Grazia Deledda al Salotto culturale di lunedì 23 aprile

 

 

 

Comunicato stampa

 

Lunedì 23 aprile alle ore 17,45 nei locali della Sala di Lettura “Prospettiva Persona”   

La XI edizione del Salotto culturale  propone un nuovo incontro  della serie   “La selva delle lettere”  a cura di Pupi Avati,   con percorso fatto di immagini  sui luoghi degli autori, con  testi e regia a cura di Luigi Boneschi.

L’incontro di lunedì sarà introdotto da Modesta Corda che presenterà al pubblico la figura e l’opera di Grazia Deledda a conclusione del 75° anniversario  dalla morte (avvenuta nel 1936),  e a 141 anni dalla nascita.  

La cittadinanza è invitata

 

Approfondimento liberamente tratto da http://web.tiscali.it/rosie/GraziaDeledda/

Grazia Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871 da Giovanni Antonio e Francesca Cambosu, quinta di sette figli. La famiglia appartiene alla borghesia agiata: il padre che ha conseguito il diploma di procuratore legale, si dedica al commercio del carbone ed è un cattolico intransigente.
Diciasettenne, invia alla rivista “Ultima moda” di Roma il primo scritto, chiedendone la pubblicazione: è “Sangue sardo”, un racconto nel quale la protagonista uccide l’uomo di cui è innamorata e che non la corrisponde, ma aspira ad un matrimonio con la sorella di lei.
Il testo rientra nel genere della letteratura popolare e d’appendice sulle orme di Ponson du Terrail. Incerte sono le notizie di un lavoro ancora precedente, datato da alcuni critici al 1884. Tra il 1888 ed il 1890, collabora intensamente con riviste romane, sarde e milanesi, incerta tra prosa e poesia. L’opera che segna più propriamente l’inizio della carriera letteraria è “Fior di Sardegna” (’92), che ottiene una qualche buona recensione.

 

Gli scritti risentono di un clima tardo romantico, esprimendo in termini convenzionali e privi di spessore psicologico un amore vissuto come fatalità ineluttabile. E’ anche, per lei, un’epoca di sogni sentimentali, più che di effettive relazioni: uomini che condividono le sue stesse aspirazioni artistiche sembrano avvicinarla, ma per lo più un concreto progetto matrimoniale viene concepito da lei sola. Si tratta di Stanislo Manca, nobile sardo residente a Roma, di Giuseppe M.Lupini, musicista che le dedica una romanza, del giornalista triestino Giulio Cesari e del maestro elementare Giovanni Andrea Pirodda, “folclorista gallurese”.
Sollecitata da Angelo De Gubernatis, si occupa di etnologia: della collaborazione alla “Rivista di Tradizioni Popolari Italiane”, che va dal dicembre ’93 al maggio ’95, il miglior risultato sono le undici puntate delle “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna”.

 

 

 

Nel 1895 presso Cogliati a Milano, viene publicato “Anime oneste”.
L’anno successivo esce “La via del male” che incontra il favore di Luigi Capuana.
Durante una permanenza a Cagliari, nel 1899, conosce Palmiro Madesani, funzionario del Ministeri delle Finanze in missione. Contemporaneamente compare a puntate su “Nuova Antologia” il romanzo “Il vecchio della montagna”.
L’11 gennaio dell’anno successivo, si sposa con Palmiro e in aprile si trasferiscono a Roma: si realizza in questo modo il suo sogno di evadere dalla provincia sarda. Sebbene conduca vita appartata, nella capitale verrà a contatto con alcuni dei maggiori interpreti della cultura italiana contemporanea.
Tra agosto e dicemdre del 1900, sempre su “Nuova Antologia”, esce “Elias Portolu”.
Il 3 dicembre nasce il primogenito, Sardus; tenuto a battesimo dal De Gubernatis (avrà in seguito un altro figlio, Franz). La giornata di Grazia si divide fra la famiglia e la scrittura, a cui dedica alcune ore tutti i pomeriggi.

