La Bonifica del Fucino al Salotto di Lunedì 4 aprile 2011

Comunicato stampa

Lunedì 04/04/2011 alle ore 17,45 presso la Sala di Lettura di VIa Nicola Palama 33 in Teramo, il Salotto culturale 2011 ricorderà l’epica impresa del prosciugamento del Fucino con immagini e video dell’epoca. Relatore sarà il dott. Giorgio Pagliuca

La cittadinanza è invitga a partecipare

approfondimento

Il Fùcino è un altopiano della Marsica, in Provincia dell’Aquila, situato tra i 650 e i 680 m s.l.m., endoreico, cioè contornato da rilievi montuosi, quali la Vallelonga e il gruppo Sirente-Velino.

La piana, a prevalente destinazione agricola, ospita il Centro Spaziale del Fucino “Piero Fanti”, il teleporto fondato nel 1963 dalla Telespazio Spa.

L’altopiano prende il nome dal preesistente lago carsico del Fucino, terzo d’Italia per estensione, che, a causa dell’irregolare livello delle acque, fu oggetto di numerosi tentativi di regimazione fin dall’epoca romana.

Il lago si chiamava, secondo il poeta greco Licofrone, lago Forco; per altri autori antichi era il lago dei Volsci, in memoria della sconfitta inflita dai Romani a tremila Volsci presso le rive del lago; fino al secolo scorso si conosceva anche col nome di lago di Celano. Con probabilità il nome Fucino era dovuto alla presenza di un’alga di colore rosso che in determinati periodi dell’anno faceva assumere al lago una colorazione simile a una fucina. Ma si dice comunemente che il nome derivi dalla bellezza delle acque limpide, o dalla bellezza della conca che lo racchiude: la regione era infatti località di villeggiatura per gli antichi romani.


La piana del Fucino dall’Autostrada A-25

Attualmente lungo il perimetro del Fucino sorgono numerosi paesi quali: Trasacco, Luco dei Marsi, Avezzano, Celano, Aielli, Cerchio, Pescina, San Benedetto dei Marsi, Gioia dei Marsi e Ortucchio.

Restaurazioni successive

Non tanto l’inadeguatezza tecnica (altri emissari erano stati costruiti dal genio romano) quindi, quanto proprio il tipo di roccia scavata portò ben presto e ripetutamente il canale a colmarsi, così da rendere troppo dispendiosa la manutenzione che, sul far del tramonto dell’Impero, venne del tutto abbandonata. Infatti dopo Traiano e Adriano pochi altri tentarono un approccio, come Federico II del Sacro Romano Impero e Alfonso I d’Aragona, dei quali però non conosciamo l’esito dell’impresa, sebbene sia ipotizzabile: Filippo I Colonna per esempio abbandonò per mancanza di denaro.


Un aspetto della campagna presso Ortucchio

Carlo III caldeggiò una riapertura del canale. Ferdinando I organizzò uno studio sul territorio e dal 1790 fece incominciare i lavori, che terminarono dopo due anni. Lo stesso re sostenne confronti e dispute tra vari architetti e ingegneri, fino a che, nel 1826 non iniziò un decennale intervento ad opera dei signori Giura (ispettore di acque e strade) e Afan de Rivera (commendatore). Tali lavori, condotti esclusivamente da galeotti, risultarono del tutto penosi, essendo costellati di frane, smottamenti e continue infiltrazioni di acqua. Nel 1835 fu compiuta la restaurazione, ma non terminarono le discussioni, dato che nei 20 anni successivi vi furono continui crolli.

[modifica] La bonifica di Torlonia

 
« O Torlonia asciuga il Fucino, o il Fucino asciuga Torlonia »

 

(Alessandro Torlonia)

Il 26 aprile 1852, con Regio Decreto borbonico, fu accordata la concessione dello spurgo e delle restaurazione del canale claudiano a una SA napoletana nel tentativo di un prosciugamento del Fucino. Il compenso era naturalmente in parte costituito dalle stesse terre bonificate.

Non si intendevano comprese in tale concessione “le mura e i ruderi di antiche città, gli anfiteatri, i tempii, le statue, e generalmente gli oggetti di antichità e belle arti di qualunque sorta”, che sarebbero state offerte alle “solerti cure dell’Instituto de’ Regii Scavi” e all’insigne Real Museo Borbonico[3].

Poiché nella Società figurava il banchiere romano Alessandro Torlonia (col suo ingegnere svizzero, e l’agente francese Léon de Rotrou), il re Ferdinando II fu accusato di aver concesso il prosciugamento ad “alcuni stranieri per rimeritare segreti e sinistri servigi alla propria causa“[4]. La Compagnia era invece composta anche dal principe di Camporeale, dal marchese Cicerale, amministratori delegati della Società di cui Torlonia era fondatore assieme ai signori Degas padre e figlio, banchieri di Napoli.

Abbisognando la Società di nuovi fondi, e poiché tutti si tirarono indietro, Torlonia ne acquistò le azioni diventando unico proprietario. Successivamente però, nel 1863, dovette chiudere la sua banca.

I lavori per il prosciugamento iniziarono nel 1855 sotto la direzione dell’ingegnere svizzero Franz Mayor de Montricher, morto nel 1858 e furono continuati dall’ingegner Enrico Bermont, al quale nel 1869 successe l’ingegner Alessandro Brisse, che li portò a termine nel 1876 anche se la fine ufficiale fu decretata il 1 ottobre 1878.

L’emissario di Claudio era lungo 5,630 km e, considerando i canali collaterali, l’opera raggiungeva i 7 km. L’attuale lavoro, che tra l’altro prevedeva anche il prosciugamento e la bonifica del territorio, contava una fitta rete di canali per una lunghezza complessiva di 285 chilometri (e, in più, 238 ponti, 3 ponti canali e 4 chiuse). Il canale claudiano attraversava il piano dei Campi Palentini a una profondità che variava dagli 85 ai 120 m (alla sommità del monte Salviano si misuravano 400 m circa). L’apertura variava dai 4,11 ai 14,80 m2, con alzata di 7,14 m. Il canale torlonio segue la direzione dell’antico, con sezione costante di 19,99 m2, ma solaio da 2,39 all’ingresso a 0,79 m all’uscita, per un flusso ordinario all’uscita di 28 metri cubi, che può salire fino a 67 m3.

La piana così prosciugata doveva essere quindi resa lavorabile e abitabile, e per tal motivo occorreva costruire case, fattorie e strade. Una strada di 52 km ora circonda il bacino (ex-proprietà Torlonia) e 46 strade rettilinee, parallele e perpendicolari, per un totale di 272 km. Oltre ai 24 milioni di lire spesi per il solo prosciugamento, quindi, ne vennero impiegati altri 19.

L’impegno profuso, le risorse economiche e i 4.000 operai al giorno utilizzati per 24 anni, spinsero il nuovo re Vittorio Emanuele a conferire a Torlonia il titolo di principe e una medaglia d’oro, e all’ingegner Alessandro Brisse l’onore di un monumento al cimitero del Verano di Roma.