L’oppressione delle donne nell’ebraismo antico: esplorando leggi e pratiche patriarcali

Pensando a Maria 6 Maggio 2023

Le figlie restavano in casa fino ai 12 anni, quando venivano affidate ciascuna al fidanzato. La fedeltà era d’obbligo e la fidanzata aveva gli stessi doveri della sposata. Lo sposo, sia pure in maniera non arbitraria, aveva il diritto di sciogliere il matrimonio con un atto di ripudio: «Se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso» (Dt 24, 1). L’espressione veniva interpretata variamente dalle scuole rabbiniche e andava dall’adulterio all’incontro con una donna più piacenteprestando il fianco ad abusi. In ogni caso la moglie veniva rimandata a casa sua (nell’ebraismo contemporaneo vale la reciproca). Se era infedele, veniva lapidata, secondo la legge, insieme al partner: «quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, giace con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città, e li lapiderete a morte» (Dt 22, 23-24). Nella prassi androcentrica, tuttavia, era soprattutto lei a subire simile trattamento.

La donna era esclusa dai diritti di cittadinanza, condizionati da variabili quali il censo, lo status e il sesso[1]. Doveva indossare il velo, era proprietà del marito, non aveva diritto all’eredità, non potevano rivolgere la parola a un uomo in pubblico, testimoniare nei processi, assumere la leadership, leggere la Torah al podio. Nelle sinagoghe sedeva nel retro, in disparte, e non pronunciava il breve sermone della settimana[2]. Una schiava non poteva essere liberata nell’anno sabbatico, come invece avveniva per uno schiavo. C’è da aggiungere che, in casi di necessità, una figlia poteva persino essere venduta come schiava dal padre per onorare un debito. I diritti di paternità passavano al figlio maschio, che ereditava lo status del suo casato, imparava un lavoro dal padre e a 13 anni era considerato già adulto. Questa situazione si riscontra ancora nel II secolo, prima della nascita di Yeshùa, come testimonia la letteratura non biblica del tempo.

In casi estremi, il padre aveva diritto di vita e di morte sulla figlia. È noto l’episodio di Jefte, la cui figlia viene sacrificata in olocausto: «Iefte fece voto al Signore e disse: «Se tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà dalla porta di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io l’offrirò in olocausto” […] Iefte tornò a a casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia. Era l’unica figlia […]. Egli compì su di lei il voto che aveva fatto» (Gdc 11, 30-31). Evidenti le evocazioni cristiche, che tuttavia, trattandosi di una ragazza immolata, non vengono evidenziate.

Nonostante le leggi restrittive, laddove l’unità tra moglie e marito era forte, le decisioni venivano prese di comune accordo anche riguardo ai figli, benché fosse sempre il padre pubblicamente a decidere a chi far sposare la figlia, ovvero a chi ‘darla’. Così si legge della figlia di Saul: «Mical, l’altra figlia di Saul, s’invaghì di Davide; ne riferirono a Saul e la cosa gli sembrò giusta. Saul diceva: ‘Gliela darò’» (1Sam18, 20-21). Nel Siracide si legge: «Una donna accetterà qualsiasi marito […] [l’uomo] si procura una sposa» (Sir36, 23­-24).

(pp.25)

[1] Ufficialmente si considera che la genetica sia nata nel 1900, quando E. von Tschermak in Austria, C. Correns in Germania e H. De Vries in Olanda riscoprirono le leggi di Mendel, suscitando scalpore lungo tutto il XX secolo (cf E. Agazzi (a cura di), Storia delle scienze, voll. 3, Città Nuova, Roma 1984, vol. II, 176-181). Alla fine dell’Ottocento si sosteneva ancora la naturale inferiorità della donna sul piano biologico. Il biologo scozzese P. Geddes nel 1889 ne vedeva la prova nelle cellule femminili «più passive, moderate, apatiche e stabili» rispetto a quelle maschili «più attive, energiche, impazienti, passionali e variabili» (cf. M. Balduzzi, Storia della differenza biologica, in “L’Osservatore Romano”, 1.IX.2016). Il Filosofo austriaco Otto Weininger scrisse Sesso e carattere, sostenendo teorie misogine e antiebraiche (O. Weininger, Sesso e caratteretr.it Ed. Mediterranee, Milano 1992; cf J. Le Rider, Modernité viennoise et crises de l’identité, PUF, Paris, 1990 ; ID, Le cas Otto Weininger, racines de l’antifemminisme et de l’antisémitisme, PUF, Paris, 1982. Sulla misoginia si veda A. Milano, Misognia, Dehoniane, Roma 1992). Ancora ad inizio Novecento, il neurologo tedesco P. Julius pubblicava (1900) un bestseller, ristampato nove volte, sulla inferiorità mentale della donna, in parallelo con l’ascesa del nazismo (cf P. Julius, L’inferiorità mentale della donna, Einaudi, Torino 1998).

[2] In Germania la prima donna ordinata rabbino risale al 1935: Regina Jonas, morta ad Auschwitz nel 1944.