Intervista a Giulia Paola Di Nicola – Attilio Danese
A cura di Simone Gambacorta
Il libro s’intitola Silone, percorsi di una coscienza inquieta: la coscienza e l’inquietudine, quindi, quali pilastri della struttura etico-intellettuale di Silone?
Sì, il libro si pone dalla parte di quei lettori per i quali gli scritti di Silone non possono che riflettere l’anima di un uomo maturato dal dolore. Abbiamo voluto scavare dentro la dimensione intima, ricollegando l’impegno politico e la vena artistica di Silone all’itinerario di una coscienza tormentata e di un uomo “allo sbaraglio”, nel bel mezzo di scenari politici e culturali particolarmente complessi.
Abbiamo tenuto presente la documentazione biobibliografica esistente nonché le riflessioni e le aspirazioni ricostruite attraverso i personaggi letterari, che sono l’elaborazione fantastica e meditata di ciò che egli stesso, nella libertà di una pace ritrovata con se stesso, ha voluto comunicare ai lettori. Abbiamo voluto solo ripercorrere alcune tappe significative della sua vita, inquieta e inquietante. Abbiamo scelto l’inquietudine come la categoria siloniana per eccellenza che, stando a cavallo tra la passione e la follia, sollecita alla ricerca della verità. Nel Confiteor egli ha detto di voler scrivere “a donne, a uomini inquieti, disposti anch’essi a riflettere”. Il fatto che tanti uomini e donne l’abbiano letto e continuino a dare credito alla sua prosa e alla sua persona è un documento da inserire anch’esso nella tradizione che invera la storia.
Il saggio è pregno di riscontri e riferimenti testuali. Quanto tempo avete dedicato allo scavo nelle e delle opere siloniane?
Vi abbiamo dedicato 6 anni, sia pure a singhiozzo. Il libro comunque era pronto nel 2003. Poi l’editore ci ha chiesto che il testo non contenesse la parte riguardante la polemica innescata da Biocca e Canali, due autori che hanno accusato Silone di doppiogiochismo. In effetti senza quella parte, più tecnica, il libro si presenta più agile e interessante per i lettori. Abbiamo dunque estrapolato la ricostruzione e interpretazione della polemica di questi anni pubblicandola su “Il Margine”, una rivista culturale di Trento, e presentato il libro alla Fondazione, che lo ha accolto con entusiasmo. Purtroppo la morte di D. Susi, presidente della Fondazione Ignazio Silone, ha ritardato la pubblicazione, apparsa finalmente nel 2006 e presentata a L’Aquila a Marzo, dall’attuale nuovo presidente Aldo Forbice, il quale ha anche stilato una corposa prefazione.
Com’è nato il libro? Da un’idea precisa, poi avvalorata grazie a una apposita ricerca? Oppure, al contrario, è nato da solo, in qualche modo reclamando un’esistenza?
Scrivere è attualmente la nostra principale attività, che si tratti di articoli, libri o conferenze. La pubblicazione italiana dello scritto su Silone è avvenuta ad opera della Fondazione Iganzio Silone de L’Aquila, grazie all’apprezzamento nei confronti del nostro testo, manifestato dall’Onorevole Domenico Susi, la cui scomparsa purtroppo ha poi notevolmente rallentato la pubblicazione del libro, che così è stato edito prima in lingua portoghese, a Rio de Janeiro. Quelle della pubblicazione sono le vicende ultime di un lavoro che dura da anni. A monte c’è la passione per le opere e per lo scrittore, che è abruzzese sì, ma anche universale. L’interesse per Silone data alla nostra adolescenza, ma è rispuntato potente, una decina di anni fa, quando alcuni amici di fuori regione ed anche di altri paesi all’estero, ce ne hanno confermato il fascino e la grandezza. Sappiamo che in tanti hanno già scritto su Silone, ma noi volevamo prendere per mano il lettore e condurlo ad amare il personaggio, a condividere con lui quella sottile pena da cui nascono pagine bellissime, scarne e ricche di sapienza. Anche se come uomo talvolta Silone appariva chiuso e burbero, come scrittore si può dire di lui quello che egli stesso scrive della nonna: “aveva imparato l’arte di ingoiare amaro e sputare dolce”.
Qual è stato il principale ostacolo da superare, nel corso dei lavori?
Non è stato facile selezionare la parte da pubblicare tra la mole di materiale che avevamo accumulato, con tanti quadretti che ci apparivano deliziosi, ma che abbiamo dovuto far cadere per poter mantenere una sana economia d’insieme. Dovevamo selezionare in base al taglio da dare al libro, al “La” da seguire. Infine, abbiamo deciso di accompagnare il lettore tra le diverse fasi della sua esistenza, in parallelo con i riferimenti letterari che si trovano nei suoi libri. Aveva ragione Geno Pampaloni, quando diceva che i suoi scritti sono “materia autobiografica” e non possono essere dissociati da ciò che ha vissuto Secondino Tranquilli degli anni Venti. Silone stesso ha indicato i suoi scritti come la fonte più veritiera per conoscerlo («La difficoltà che Spina incontra in Pane e vino per comunicare con gli altri uomini – scrive – riflette in buona parte il mio stato d’animo»). Ma ha ragione anche Darina a rifiutare l’uso delle storie da lui narrate come fossero documenti d’accusa: «I libri non provano niente. Silone aveva certo riflettuto, fra l’altro, al terribile problema dei delatori… Ma ha creato dei personaggi di prete e di nonna senza essere mai stato prete o nonna. E non voglio, non oso paragonarlo ai grandi russi, ma insomma anche Silone era un romanziere. Dostojevskij non aveva bisogno di essere un assassino per scrivere Delitto e castigo, e Tolstoj non aveva bisogno di partorire per descrivere le doglie di Kitty in Anna Karenina».
