II parte introduzione a Severina, di Ignazio Silone

Severina. Quando Silone, nel periodo di convalescenza a Fiuggi (1977), si accinse a scrivere “La speranza di suor Severina”, era un uomo al tramonto, dall’intelligenza ancora viva e dalla sensibilità affinata dalle prove della vita, del tutto disincantato rispetto a false ideologie di progresso e a istituzioni che promettono libertà e giustizia a basso prezzo. L’opera venne interrotta e ripresa più volte per motivi di salute e rimase in uno stato frammentario: alcuni capitoli (1, 2, 3, 5, 7, 9) erano abbastanza rifiniti; altri (4, 6, 8, 10) erano in stesura non integrale e non definitiva; gli ultimi due (11, 12) solo in abbozzi «per appunti precisi e numerosi, sufficienti a inquadrare le vicende in logica sequenza». La stesura che oggi conosciamo è stata completata dalla moglie, Darina Laracy, che ne ha curato la pubblicazione postuma nel 1981, a tre anni dalla morte del marito col titolo La speranza di suor Severina (comunemente abbreviato in Severina), nella collana Mondadori degli « Scrittori italiani e stranieri », con prefazione di Geno Pampaloni. La copia originale è tuttora conservata nel Museo Silone, a Pescina, in parte manoscritto e in parte dattiloscritto. Darina ha svolto correttamente il suo lavoro, favorito dal fatto di aver potuto assistere da vicino alla sua difficile gestazione, documentando i suoi interventi nelle parti mancanti, indicando quando si è avvalsa delle note e degli appunti e quando ha cercato di riportare un periodo o una frase presa da un altro lavoro, per non alterare lo stile o il pensiero dello scrittore.

Non tutti condividono l’operato di Darina, specialmente per la elaborazione degli abbozzi conclusivi. Del resto non si può pretendere che sia stata rispecchiata in toto la scrittura dell’autore, ma neanche sarebbe giusto sostenere che il romanzo abbia perso il suo significato. I lettori vi hanno riconosciuto Silone e vi hanno visto una sorta di testamento letterario.

Il romanzo continua la scia degli eroi di Silone, come Berardo Viola in Fontamara, anticonformisti, sconfitti dal potere, ma coerenti e tenaci, formati dalla sofferenza e capaci di fratellanza. Sempre i temi legati al cristianesimo hanno accompagnato la produzione siloniana, ma in L’avventura di un povero cristiano e in Severina essi divengono assolutamente centrali  alla luce del dilemma tra obbedienza e coscienza. Se nei primi scritti la prosa siloniana si focalizza sulla oggettività delle situazioni problematiche, col tempo diviene più attenta ai drammi delle persone, ai loro travagli interiori. Severina non esprime più la fede in una rivoluzione storica, collettiva, politica, ma la speranza di una rivoluzione morale in grado di rinnovare e salvare l’umanità.

Ciò che è certamente nuovo in Severina è che tale eroe è una donna che campeggia, sola, al centro del romanzo. Severina è protagonista in modo diverso rispetto ad  Elvira, la prima della galleria di donne siloniane. Tutte le sue donne sono capaci in maniera eccellente di amore, di abnegazione, di altruismo. Sempre Silone ha mostrato il debito immenso verso quell’ “eterno femminino” in prima linea nel pagare il prezzo della dura avventura della vita, come si trattasse di un solo idealtipo che in condizioni diverse, porta il carico della vita e della , dell’amore e del dolore.  Severina però si distingue perché non agisce dietro l’impulso dell’amore per il figlio, il marito, il compagno, ma semplicemente per affermare la verità che non intende sacrificare a niente al mondo. 

Mentre negli altri romanzi la donna era colei che amava e subiva i contraccolpi delle scelte azzardare del “santo” siloniano, ora la storia si costituisce attorno a lei. Tutti hanno visto in Severina una configurazione letteraria dell’ammirazione che Silone nutriva per Simone Weil, conosciuta grazie a Darina, come lei stessa ci ha testimoniato  nella lettera inviataci in occasione del convegno su Laicità e religiosità in Ignazio Silone: «Silone (come Simone Weil d’altro canto, al pensiero della quale si legò molto, dopo che nel ’50 gli regalai Attente de Dieu) sarebbe stato un uomo “extra moenia”, fuori dalle mura, che non significa  però ‘fuori dalla chiesa’ ma ‘dentro una chiesa più grande, quella delle coscienze, dell’autentica ed universale fraternità, il “Cristo più grande della Chiesa”….»[1].

