Da 25 anni al servizio della persona umana

Scriviamo qui perché abbiamo letto con sorpresa e disappunto l’articolo di “Avvenire” a firma di Francesco D’Agostino del 21 maggio 2017 in prima pagina.

Avendo noi fondato il Centro Ricerche Personaliste  nel 1985 e la relativa rivista Prospettiva Persona nel 1992(www.centropersonalista.it\// ) e avendo dedicato i nostri anni migliori alla promozione di una cultura per la persona e agli studi cristianamente ispirati che la sostengono, ci siamo premurati di chiedere ad alcuni amici della rete di “Prospettiva Persona” di intervenire per precisare l’attualità del personalismo e della persona. In effetti, alcuni giorni dopo, sono apparsi sullo stesso quotidiano gli articoli in difesa del personalismo da parte di Giorgio Campanini (attuale presidente onorario del nostro centro), di Francesco Bellino( Bioeticista dell’Università di Bari) e di Bonini Paolo di “Persona è futuro”. Noi stessi  abbiamo ora affidato il nostro pensiero ad un articolo che avremmo voluto fosse pubblicato   sul giornale della Chiesa cattolica italiana. Non avendo però frequentazioni con la Direzione di  “Avvenire”, nonostante l nostro essere giornalisti accreditati presso la Cei, ci limitiamo a mettere a disposizione qui la nostra riflessione.

Persona e  comunità

L’articolo di Francesco D’Agostino del 21 maggio u.s., su Avvenire che indicava il tramonto del personalismo e del concetto di “persona”, ha acceso un dibattito sul tema (Campanini, Bonini, Bellino) che va ripreso. Scriveva D’Agostino: «Di qui, per i cattolici, l’urgenza di elaborare la consapevolezza che quello del personalismo è un paradigma al tramonto, … e come tanti altri paradigmi moderni ormai consunto. È ormai urgente abbandonarlo, come aveva profeticamente ed energicamente esortato a fare Sergio Cotta, già diversi decenni fa, restando però malinconicamente inascoltato. È ormai urgente un nuovo impegno teoretico da parte di tutti coloro che trovano nel messaggio evangelico una fonte di sapienza umana, oltre che di sovrumana speranza. Dobbiamo cessare di parlare delle ‘persone’ e tornare a parlare semplicemente di esseri umani, di uomini e donne, di fratelli e sorelle che sono tali non perché si attribuiscono la qualità di ‘persone’, ma perché riconoscono la loro comune identità di figli e figlie di Dio. Un discorso incredibilmente semplice, centrato su fraternità e sororità. Semplice eppure destinato a suonare, al mondo d’oggi, scandaloso».

A noi risulta fuori luogo  la certezza di certi accademici che si sbarazzano frettolosamente di un concetto come la persona, considerandolo poco filosofico e più psicologico (identificatoconfuso con personalità?) e poco fanno per scandagliarne la profondità e la fecondità teoretica e magari proporci alternative valide in un caso come quello di Charlie, per noi persona, per altri “una larva”. Abbiamo un concetto per affrontare tutte le sfide del postmoderno, dall’individualismo al collettivismo, dal culturalismo all’ideologia del gender, dalla bioetica (bene ha fatto Bellino a ricordarlo) al bene comune in politica (vedi Campanini)? In che modo sostituiamo l’ancoraggio alla Costituzione o intendiamo perfezionarla evirandola del fondamento (“ la piramide rovesciata”: la persona umana)?

Gli illustri personaggi citati nell’articolo, a suo tempo, scoraggiarono chi voleva impegnarsi con un Fondo di ricerca ministeriale dedicato allo studio di Mounier (definito ‘cattocomunista’). Eppure la scelta di impegnare onestamente i fondi di ricerca a Parigi per studiare Emmanuel Mounier fruttò l’amicizia e la guida della vedova Paulette Leclerq e quella dell’amico e maestro Paul Ricoeur (che non temeva di dichiararsi ‘allievo’ di Mounier). Fu proprio Ricoeur che, affrontando il dibattito sulla morte del personalismo, pubblicò nel 1983 su “Esprit” ( lo ha ricordato F. Bellino): “ Muore il personalismo e ritorna la persona”.

Mounier, “profeta e filosofo” che continua a sfidare i nostri tempi, non parla solo di “persona”, ma di persona e comunità, parole che non solo non hanno perso lo smalto ma sono ancor più valide nella cultura postmoderna, quando il vivere in relazioni calde e comunitarie è una indispensabile difesa dalla spersonalizzazione, dall’anonimato, dall’irrilevanza del singolo, dalle pretese dei medici come quelli di Charlie. Proprio contro gli esiti dell’individualismo e del collettivismo massificante Mounier, padre amorevole di un bimba che da sette mesi è vissuta per 18 anni come un vegetale e da lui considerata “un’ostia vivente tra noi”, sosteneva che tra i due pilastri del personalismo Persona e Comunità, la parola più importante fosse la congiunzione.

La verifica dei contesti e delle applicazioni tuttavia è necessaria: come parlare di persona senza che questo termine assuma una evocazione astratta, universalista e retorica? Come sfuggire alle proclamazioni roboanti di concetti tanto belli quanto inefficaci? Come evitare di sottovalutare le differenze di genere (con relativi Women’s Studies) e le altre differenze che sembrano evaporare nell’universale? Come evitare il corto circuito tra diritti della persona e diritti di ogni singola persona, libertà assoluta dell’individuo e libertà relativa al bene degli altri?

