Verso Verona 2006, La speranza alla prova del tempo, a cura direzione rivista

Martedi 27 Giugno 2006
 AGENSIR- CRISI FAMILIARI: DI NICOLA E DANESE (SOCIOLOGI) A SEMINARIO CEI, “FAMIGLIE FRAGILI PERCHE’ INSEGUONO SOGNI FRAGILI”
“Il senso della caduta della speranza deriva per la famiglia dal fatto che non sa vivere bene i tempi della vita. Succede che corriamo sempre, non abbiamo tempo, e ciò non testimonia di una vita equilibrata che spera nel futuro”: lo hanno detto oggi a Paestum, dove si sta svolgendo la Settimana di formazione promossa dall’Ufficio nazionale CEI di pastorale familiare sul tema del “disagio e crisi di coppia”, i coniugi sociologi Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese. “La speranza viene messa da parte in famiglia – hanno aggiunto – perchè non si vuole avere il tempo che arrivi ma si vuole tutto e subito, e quindi non c’è bisogno della speranza. Anzi si va a riporre la speranza in un sogno alternativo o in falsi idoli”. Invece, “per le famiglie oggi occorre una nuova e profonda capacità di discernimento. Saper discernere coniuga la speranza e il tempo. Il compito forse più difficile è educare le giovani generazioni a gestire il tempo con un sano equilibrio, senza la fretta, magari insegnando anche a portare qualche croce, se ci fosse”. Secondo i due sociologi “la fragilità della famiglia oggi si può leggere anche col fatto che si vanno a inseguire sogni fragili, in sostituzione della vita reale. Ecco la rincorsa del gioco, della carriera, della casa, idoli che poi deludono e fanno cadere la speranza di futuro nelle famiglie”.

Il seguente intervento, fatto  lo scorso 27 giugno 2006 al Convegno nazionale della CEI di Pestum, viene offerto come riflessione per l’ambito delll’affettività in preparazione al Convegno di Verona 2006

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La speranza alla prova del tempo vissuto dalle coppie e dalle famiglie
Giulia Paola e Attilio Danese

Premessa

Generalmente la speranza si associa a persone fiduciose negli avvenimenti, futuri o già accaduti, di cui non conoscono i contorni precisi e le possibilità di riuscita, ma nei cui confronti sono ottimiste. Si pensa alla speranza come a uno stato d’animo, un’attitudine psicologica di attesa fiduciosa nel compimento di un evento, nel raggiungimento di uno scopo prefissato. Chi spera guarda il mondo valorizzando “il lato positivo delle cose” ed assumendo la buona fede nelle persone, ha una forza in più per vivere pienamente, per continuare a costruire ciò che forse domani riuscirà ad ottenere. E’ questa la speranza cristiana, o siamo solo alla contropartita del pessimismo, ossia del bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto? Si può eccedere nell’ottimismo fino a risultare ingenui (ma il tempo pensa a decantare questi atteggiamenti näif) e si può eccedere nel pessimismo fino ad abbandonarsi alla depressione e a dipendenze nocive (da gioco, da alcool, da fumo, da droghe, da pornografia), sprecando il tempo e bruciando la propria vita.
Vorremmo soffermarci su due aspetti: evitare cattivi investimenti di speranza  e quale legame tra speranza e tempo per le famiglie
1. Evitare investimenti fallimentari
Sperare è indispensabile per vivere. Ciascuna  persona al mondo assume atteggiamento di economia comportamentale e psichica imparando con l’esperienza ad investire su obiettivi realizzabili, non fallimentari, alla sua portata. Sin da piccolo, magari sbattendo la testa,  impara a calcolare le proprie forze e valutare le mete da perseguire, lanciandosi in imprese che ritiene possano avere successo e abbandonando quelle che non interesano o che hanno una probabilità troppo alta di non riuscita.
Resta il problema: in che cosa riporre la speranza? Nel secolo scorso la speranza era affidata soprattutto alla scienza e alla tecnologia, che si pensava avrebbero risolto tutti i problemi e reso felici le famiglie: un ottimismo contraddetto dalla realtà. Non sarebbe corretta una lamentazione che non tenesse conto degli obiettivi importantissimi raggiunti per far fronte al freddo, all’indigenza, alle distanze, alla paura del tempo delle società contadine, ma resta vero che l’eccesso di investimenti sul progresso è sconfessato dai problemi vecchi e nuovi sul tappeto: rigurgiti razzisti, fragilità della famiglia e moltiplicazione di legami alternativi, emergenza ecologica, spinte corporative e consumistiche, diffusione di nuove malattie su scala planetaria, crisi dell’ambiente, debito dei paesi poveri, guerre e conflitti religiosi, nuove povertà, burocratizzazione (eurocrati), acutizzarsi del gap Nord-Sud, spinte migratorie, problemi del nucleare. Basta un disastro procurato dalla tecnologia, come a Cernobyl, e subentrano catastrofi incalcolabili
A livello familiare, troppo spesso le speranze di due sposi s’infrangono con una realtà dura. Basta un incidente e lo sposo aitante può restare handicappato per tutta la vita; un crack finanziario, uno scandalo (vero o presunto), la perdita del lavoro, una malattia, un figlio che si droga, e l’infelicità s’impossessa delle anime. Quando prevale il pessimismo, si ha un effetto mortifero sul clima relazionale della famiglia e soprattutto sui membri più fragili, indotti alla depressione, alla morte psichica, a volte al suicidio. In condizioni disperate, la speranza cede il passo al nichilismo.
Pochi hanno dalla sorte la possibilità di realizzare i sogni giovanili; per i più  le delusioni crescono con gli anni: c’è chi si deprime e assume un atteggiamento rinunciatario e chi preferisce farsi cullare tutta la vita da piacevoli illusioni, come il protagonista della poesia di Antonio De Curtis, che gioca la schedina una vita intera, pur sapendo che non vincerà. Gioca solo perché ha bisogno di illusioni per vivere  (“Io campo bbuono tutta na semmana… Nun piglio niente, ’o ssaccio… e che mme ’mporta?io campo solamente cu ’a speranza… ’A quanno aggio truvato stu sistema io songo milionario tutto ll’anno… Si avesse già pigliato ’e meliune a st’ora ’e mo starrie già disperatoInvece io sto cu ’a capa dinto ’a luna,tengo sempe ’a speranza d’ ’e ppiglià”).
Il protagonista sa di avere ‘a capa dinto ‘a luna”, ma tanto gli basta per poter vivere positivamente. Sperare di vincere gli serve a rendergli sopportabili i giorni, come accade a tanti padri di famiglia dipendenti dal gioco: “La speranza, per ingannevole che sia, serve almeno a condurci alla morte per una strada piacevole”.