Silone è stato tra i primi estimatori e lettori della Weil, unitamente a Cristina Campo, Mario Luzi, Carlo Bo, Elsa Morante, che studiò il francese proprio per leggere in originale Simone Weil e Rimabud. Quando la Campo nel 1955 si trasferì a Roma,  instaurò un dialogo su Simone Weil con  Silone e Nicola Chiaromonte, i quali posero al servizio della Weil la rivista «Tempo presente» di cui erano direttori.  La Campo ha descritto Silone, conosciuto nel 1956, nel modo seguente:

«La prima cosa che mi ha colpito di lui è stata proprio la sua estrema attenzione. Non ti guarda in viso mentre parli ma si concentra su un punto (senza nessuna ostentazione o morbidezza […]), e prima di rispondere tace a lungo, a lungo — anche se poi deve dire soltanto “Si” o “No” (Tutto il resto viene dal Maligno). E’ un uomo totalmente disarmato. Mi disse subito, senza preamboli, che la Weil aveva avuto su di lui un’enorme influenza  “specialmente il volume Attente de Dieu”.[…] Mi chiese di portargli tutto quel che volevo, della Weil o sulla Weil, per “Tempo Presente” […] S’interessava dei minimi particolari. […]. Io tradurrò per lui Luttons-nous pour la justice e gli porterò anche la nota sulla Venezia salva…»[2].

In uno dei suoi viaggi a Parigi, nel 1957, Silone si recò a visitare la madre Selma Weil, insieme a Boris Souvarine, a Robert Schumann e a Simone Pétrement. Margherita Pieracci Harwell, che ha frequentato a lungo casa Weil a Parigi attesta: «Silone leggerà da allora tutti i testi della Weil. Simone Weil aveva scoperto a sua volta Silone molti anni prima, leggendo Pane e vino, che profondamente la colpì — come mi disse nel ‘58 la madre di Simone, Selma Weil[3], la quale poi espresse sempre nei riguardi di Silone, quando me ne parlava, un’ammirazione che confinava con la reverenza: atteggiamento assai insolito in lei, donna capace della più appassionata dedizione, ma la cui conversazione era tutta corsa da una vena di ironico distacco, tranne nei momenti in cui si abbandonava al ricordo struggente della figlia e del marito perduti. Il rispetto estremo per la figura di Silone e la sua opera Selma Weil condivideva con Camus, che  guardava al nostro scrittore come a maestro»[4].

In Uscita di Sicurezza Silone, esplicitando le ragioni dell’attrazione incondizionata per quest’autrice, riferisce di alcuni passaggi della lettera del 1938 a Bernanos a proposito della guerra civile spagnola, nella quale la Weil descrive il meccanismo degli ex perseguitati che diventano persecutori: «La lettera esprime l’orrore di una donna sensibile per le inutili stragi che accompagnarono quegli avvenimenti… Sarebbe difficile citare un testimonio più puro e disinteressato e una vicenda più esemplare…In questo naufragio morale qual è il relitto a cui aggrapparsi per non affondare? Tra i pensieri della stessa Simone Weil… si può leggere questa risposta indiretta, la cui validità sorpassa di gran lunga la politica: bisogna “essere sempre pronti a mutare di parte come la giustizia, questa fuggiasca dal campo dei vincitori”». E Silone continua parafrasando la lettera.[5].

Che cosa univa Silone a Simone Weil? Accenniamo qui solo ad alcuni tratti che meriterebbero una trattazione approfondita, in parallelo tra i due scrittori:

·                     Entrambi erano disillusi sulla rivoluzione e sul marxismo

·                     Hanno dichiarato di aver scelto il socialismo non sulla base della ideologia ma attirati da uomini autentici, capaci di solidarietà.

·                     Hanno diffidato del potere che ha il collettivo sulle coscienze (istituzione, massa, partito, Chiesa)

·                     Hanno desiderato vivere la povertà e l’essenzialità evangelica

·                     Hanno approfondito il loro itinerario spirituale senza abbandonare l’impegno politico,

·                     Hanno considerato il prestigio sociale come un disvalore

·                     Hanno ammirato i folli, perché controcorrente e capaci di dire la verità, e considerato l’amore come una sapiente “follia”.