Come ogni parola, anche “persona” non sfugge al rischio di evocare e nascondere, esprimere e tradire la realtà cui fa riferimento. Eppure, a conti fatti, “a tutt’oggi non ne vediamo una migliore per sostenere le lotte giuridiche, politiche, sociali e culturali orientate ad una vita buona per tutti gli esseri umani” che si riconoscono tali e che per i cristiani sono persone qualunque stadio della vita, appunto perché ‘a immagine di Dio’ e mai “larve umane”.

Da 25 anni anche in Italia, dopo “Esprit” in Francia (da 85 anni) ci stiamo provando con la rivista “Prospettiva Persona” che ora raggiunge il n. 100, pur tra le difficoltà di chi non ha il sostegno e la protezione delle istituzioni accademiche, delle appartenenze politiche o dei poteri forti.

Non abbandoniamo il concetto di persona perché, concordando con Ricoeur, le altre parole risultano avere limiti peggiori: se si parla di “individuo”, si sottovaluta la comunità, se si parla di “coscienza” si incappa nella critica freudiana, se si usa la parola “soggetto” ci si espone alle critiche della scuola di Francoforte e della fenomenologia trascendentale, se si dice “Io” si cade in forme di solipsismo denunciate dalla filosofia dialogica di E. Lévinas, E. Mounier, M. Buber… Cosa possono offrire i concetti proposti come alternativi di “sororitàfraternità” che non sia già nel concetto di persona-in-relazione? ( salvo quel di più delle comunità francescane dell’origine)?   E del resto la fraternità non manca di pesanti evocazioni negative se si pensa ai fratricidi originari di diverse civiltà: Caino e Abele, Osiride e Seth, Giuseppe e i suoi fratelli, Romolo e Remo, Eteocle e Polinice. Porre all’origine «il fratricidio, l’assassinio di Abele – scriveva P. Ricoeur – fa della fratellanza stessa un progetto etico e non un semplice dato della natura». La parola “fratellanza”, del resto, non sfugge al rischio  ad intra o ad extra nelle lotte etnico-religiose, quando non incappa nelle logiche dei fratelli “muratori”. Non a caso Gesù non ci esorta ad amarci come fratelli, ma “come lui ci ama”.

In un periodo storico in cui i rapporti umani e le comunicazioni acquistano un’importanza mai avuta prima, “persona” appare come il vocabolo meno inadeguato, se non lo si usa in modo strumentale ( vedi ad es.Hugo Tristram Engelhardt Jr. che distingue “tra le persone in senso stretto, che sono entità autocoscienti, razionali, liberi di scegliere e in possesso di un senso morale, e la vita biologica umana, che comprende tra l’altro neonati, gravi malati di mente, soggetti in stato vegetativo permanente e feti.
Poiché non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e dotati di senso morale, non tutti gli esseri umani sono persone. Pur essendo membri della specie umana non hanno status in sé e per sé, nelle comunità morale” . Siamo alla selezione eugenetica e elitistica che ricorda i lager, dove la persona era diventata una cosa). Non bisogna usarlo neppure in modo ingenuo, ossia senza aver fatto i conti con gli “autori del sospetto” , Marx, Nietzsche, Freud, il femminismo, le teorie degli effetti perversi dell’azione.

Nella cultura postmoderna che tali correnti di pensiero hanno sviluppato, si ha sete di personalizzare i rapporti, al di là delle appartenenze e delle ideologie, per ritrovare se stessi e il senso del proprio agire. Dentro la comunità la persona nasce, cresce, si trasforma nel tempo a partire dalla famiglia nella quale la vita umana prende corpo e si sviluppa. La famiglia è l’avventura della relazione interpersonale tra le differenze ( come accettare “l’indifferenza della differenza” della cultura gender?), tra un uomo e una donna che intendono costruire rapporti “caldi” basati sull’affidamento reciproco. La famiglia basata sulla relazione d’amore tra un uomo e una donna diventa il luogo per eccellenza che realizza “il rispetto della vita, la sua difesa attiva e la sua promozione”. In questa relazione comunitaria si sviluppa il buon essere della persona, considerata sempre “come fine e mai come mezzo”, per cogliere quel comune destino tra gli uomini e le donne che ritiene “la propria vita e quella altrui come un bene non soltanto personale, ma anche sociale, e impegna la comunità a promuovere la vita e la salute di ciascuno, a promuovere il bene comune promuovendo il bene di ciascuno”. Le conseguenze si riversano a cascata su tutta la società.

Charlie Gard con questo fondamento di base: personae comunità poteva essere curato, almeno il tentativo si poteva fare.

La convinzione di fondo che ha sostenuto un “umanesimo comunitario di ispirazione cristiana” approfondito dalla CEI a “Firenze2015” e che amiamo chiamare anche “umanesimo familiare” o “umanesimo personalista cristiano” non solo non va messo in soffitta, ma rispolverato ed usato nelle future battaglie della bioetica. Se lamentiamo una società dai rapporti fragili e liquidi nei quali naufragano la speranza e il gusto di vivere, è perché in famiglia, nel gioco delle relazioni originarie e originali, non s’impara ad amare e ad elaborare il lutto di fallimenti –mai definitivi, come pensava J.P. Sartre –facendone occasione di di riformulazione e ottimizzazione.  

Lunga vita alla persona con l’impegno a continuare a costruire le comunità dell’umanesimo cristiano che per Paolo VI s’identificava con ‘la civiltà dell’amore’

Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese

Condirettori di “Prospettiva Persona”(mail@centropersonalista.it)