Un’altra difficoltà è stata quella di doversi confrontare con le polemiche di questi anni su Silone collaboratore dell’OVRA. Noi abbiamo scelto di lasciare da parte questo argomento, che del resto abbiamo approfondito in un numero unico de “Il Margine” di Trento, con il titolo: “Ignazio Silone: spia o spiato?” n. 5 (2004), per non perdere di vista l’obiettivo principale: ricostruire il percorso di un’anima tormentata e a suo modo “pura”.
Infine non abbiamo sottovalutato la difficoltà di confrontarsi con un mondo di autori siloniani, già molto ricco di studiosi di diverse appartenenze. Abbiamo tentuo conto di tutti, ma abbiamo soprattutto mirato al cuore dei lettori e ci pare di esserci riusciti.
Quanto ancora può dare e dire, la lezione siloniana?
Silone ha scritto: «Vorrei sfuggire al destino del professionalismo… Vorrei sfuggire alla propaganda e all’agitazione, cose utili, ma c’è tanta gente che le sa fare meglio di me. Vorrei dire due o tre cose, prima di morire, che nessun altro può dire e che il destino mi ha incaricato di dire. Due o tre cose che ogni operaio e ogni contadino e ogni comunista e ogni fascista debba pensarci su, che ogni uomo debba pensarci su».
Quali sono le due o tre cose che Silone continua a dire a quanti si accostano a lui?
Molto dipende dalla percezione selettiva di ciascun lettore. Nel libro abbiamo provato ad sviluppare tre piste principali, che qui riassumiamo brevemente:
· La legittimità della trasgressione, sociale e politica, sentita come scelta preferenziale del proprio modo di comunicare
· La laicità come dimensione essenziale ad una società aperta e ad una religione che non voglia ridursi ad “oppio dei popoli”
· La convinzione che per il mondo contemporaneo un genuino spirito religioso sia una indispensabile alternativa al nichilismo della cultura postmoderna.
Ritenete sia corretto, a proposito di Silone, parlare di una semplice complessità? Mi spiego: i valori alla base del credo siloniano, in fondo, sono quelli di un uomo che sente la vita, e che poi su di essi sviluppa un pensiero e un percorso letterario. Col valore aggiunto, però, di una complessità di valenza universale.
Sì, si può dire così, ma ciò che ci pare importante è evidenziare la fecondità del travaglio interiore che egli subì, rinascendo come uomo maturo e – come è stato definito – “granitico”, dopo le tante “morti” della sua vita: quella del padre, della madre, dei suoi familiari e amici scomparsi col terremoto, del suo paese, della Chiesa, del partito comunista, del fratello Romolo… E’ forse proprio da tanto dolore che nasce la giusta rivendicazione del diritto della persona a seguire la coscienza, a rispettare la sua anima. Ha scritto: «Data la natura della minaccia alla quale dobbiamo far fronte, la nostra parola d’ordine dev’essere la più universale, la più semplice, e nello stesso tempo la più radicale; la rivendicazione del carattere sacro e inalienabile dell’anima umana. Habeas animam: che ogni creatura, chiunque sia abbia diritto alla propria anima». E’ opportuno il commento di Alfred Kazin: «Silone tranquillamente, fantasticamente, artisticamente, sta dicendo in quelle ultime pagine che l’Europa, il continente spezzato, ha un’anima»[1].
Voi avete studiato approfonditamente anche le figure di Simone Weil e Paul Ricoeur: quali nessi esistono tra queste figure e quella di Silone?
Come lei ha bene intuito, vi è una coerenza che lega l’interesse che perseguiamo da anni, di approfondire e presentare autori che potremmo definire, con una pargoletta, “tra”, ossia “ponte”, che non si possono dire appartenenti a nessuno schieramento, a nessuna Chiesa, a nessun partito. Chi più di Silone?
Non si è definito egli forse proprio “ Un socialista senza partito e un cristiano senza Chiesa”?
Prima di Silone, abbiamo approfondito autori come E. Mounier, S. Weil, P. Ricoeur, autori che manifestano una loro genialità in quanto autentici apripista della cultura della loro epoca. Scrivendo su Silone abbiamo voluto dare voce ad un autore abruzzese ed europeo, amico di T. Mann e dei più importanti intellettuali del suo tempo, eppure spesso dimenticato dalla cultura della nostra regione, che gli preferisce D’Annunzio, e da quella italiana, che non sembra volergli dare – per diverse ragioni che non vogliamo approfondire – il riconoscimento meritato. Con questo libro vorremmo confermare il debito che tante persone della nostra generazione hanno verso Silone e anche trasmettere il meglio della nostra tradizione alle nuove generazioni – che troppo spesso a scuola nemmeno sentono parlare di questo autore – perché amino Silone e i suoi libri e ne traggano spunti di riflessione e di maturità. Siamo convinti che Silone abbia molto da dire ai giovani, con la sua rivendicazione dei diritti dell’anima (“habeas animam”). contrastando così una cultura che li spinge verso il consumismo, l’individualismo e il nichilismo dei valori.
[1] Rip. LDE94, 160.