·                     Hanno pensato che un vero eroe fiorisce nella sventura, quando l’opinione pubblica e la giustizia penale lo condannano, giacché i beni più importanti “non si acquistano alle svendite”.

·                     Hanno lottato per rivendicare la libertà di sbagliare, di sperimentare a modo proprio e sfuggire alle verità codificate e alle istituzioni.

·                     Hanno preferito il nascondimento di un Dio povero alla sua onnipotenza, a protezione da qualunque idolatria (Silone ha scritto: “Ed Egli si nascose”).

·                     Hanno utilizzato la metafora umana e divina del vino e del pane

·                     Non si sono risparmiati nella lotta, disposti a “mutare di parte come la giustizia, questa fuggiasca dal campo dei vincitori”.

·                     Hanno scritto seguendo una istanza sociale e morale senza essere moralisti.

Severina, l’ultimo della teoria dei “santi” siloniani, era perfetta per incarnare l’idealtipo di donna che era l’immagine speculare di Silone. La trama del romanzo è lineare: Severina è orfana di madre e viene allevata in un convento. Diventerà una suora e insegnerà latino in un istituto religioso, rigorosa nell’osservare i suoi doveri. Un giorno però assiste, per caso, ad una operazione di polizia: durante un’assemblea sindacale, scoppia un tafferuglio con la polizia sulla piazza antistante il suo istituto, a Civitella, un paese immaginario dell’Abruzzo aquilano, in una estate imprecisabile, degli ultimi anni ’60. Un giovane operaio rimane ucciso. Lei è l’unica testimone involontaria della violenza delle forze dell’ordine: pugni, calci, manganellate lasciano sul terreno vari feriti ed un ragazzo morto, che lei conosceva perché aveva svolto qualche lavoretto per le suore.

Quando i giornali e la radio sostengono che non è stata la polizia a uccidere l’operaio, Severina emerge nella sua integrità morale: chiamata dalla Madre Superiora a sottoscrivere il resoconto del capo della polizia, si rifiuta di mentire e di accusare « di provocazione un povero ragazzo massacrato di botte, davanti ai suoi occhi, da un gruppo di poliziotti inferociti». La madre Badessa, fino a quel momento materna con lei si irrigidisce a difesa dell’istituto, che ai suoi occhi è il valore supromo da difendere in quella circostanza: «…l’Istituto era il suo orgoglio – scrive di lei Silone –  l’opera per la quale non avrebbe esitato a sacrificare la sua vita»[6]. Su invito della Curia, esige che Severina appoggi la versione dei poliziotti, insulta la giovane che le si oppone e si fa sostenere dal giovane prete legato alle autorità locali. Silone annota per bocca di Severina: «Conservo della Madre Superiora un ricordo non odioso. E’ una buona donna, perfino una donna molto buona. Il suo difetto è una sottomissione cieca al clero. Ma non è un difetto personale; è caratteristico di quasi tutte le comunità religiose femminili»[7].

Severina ha di fronte il muro dell’alleanza tra potere statale e religioso, ma non si piega al richiamo  dell’ubbidienza, alle minacce, al rischio di una mancata parificazione dell’Istituto con le scuole statali, a don Antonio. La versione di Suor Severina, che si presenta spontaneamente a testimoniare, contrasta con quella ufficiale, il che nuoce all’istituto, crea spaccature in convento e provoca la reazione dei giornali contro la prepotenza della polizia.
Severina vive momenti bui e s’interroga sulla sua vocazione. Le è di conforto l’amicizia con don Gabriele, che per altri versi vive problemi simili e conclude di essere un  prete senza vocazione:  «Diventai prete per merito o colpa, di mia  madre. Deve sapere che il sacerdozio era la vera vocazione di mia madre. Prima ancora di nascere, io ero destinato da lei alla vita religiosa… Non potendo lei stessa diventare prete, secundum ordinem Melchisedech, mia madre si servì del figlio»[8]. Don Gabriele è il padre spirituale dell’Istituto, ma viene sospeso dall’incarico e dall’esercizio delle funzioni sacre a seguito della crisi di coscienza che lo ha condotto alla perdita della fede. A lui, che non ha fiducia e speranza nel futuro, Severina dirà – weilianamente – che non bisogna “perdere mai la nostra indignazione morale di fronte all’ingiustizia. Non abbandonare mai la ricerca della verità, neanche nella notte scura”. Il rapporto di Severina con don Gabriele non potrebbe mai ridursi al gioco dei sentimenti. La sintonia si genera attorno a pensieri e problemi che oltrepassano quelli personali. Severina saprebbe rinunciare ai sentimenti se fossero un ostacolo all’obbligo morale che sente urgere in lei. Potrebbe stabilire rapporti significativi soltanto con persone del suo calibro.

