Salotto culturale 2007: 11 e 13 marzo

Con il patrocinio della Fondazione Tercas

della città di Teramo e della Provincia di Teramo 

Comunicato Stampa   

Questa settimana il Salotto culturale 2007 giunge al termine concludendo la sessione invernale con due appuntamenti utili per gli studenti di Scienze politiche che possono conseguire 0,25 CFU per ciascun incontro: 

Martedì 11 marzo ore 18

Amore e Letteratura: L’eros benefico nella letteratura del Novecento

 A cura di Elisabetta  Di Biagio e Benedetto Di Curzio 

Giovedì 13 marzo ore 18

Simboli e profeti. Rileggiamo la Bibbia: l’incredibile vicenda del profeta Giona

 

A cura di Luciano Verdone  

Sempre Presso la Sala di Lettura “Prospettiva Persona” Via N. Palma, 33- in TERAMO

Approfondimenti: 

 

L'Agape salva l'Eros, Dal libro “Oltre l'erba voglio” di Armido Rizzi  (Cittadella editrice, Assisi 2003) dal capitolo l'agape salva l'eros (pp. 209- 212)  
“L'Agape salva l'Eros,
anzitutto perché lo libera da quella infinitizzazione forzata che, ispirata al platonismo, vuole spingere l'eros verso Dio al di là di ogni – troppo piccola – creatura.
Secondo Platone si comincia dall'eros verso il bel giovinetto, verso il bel corpo, e poi si sale progressivamente verso la bellezza divina. L'eros stesso va alla bellezza divina.
Come scriveva nel carcere nazista il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: «Per dirla franca, che un uomo tra le braccia di sua moglie debba bramare l'al di là è, a essere indulgenti, mancanza di gusto, e comunque non la volontà di Dio…».
Devo davvero vivere l'eros, standovi dentro (non devo bramare l'al di là dentro l'eros), ma devo viverlo secondo il volere di Dio. Piuttosto che pensare a Dio mentre facciamo l'amore, sarebbe meglio ringraziarlo prima e dopo! L'agape non salva l'eros, spingendolo fin dove non può arrivare, fino alla contemplazione di Dio, creando un conflitto con l'eros per la creatura.
L'infinito è nell'agape stessa, nella trascendenza, religiosa o laica, che essa instaura; mentre l'eros non può trascendere quella sua identità autonutritiva che in ogni creatura succhia il nettare mondano, e che nel partner cerca il piacere di vivere. […] L'Agape salva e custodisce l'Eros nella prosa del quotidiano, difendendolo o riscattandolo da quelle patologie o degradi o smottamenti, a cui, soprattutto nella relazione di coppia, il suo onnivoro infantilismo lo sollecita e lo abbandona. Si potrebbe dire: lo salva dal logorio della presenza. Che è l'assuefazione, la rapida obsolescenza della gioia del rapporto; che è l'emergere dei difetti del partner, prima coperti dall'abbaglio della passione; che è il divaricarsi di gusti e di progetti; che è l'insorgere risentito di “diritti” personali che il partner lederebbe. L'Agape, in quanto fedeltà, è la vittoria sul tempo e sulla sua capacità corrosiva; in quanto creatività nell'opera comune, ridimensiona l'intransigenza dei progetti individuali; in quanto disponibilità al perdono, non enfatizza né le proprie rivendicazioni né i difetti del partner. Se l'Eros inizia come geografia (il “bel corpo”), non può che mantenersi e svilupparsi come storia (la “bella persona”); ma il segreto di questa storia è nell'amore etico, nella sua capacità di fiducia, di attesa, di ascolto, di accoglienza di quello straniero che anche il partner in qualche misura sempre rimane.
Ciò che vale del rapporto di coppia vale, altrettanto, del rapporto verticale tra genitori e figli. La perspicacia psicologica che ha caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento, ha individuato due forme di amore parentale in cui si mimetizza un eros non maturato attraverso la responsabilità etica. Da un lato, l'affetto che crea dipendenza, lungo la gamma delle sue variegate figure: dal legame erotico – sensu strictu – tra madre e figlio alla proiezione intransigente e subdola dei propri ideali assoluti (secondo lo standard: politici da parte del padre, religiosi da parte della madre), fino ai casi estremi di una malattia del figlio/figlia coltivata dal genitore perché lo fa sentire necessario, gli dà una ragione di vita. Dall'altro lato, l'affetto che lascia spazi di libertà incontrollata, che cede ad ogni richiesta tentando anzi di anticiparla, che rifugge da parole d'autorità o d'autorevolezza, surrogandole con gesti di corriva amicizia alla pari. L'apparente antitesi tra le due forme non riesce a nascondere la loro comune matrice di immaturità del desiderio parentale.
Dovrebbe essere superfluo aggiungere che l'ampio deficit di autenticità di cui soffre la famiglia attuale non giustifica né il rimpianto acritico della famiglia di altri tempi né la destrutturazione dell'istituzione familiare nell'aggressiva critica anni '60 o nel variopinto ventaglio delle invenzioni alternative odierne. Se il rigore della dottrina cattolica classica e la rigidità nel riproporla da parte dei vertici ecclesiastici trovano ampi margini di riserva all'interno della stessa comunità cattolica (basti pensare all'esercizio della paternità/maternità responsabile mediante l'uso di anticoncezionali, all'ammissione del divorzio nella legislazione civile e alla pastorale per i credenti divorziati, alla presenza dei consultori cattolici per l'interruzione di gravidanza in Germania, all'emergere del problema di omosessuali seriamente credenti e praticanti…), tali riserve non vanno interpretate come una resa alla concezione e alla pratica liberistica della famiglia, bensì come la percezione della necessità di coniugare ad ambedue i livelli (etico e giuridico), l'utopia e la misericordia, l'altezza dell'amore etico familiare e le sconfitte di chi vi si avventura anche con matura consapevolezza.
La ricchezza di senso della famiglia sta nel suo essere il cosmo sociale in miniatura, il punto di connessione tra il biologico, l'affettivo e l'etico, la figura originaria della vita quotidiana come spazio esistenziale; spazio aperto, non fortunata sintonia e convergenza e clausura di egocentrismi, ma grembo di reciproca ospitalità.
Nel divieto dell'incesto, presente in tutte le culture, c'è almeno il presentimento di questa legge di apertura. L'eros, potenza biologico-affettiva, rinchiuderebbe coppia e figli nel caldo ventre dell'endogamia: madre con figlio, padre con figlia, fratello con sorella; il divieto dell'incesto è soltanto la formulazione negativa di quel positivo che è la reciprocità responsabile: “L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno in una sola carne” (Genesi 2,24). Un positivo che l'eros non possiede, perché anche il suo eventuale andare oltre non è – non può essere – accoglienza dell'alterità, ma solo e sempre ritrovamento di sé nell'altro. L'amore incestuoso di Fedra per il figlio Ippolito e l'amore oltreconfine di Giulietta e Romeo sono estremi che si toccano, perché ambedue segnati dall'ananke, dalla passione necessaria e travolgente. L'esogamia qualitativa è appannaggio dell'amore etico. 

