenza tra socialismo e cristianesimo. Rispetto al socialismo egli giudicava necessario ricollegarsi alla grande tradizione del Vangelo e rispetto al cattolicesimo voleva combattere quelle che considerava “sovrastrutture” della Chiesa-istituzione per privilegiare la dimensione più genuina e solida come un compito inderogabile, come una “vocazione”.  Le sue denuncie tuttavia non mancano di tratti ilari e satirici (alla Gorge Grosz, Jordi Bosch o secondo la tradizione della farsa, della fabula atellana e di Plauto).

Figure come Silone continuano ad attrarre lettori di ogni genere, ma  risultano scomode ai più. Ai laici piace la sua ricerca senza frontiere di Dio. Ai cristiani scontenti e critici la sua indipendenza. Agli anticlericali la sua figura di uomo fuori della Chiesa. I cattolici fedeli hanno diffidato delle sue critiche alla Chiesa. I comunisti e i loro alleati lo hanno considerato un “rinnegato” e respinto. Durante il periodo della guerra fredda, Silone rappresentava il simbolo vivente dell’anticomunismo. Sul fronte letterario non è andata meglio: osannato dai lettori e guardato con sospetto dalla critica per la sua scrittura non ossequiente alle regole del bello scrivere. Ancora oggi molti ritengono che Silone sia sottovalutato rispetto alla potenza dei suoi contenuti e del suo linguaggio severo, immediato, incisivo. Soprattutto non è stato approfondito il suo pensiero filosofico-politico. Infatti l’opera di Silone ha un suo corpus sostanzioso di riflessioni sul potere, sulla dittatura e sulla democrazia che meriterebbero una indagine a parte.

Nel 1996 è esploso il “caso Silone” sul quale non ci possiamo qui soffermare, in seguito al ritrovamento di lettere informative sulla situazione del PCI dal 1923 al 1930, attribuite a lui (con lo pseudonimo di Silvestri) e indirizzate al funzionario di Polizia G. Bellone[1]. Tuttavia, nonostante tali denuncie e in attesa di ulteriori studi sul tema, le opere siloniane non hanno subito contraccolpi significativi continuano a trasmettere valori forti: la difesa della dignità e dei diritti degli emarginati, la denuncia dell’ipocrisia, del conformismo, dell’affarismo e del cinismo in politica, la domanda di fraternità, semplicità, coerenza, la rivendicazione di una libertà non individualistica. Forse è stata la travagliata esperienza personale che ha fatto maturare in Silone una particolare attenzione alla coscienza. Ha scritto: «Data la natura della minaccia alla quale dobbiamo far fronte, la nostra parola d’ordine dev’essere la più universale, la più semplice, e nello stesso tempo la più radicale; la rivendicazione del carattere sacro e inalienabile dell’anima umana.  Habeas animam: che ogni creatura, chiunque sia abbia diritto alla propria anima». E’ opportuno il commento di Alfred Kazin: «Silone tranquillamente, fantasticamente, artisticamente, sta dicendo in quelle ultime pagine che l’Europa, il continente spezzato, ha un’anima»[2].

Severina. Quando Silone, nel periodo di convalescenza a Fiuggi (1977), si accinse a scrivere “La speranza di suor Severina”, era un uomo al tramonto, dall’intelligenza ancora viva e dalla sensibilità affinata dalle prove della vita, del tutto disincantato rispetto a false ideologie di progresso e a istituzioni che promettono libertà e giustizia a basso prezzo. L’opera venne interrotta e ripresa più volte per motivi di salute e rimase in uno stato frammentario: alcuni capitoli (1, 2, 3, 5, 7, 9) erano abbastanza rifiniti; altri (4, 6, 8, 10) erano in stesura non integrale e non definitiva; gli ultimi due (11, 12) solo in abbozzi «per appunti precisi e numerosi, sufficienti a inquadrare le vicende in logica sequenza». La stesura che oggi conosciamo è stata completata dalla moglie, Darina Laracy, che ne ha curato la pubblicazione postuma nel 1981, a tre anni dalla morte del marito col titolo La speranza di suor Severina (comunemente abbreviato in Severina), nella collana Mondadori degli « Scrittori italiani e stranieri », con prefazione di Geno Pampaloni. La copia originale è tuttora conservata nel Museo Silone, a Pescina, in parte manoscritto e in parte dattiloscritto. Darina ha svolto correttamente il suo lavoro, favorito dal fatto di aver potuto assistere da vicino alla sua difficile gestazione, documentando i suoi interventi nelle parti mancanti, indicando quando si è avvalsa delle note e degli appunti e quando ha cercato di riportare un periodo o una frase presa da un

(in I. Silone, Severina, Rent Colleció, Valencia 2010, tr. Catalana di  Joaquim Juan-Mompó Introduzione di  Giulia P. Di Nicola e Attilio Danese)