La suora finisce con l’ammalarsi di polmonite ma continua ad approfondire la sua ricerca personale di verità fino alla decisione di lasciare, ancora convalescente, l’Istituto e tornarsene a Castelvecchio, suo paese natio, in casa di suo padre, don Fulgenzio, e della matrigna. La riscoperta dei luoghi cari dell’infanzia e l’affetto dei cari l’aiutano a riprendersi. Ormai è persuasa di aver sbagliato vocazione. Il papà vorrebbe affidarle la cura della proprietà di famiglia ma Severina decide di trovarsi un lavoro e dedicarsi alla causa dei poveri. Constata però di essere osteggiata per aver detto la verità sui fatti di Civitella.  La vicenda di suor Severina si estende oltre ogni tempo e luogo e acquista un significato universale di denuncia della connivenza tra istituzioni ecclesiastiche e potere politico, della violenza delle forze dell’ordine, della menzogna come strumento di governo, dell’acquiescenza al male anche da parte del mondo ecclesiale, dello strozzamento della persona onesta in condizioni avverse, tutti temi ricorrenti in Silone, negli scenari fascisti, comunisti e nelle pseudo-democrazie. Per comprendere Severina, il disincanto deve essere totale e trasparente: «Nessun ordinamento pubblico eliminerà mai il dolore dalla vita personale e, in mancanza d’altro, basterebbe questo per mantenere viva l’inquietudine nel cuore dell’uomo. In mancanza d’altro basterebbe la certezza della morte. Nessun benessere potrà mai distrarre la totalità degli uomini dal confronto tra le proprie aspirazioni e la fragilità dell’esistenza»[9].

Severina conosce un gruppo di giovani e accetta il loro invito – dopo essersi assicurata che si tratta di una manifestazione pacifica – ad un corteo di protesta a favore dei disoccupati a L’Aquila. Ad un certo punto, la folla non riesce a trattenersi entro lo spazio limitato dal cordone di polizia e qualche poliziotto comincia a sparare in aria. Severina vede una studentessa amica in situazione di pericolo, si slancia verso di lei e rimane colpita da un proiettile vagante. La corsa in ospedale non riesce a salvarla. Nelle poche ore che le restano da vivere, raccomanda al padre la donazione delle sue cornee e dei suoi reni. Accorrono don Gabriele  e suor Gemma, la vecchia consorella dell’Istituto di Civitella che le chiede se crede ancora in Dio. Nel barlume di coscienza che le rimane, Severina risponde: «Spero, suor Gemma, spero. Mi resta la speranza».

Severina infatti è il simbolo della speranza, che ha guidato Silone stesso lungo i tortuosi sentieri della vita, sottraendolo al nichilismo che lo assaliva per la caduta delle ideologie, della fede ingenua, delle certezze, della fiducia nel progresso e nelle istituzioni di ogni tipo. Silone chiamava scherzosamente “La speranza di Suor Severina” il “romanzetto”, ma in realtà rifletteva in lei la sua condizione di “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”. Anche a lui era indispensabile la speranza per illuminare la vita di ogni giorno e nutrirla d’amore: «Chi ama non può disperare»[10].