 

Nel 1904 viene pubblicato in volume “Cenere”, da cui verrà tratto un film interpretato da Eleonora Duse (1916).
I due romanzi del 1910, considerati in genere frutto di una tenace volontà di scrivere piuttosto che di autentica ispirazione, sono notevoli tuttavia per essere, il primo, “Il nostro padrone”, un testo a chiaro sfondo sociale e il secondo, “Sino al confine”, per certi aspetti autobiografico.
Al ritmo sostenuto di quasi due testi all’anno compaiono i racconti di “Chiaroscuro” (’12), i romanzi “Colombi e sparvieri” (’12), “Canne al vento”(’13), “Le colpe altrui” (’14), “Marianna Sirca” (’15), la raccolta “Il fanciullo nascosto” (’16), “L’incendio nell’uliveto” (’17) e “La madre” (’19).
Si tratta della stagione più felice. I romanzi hanno tutti una prima pubblicazione su riviste (volta a volta “Nuova Antologia”, “Illustrazione italiana”, “La lettura” e “Il tempo”), quindi vengono stampati per i tipi di Treves.

 

 

Nel 1912 esce “Il segreto di un uomo solitario”, vicenda di un eremita che scelto l’isolamento per nascondere il proprio passato. “Il Dio dei viventi”, del 1922, è la storia di un’eredità da cui trtaspare una religiosità dicarattere immanente.
Il 10 settembre 1926 le viene assegnato il Nobel per la letteratura: è il secondo autorre in Italia, preceduta solo da Carducci vent’anni prima; resta finora l’unica scrittrice italiana premiata.
In “Annalena Bilsini” si avverte una certa stanchezza, che colpisce la la critica soprattutto a seguito dei recenti riconoscimenti. L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” è del 1936. La protagonista è, come l’Autrice, ammalata di tumore.
Di li a poco Grazia si spegne, il 15 agosto.
Lascia un’opera incompiuta, che verrà pubblicata l’anno successivo a cura di Antonio Baldini con il titolo “Cosima, quasi Grazia”.

Ippolito Nievo nacque a Padova il 30 novembre 1831, figlio di Antonio, avvocato di nobili origini mantovane, e di Adele Marin, discendente dai Colloredo di Mont’Albano nel Friuli. Il teatrino feudale di Fratta che prenderà vita nel Le Confessioni d’un Italiano è dunque già presente nella famiglia stessa di Ippolito: possiamo immaginare come nasca l’affettuosa ironia con cui lo scrittore guarderà ai vezzi e alle manie del mondo aristocratico.

Dopo avere trascorso i primi anni dell’infanzia in varie città del Lombardo Veneto, sempre seguendo il padre nei suoi spostamenti di lavoro, nel 1841 Ippolito entra a convitto nel collegio del seminario di Verona, dove si iscrive al ginnasio di Sant’Anastasia, che continuerà a frequentare da esterno quando, due anni dopo, lo lascerà.

Nel 1847 Nievo, superati gli esami, torna nella casa di famiglia a Mantova. Da questo momento in poi, la biografia personale del giovane Ippolito è legata a doppio filo con le vicende storiche e politiche del suo tempo, dominate dai movimenti patriottici e dai moti anti austriaci: un legame su cui si costruirà anche l’intreccio del suo futuro capolavoro, il cui protagonista, Carlino Altoviti, è stato definito a ragione un «picaro del Risorgimento». A Mantova infatti, Nievo partecipa al tentativo insurrezionale del 1848, fallito il quale, lascia deluso la città insieme all’amico Attilio Magri, con cui trascorre alcuni mesi a Cremona. Qui nasce l’idillio con Matilde Ferrari, durato due anni e futuro motivo ispiratore del romanzetto Antiafrodisiaco per l’amor platonico, composto nel 1851.

Conseguita la licenza liceale, Nievo si iscrive al corso di diritto presso l’università di Pavia. Ma anche se sarà uno studente brillante e raggiungerà la laurea in utroque iure nel 1855, tuttavia, la sua mente, le energie e i suoi reali interessi sono ormai rivolti altrove. Nel 1852 inizia infatti la sua attività di pubblicista, che proseguirà sempre accanto al lavoro letterario. Nel 1854 esce presso l’editore Vendrame di Udine il primo volumetto dei Versi, raccolta di poesie pubblicate in precedenza sulla rivista «L’Alchimista friulano». Nello stesso anno Nievo esordisce anche come drammaturgo: viene rappresentato a Padova, in verità con scarso successo, il suo dramma Gli ultimi giorni di Galileo Galilei.

