La giustizia e il tragico nell’Antigone di P. Ricoeur

 

Abstract relazione di Giulia Paola Di Nicola

P. Ricoeur, amante della cultura classica, ha ripetutamente fatto riferimento al  mito di Antigone, legato a una leggenda, un rito e  un luogo sacro vicino Tebe (Syrma Antigones) e al culto delle divinità materne e ctònie, distinte dalle divinità maschili. Il mito unisce il Mediterraneo e le sue diverse culture, come un archetipo che è memoria e insieme profezia, racconto simbolico che nasce da una creazione collettiva e viene rielaborato ad ogni Rinascimento della storia (XII-XVI-XIX, XX…).

L’intervento presenta due interpretazioni della tragedia, particolarmente significative in rapporto a quanto Ricoeur ha sviluppato circa il tragico e il male: quella di  Hegel nella Fenomenologia dello Spirito e quella di Simone Weil, con una particolare attenzione, tra i diversi mitemi, al rapporto tra femminilità e maschilità attraverso la insolubile contrapposizione tra Antigone e Creonte.

Ricoeur,  sullo sfondo di Aristotele e dell’etica  come vita buona, affronta la dialettica tra etica e diritto che non può trovare composizione nella teoria (la conciliazione hegeliana) ma esige un giudizio morale, che va sempre collocato sul registro della saggezza pratica, in situazione. Le pagine che egli dedica ad “Antigone” dimostrano l’attenzione rivolta alla questione del male e al conflitto tra etica, morale e diritto, quando lo scontro risulta non  componibile. E’ ciò che mette in scena la tragedia di Sofocle in cui   Antigone e Creonte,  fraternità e potere secondo Ricoeur (in questo non distante da Hegel) non vanno interpretati in modo alternativo, giacché entrambi i personaggi principali, in modo diseguale, hanno ragione e torto, nel senso che assumono una prospettiva ragionevole dal loro punto di vista, ma angusta e alla fine distorsiva.  Antigone e Creonte sono tremendamente soli di fronte alle loro scelte, ciascuno convinto di agire per il bene, secondo la loro idea di giustizia.

La distanza da Hegel è segnata dal fatto che nel filosofo di Tubinga la morale effettiva e concreta (Sittlichkeit) sostituisce la morale astratta e trova il suo centro di gravità nelle istituzioni, particolarmente nello Stato. Ma l’eticità hegeliana, la Sittlichkeit non può designare una terza istanza superiore all’etica e alla morale, ma uno dei luoghi in cui si esercita la saggezza pratica, ossia la gerarchia delle mediazioni istituzionali che la saggezza pratica deve attraversare perché la giustizia sia equità.

L’insegnamento che l’etica riceve dal tragico è il riconoscimento del limite. Significativo il richiamo del Coro a Creonte: “Fondamento primo della felicità è la ragione; poi non mancar di rispetto nelle cose che riguardano gli déi. I superbi discorsi degli arroganti, ripagati dai duri colpi della sorte, insegnano ad essere ragionevoli nella vecchiaia” (vv.1347-1353). Lo spettatore è sollecitato  più che ad argomentare didatticamente, a volgere lo sguardo, ad una conversione silente e inquietante che l’etica prolungherà nel discorso suo proprio. Si tratta di rinunciare alla pretesa di decifrare tutto, di avere uno sguardo onnicomprensivo sulla totalità e ciononostante accettare il rischio di “pensare più” nel confronto con la  sofferenza senza spiegazione.

Nella sventura sono raccolti tutti i perché degli uomini di sempre, rimasti senza risposta di fronte all’impossibilità di  pensare il male in una logica di  contrappasso: Antigone é innocente come Giobbe,  il Giusto sofferente della Bibbia, che pure pone il problema del male per il fatto che le sventure che lo colpiscono non  gli consentono di collegare la sua vita onesta ad una incomprensibile punizione. Giobbe è una contestazione della convinzione  che il male sia una conseguenza delle azioni malvagie e dunque una punizione degli dei. Giobbe. E’ figura di una sofferenza profondamente ingiusta,  presentata dall’autore della Bibbia come una vittima alla quale non si potrebbe dare una spiegazione se non offendendola. La sofferenza richiama inevitabilmente la tragedia centrale del cristianesimo, giacché l’essere umano, come Giobbe, come il Cristo, può solo gridare il suo “perché” e il suo prossimo può solo com-patire, raccogliendo quel grido e elaborandolo e rivivendolo nella propria esperienza.