Severina rappresenta il rifiuto di cedere al suicidio. Altri illustri scrittori avevano scelto di porre volontariamente termine alla loro vita. Silone stesso ricorda, tra gli altri, i suicidi di Majakowsky, Stefan Zweig, Klaus Mann, Drieu La Rochelle, Pavese, tutte persone diverse fra loro, eppure accomunate da un malessere che andava oltre la loro situazione individuale. Avevano respirato un “senso di smarrimento, noia, angoscia, disperazione davanti al penoso sforzo di vivere e alla sua inutilità”[11]. Silone aveva resistito: «Nietzsche definì per primo questa decadenza … Nichilista è la diffusa intima convinzione che dietro tutte le fedi e dottrine in fondo non ci sia nulla di reale, e pertanto, in definitiva, solo importi e conti il successo. Nichilista è il sacrificarsi per una causa alla quale non si crede, facendo finta di crederci. Nichilista è l’esaltazione del coraggio e dell’eroismo indipendentemente dalla causa a cui servono, equiparando così il sicario al martire. La stessa libertà può essere nichilista, la libertà che non sia al servizio della vita e si tramuta in schiavitù, agitandosi per nulla, nel suicidio e nel delitto, come taluni eroi di Dostoevskij»[12]. La resa al nichilismo gli appariva legata all’incapacità di guardare in faccia il dolore: «Probabilmente alcuni di essi  [scrittori suicidi] finirono col soggiacere così miseramente all’angoscia per averla esclusa dalla propria dottrina e arte. L’inibizione è più micidiale della sincerità»[13].

Silone si è sentito investito del compito di essere il portavoce del dolore secolare causato dalle ingiustizie e sopraffazioni e ha voluto esserne la coscienza, il testimone, “la tromba di Lazzaro” di questa sofferenza. Ricollegandosi alle ragioni della crisi che lo aveva portato prima fuori dalla Chiesa e poi fuori dal PCI, Severina vive il suo stesso dissidio e si ritrova fuori delle istituzioni di qualsiasi natura. È questo che ne fa una protagonista capace di contrastare i  valori dominanti, i compromessi, la ricerca del successo e dei soldi. Viene condannata dalle istituzioni perché difende la verità senza tenere conto delle conseguenze disastrose che questo suo atteggiamento comporterà.  La tenacia di Severina unisce in un filo d’oro tutti  i personaggi principali dei romanzi precedenti, come Celestino che controbatte a Bonifacio VIII: «Dio ha creato le anime, non le istituzioni. Le anime sono immortali, non le istituzioni, non i regni, non gli eserciti, non le chiese, non le nazioni… Santità, se voi vi affacciate a quella finestra, vedrete sulla scalinata della cattedrale una vecchietta cenciosa, una mendicante, un essere di nessun conto nella vita di questo mondo, che sta lì dalla mattina alla sera. Ma tra un milione di anni, o tra mille milioni di anni, la sua anima esisterà ancora, perché Dio l’ha creata immortale. Mentre il regno di Napoli, quello di Francia, quello d’Inghilterra, tutti gli altri regni, con i loro eserciti, i loro tribunali, le loro fanfare e il resto, saranno tornati nel nulla”»[14].

Tutti gli eroi siloniani esprimono la stessa tensione morale che soccombe alle istituzioni e trionfa nelle coscienze. Per questo Silone in Uscita di sicurezza ha scritto: «Se dipendesse da me – ha scritto – passerei volentieri la mia vita a scrivere e riscrivere lo stesso libro: quell’unico libro che ogni scrittore porta in sé, immagine della propria anima, e di cui le opere pubblicate non sono che frammenti più o meno approssimativi»[15].

Nel Confiteor, alcune cartelle ritrovate da Darina, dattiloscritte da Silone negli anni Cinquanta in forma di autointervista, egli si pone e risponde ad alcune domande. Queste alcune:

«* A quali lettori pensi, di preferenza, quando scrivi?

                A donne, a uomini inquieti, disposti anch’essi a riflettere….

* I tuoi  narratori preferiti? Quelli che talvolta torni a leggere.

        – Cervantes, Tolstoj, l’autore del libro di Tobia e di Giobbe.

….

* Quali sono stati gli incontri più importanti della tua vita?

 – Alcune donne; tra  i personaggi noti: Don Orione, Antonio Gramsci, Trotzkij, Leonard Ragaz, Albert Camus.

 * Quali personaggi della storia italiana sono ora per te più stimolanti?

  – Attualmente? Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Pietro Morrone (Celestino V), Carlo Cafiero[16].

  * Della nostra epoca?

   – La francese Simone Weil.

  * La data più importante della storia universale?

   – Il 25 Dicembre dell’anno 1.

         * Non credi in uno Stato cristiano?

  – Fra i due termini, Stato e cristianesimo, mi pare che vi sia incompatibilità.

   * Credi almeno in una società cristiana?