 

 

 

13 marzo

 L’incredibile vicenda del profeta recalcitrante  Giona

http://www.novena.it/ravasi/2003/042003.htm

 

Il re Geroboamo ristabilì i confini di « Israele… secondo la parola del Signore Dio di Israele, pronunziata per mezzo del suo servo il profeta Giona, figlio di Amittai, di Gat-hefer». Così si legge nel secondo Libro dei Re (14,25). Siamo nell’VIII secolo a.C., a Samaria, capitale del regno settentrionale di Israele, governa Geroboamo I! in un’epoca di floridezza ma anche di ingiustizia sociale; alta e polemica si leva la voce del profeta Amos.
In quelle righe da noi citate fa capolino un altro profeta, Giona che, in italiano, potremmo tradurre col nostro “Colombo”.

Ma per tutti noi Giona è rimasto stampato nella memoria — e la storia dell’arte al riguardo si è sfogata con mille raffigurazioni, a partire dalle catacombe di San Callisto a Roma (II secolo) — con quell’immenso cetaceo da cui sarebbe stato inghiottito. In realtà il delizioso libretto che è a noi giunto col suo nome è una sorta di tarda parabola posteriore. Essa ha messo come protagonista l’antico profeta di Israele e l’ha rappresentato con un tocco sapido di ironia: è un uomo lamentoso, pauroso, preoccupato di sé e soprattutto renitente alla chiamata divina.

Giona, infatti, è da Dio inviato a predicare a Ninive, la grande capitale orientale assira, e, invece, egli s’imbarca per Tarsis, che è un lontano centro occidentale (forse Gibilterra o la nostra Sardegna). Il mare tempestoso e il mostro marino che lo inghiottisce sono simboli di morte, di prova ma anche, alla fine, di liberazione. Una volta purificato, il profeta si rassegna a recarsi a Ninive e il brano che la liturgia ci propone in questa domenica è la descrizione del successo della sua missione: «I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Dio vide le 1oro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì…» (3,5.10).

Ma la storia non è finita. Questo petulante profeta ha ancora di che lamentarsi. Sta quieto sotto un frondoso albero di ricino e in cuore si macina di acredine perché egli si aspettava che i Niniviti, tradizionali nemici di Israele, non si convertissero, così da far scatenare la collera e la giustizia divina in luogo del perdono. Ed ecco che un verme si attacca alle radici di quell’albero ombroso e lo fa inaridire. Le foglie avvizziscono e il sole incandescente batte sul capo di Giona. Per di più si solleva l’ardente vento del deserto.

Facile è immaginare la protesta di quest’uomo che ce l’ha con tutti e con Dio. Ma la voce divina risuona forte e chiara e svela la lezione ultima di questa parabola. È un attacco contro ogni forma di grettezza, chiusura, integralismo e razzismo e una celebrazione della volontà divina di salvare ogni sua creatura: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino…, e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di 120.000 persone…, e una grande quantità di animali?» (4,10-11).