Ma ormai la strada dello scrittore è decisamente segnata: deluso dalla situazione politica del suo paese, Ippolito nel 1855 si ritira in campagna, a Fossato di Rodigo, e qui ha inizio un periodo di intensa produttività artistica. Si intrecciano in questi mesi i progetti narrativi dei romanzi Angelo di bontà e Il conte pecorajo, de Il Varmo e di altre novelle campagnole, mentre già comincia a delinearsi nella mente dell’autore l’abbozzo di quelle che saranno Le Confessioni d’un Italiano, il suo capolavoro. Inoltre, con la sua attività pubblicistica, Nievo si avvicina sempre più al giornalismo militante milanese e collabora con Giovanni De Castro, direttore del settimanale «Il Caffè».

L’anno successivo, nel 1856, il racconto L’Avvocatino, pubblicato sul foglio milanese «Il Panorama universale», gli procura un processo per vilipendio alle autorità austriache: Nievo assume il patrocinio di se stesso, ed è quindi costretto a trascorrere lunghi periodi a Milano per seguire le vicende giudiziarie. Una seccatura solo in apparenza: in realtà, è l’occasione per godere del vivace clima culturale milanese e partecipare ai dibattiti politici e letterari che animavano quella che agli occhi del provinciale Nievo doveva sembrare una favolosa metropoli. Ritornato a Colloredo, Nievo scriverà all’amico Carlo Gobio, ancora nella città lombarda: «Vo’ profugo per deserti interminati, in grandi stivali alla Suwarov col fango fino ai ginocchi; siedo nelle stalle a disputare coi contadini, mi turo gli orecchi a qualche eco di non lontani rumori che giunge fino a noi (…) – E voi che ne fate della vostra vita Beniamini di Domeneddio? – Oh quanto volentieri spirerei un pocolino i profumi dei risotti e delle panne Milanesi!… Ma… Peraltro il mio processo ha saltato la siepe; e il delitto si è cangiato in semplice contravvenzione di stampa! perciò spero ricevere il passaporto».

Si vede bene come il rammarico per aver lasciato Milano sia ben maggior del sollievo per lo scioglimento della questione giudiziaria, che in verità non aveva mai costituito una grande fonte di preoccupazione per Nievo. E possiamo pensare che anche il soggiorno a Milano, con i suoi infiniti stimoli e le svariate suggestioni intellettuali, abbia contribuito alla messa a punto del grande romanzo di Nievo, steso in pochi mesi di febbrile lavoro tra il 1857 e il 1858 (verrà pubblicato solo due anni dopo, con il titolo riveduto Le Confessioni d’un ottuagenario).

Negli ultimi anni della sua breve vita Nievo sembra accantonare l’attività letteraria per abbracciare un approccio più attivo alla storia e ai problemi dell’Italia contemporanea. In realtà, la letteratura è sempre presente in filigrana, e sempre lo accompagna sia pure nella forme più erratiche e frammentarie della lettera, dell’appunto poetico, del diario. È del 1859 il notevole saggio La rivoluzione nazionale, rimasto incompiuto e pubblicato postumo. Unitosi alle truppe garibaldine, il 5 maggio del 1860, Nievo salpa da Quarto a bordo del Lombardo con Nino Bixio e Giuseppe Cesare Abba; si distinguerà a Calatafimi e a Palermo, e Garibaldi gli affiderà la viceintendenza generale della spedizione.

Tornato al Nord tra il 1860 e il 1861, a febbraio Ippolito riceve l’ordine di tornare a Palermo per raccogliere la documentazione necessaria a smentire una campagna di dicerie calunniose montata contro l’amministrazione garibaldina. Il 4 marzo si imbarca sul piroscafo Ercole, di ritorno verso il continente: la nave si inabisserà nel Tirreno, al largo di Napoli. Il relitto non verrà mai ritrovato.