    – Sarebbe cristiana la società in cui l’amore sostituisse le leggi.

  * Credi che gli intellettuali possano avere una funzione di guida della società?

    – Non esiste, nella società moderna, un ceto intellettuale indipendente e omogeneo. Ma nei paesi di dittatura, come quelli dell’Europa orientale e della penisola Iberica, può accadere che gli intellettuali abbiano per qualche tempo un ruolo d’avanguardia.

* Hai fede nell’uomo?

    – Ho una certa fiducia. Ho fiducia nell’uomo che accetta l’inevitabile dolore dell’esistenza e lo sopporta con qualche certezza. Così penso che, dai campi di lavoro forzato e dalle prigioni dei paesi totalitari, possano venire fuori uomini che ridaranno la vista ai ciechi»[17].

 

 

 

Sigle e opere di Silone

 

A I         Appendice I, in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998, 1415-1458

A II        Appendice II, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999,  1439-1604

ABR 48   Attraverso l’Italia. Abruzzo e Molise, Touring Club Italiano, Milano 1948

APC       L’Avventura di un povero cristiano,  in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 567- 745.

BIBL     Bibliografia, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 1607-1665

ESN                   Ed egli si nascose, a cura di Benedetta Pierfederici, introduzione di Carlo Ossola,  Città Nuova, Roma 2000.

F Fontamara, in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998, 5-196.

MM                   Una manciata di more, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 5-280.

S Severina, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 1441-1488.

SA I       Scritti autobiografici, in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998, 1369-1414.

SA II     Scritti autobiografici, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 1207-1438.

SD         La scuola dei dittatori, in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998, 1017-1230.

SL          Il segreto di Luca, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 281-425.

SLI I      Scritti sulla letteratura e gli intellettuali,  in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998,1343-1366,

SLI II    Scritti sulla letteratura e gli intellettuali,  in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 1115- 1206

SN         Il seme sotto la neve, in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998, 515-1013.

SPM I    Scritti politici e morali, in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998, 1231- 1342

SPM II              Scritti politici e morali, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 985-1114.

RS I   Romanzi e Saggi, a cura e con un saggio introduttivo di Bruno Falcetto e una testimonianza di Gustav Herling,   (1927-1944), Mondadori, Milano 1998;

RS II      Romanzi e Saggi, a cura e con un saggio introduttivo di Bruno Falcetto,   (1945-1978),  Mondadori, Milano 1999.

US         Uscita di Sicurezza, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 749-984.

VC         La volpe e le camelie, in Romanzi e Saggi, II, Mondatori, Milano 1999, 427-534.

VP         Vino e pane, in Romanzi e Saggi, I, Mondatori, Milano 1998,  197-514.

 

 

 

 

 

 

 

 


[1]  Darina Laracy Silone, Lettera  ai direttori di “Prospettiva Persona”, in A. Danese (a cura di), Laicità e religiosità in Ignazio Silone, Edigrafital, Teramo, 2001, 9. L’espressione “Cristo è più grande della Chiesa “si ritrova in APC, 564.

[2] C. Campo, Lettere a Mita, Milano Adelphi, 1999, pp. 36-37.

[3] Ero andata a trovarla, per suggerimento di Cristina e di Silone, nell’agosto di quell’anno (la Campo ed io traducevamo allora La Source grecque e Les Intuitions préchrétiennes ).  Ne nacque una meravigliosa amicizia, per cui — finché non mi sposai, nel ’61 -— passai da lei  gran parte delle mie vacanze.  Nelle  conversazioni che M.me Weil si concedeva dopo ore di  trascrizione dei manoscritti lasciati inediti da Simone, mi raccontava dell’infanzia e adolescenza della figlia, delle sue visite al Puy e alle altre città dove Simone lavorava; delle sere, poi,  in cui, col marito, si  nascondeva a guardare la figlia che rientrava stremata dalla fabbrica; di quando loro due la raggiunsero in Spagna.  Mi trovavo a casa sua il giorno in cui morì Camus, forse per lei il più grave lutto dopo la morte della figlia e del marito.

[4] M. Pieracci Harwell, Sintonie weiliane tra Italia e Francia, in A. Danese- G. P. Di Nicola, Persona e impersonale. La questione aantropologica in Simone Weil, Rubbettino, Soneria Mannelli 2009,  59-60.

[5] US, 889.