  La speranza mal riposta uccide perché è nemica della speranza vera, come mostrano i tanti Aforismi:O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età!”; “Fa più vittime la speranza che l’astuzia”; “La speranza non è che un ciarlatano che c’inganna senza posa”; “La speranza è la più grande falsificatrice della verità” (Graci?n, Baltasar). Si può concludere forse che conviene uccidere la speranza? “La speranza è la vera responsabile delle frustrazioni. Va soffocata sul nascere”; “La speranza: essa è in verità il peggiore dei mali, perché prolunga le sofferenze degli uomini”.
Eppure la speranza ci è necessaria, perché il tempo è radicato dentro le strutture fondamentali del nostro essere e quasi s’identifica con noi. Non si tratta solo di una dimensione in cui iscrivere le azioni e il vissuto, ma della nostra stessa coscienza.   Non possiamo pensarci scissi dalla temporalità (Zeitlicheit), come ha dimostrato Heidegger in Sein und Zeit (Essere e tempo). Siamo così interiormente invischiati nel tempo da non essere in grado di osservarlo come qualcosa di esterno a noi. Di conseguenza, i mutamenti della percezione del tempo, che si tratti di una persona, di una famiglia o di una società,  insidiano e trasformano le nostre categorie mentali e il nostro modo di stare al mondo. Si racconta che arrivando al campo di concentramento di Buchenwald, Armand Gatti abbia deciso di preparare uno spettacolo dal titolo Ich bin, ich war, ich werde sein: di fronte alla morte, egli sentiva il bisogno di riaffermare se stesso come un essere nel tempo e oltre la morte, oltre il tempo.
Come sarà possibile per le famiglie conservare la speranza, di cui hanno estremo bisogno per investire sulla vita? Per sposarsi e generare figli è indispensabile che le energie umane siano rivolte a perseguire qualche obiettivo realizzabile  e positivo. La cultura contemporanea non aiuta. Il cosiddetto postmoderno, per il fatto di presentarsi come l’epoca della deideologizzazione e del disincanto, sembra voler sradicare la speranza dal cuore degli uomini e delle donne. Non bisognerebbe però sottovalutare l’aiuto che essa può dare a smascherare le speranze malfondate, a demolire i falsi ideali (“idola”). Oggi è più evidente che è un errore pretendere di conoscere la verità dell’intero, come ha voluto fare Hegel, quando, esaminando nella Fenomenologia le diverse figure dello Spirito nella loro parzialità e nel loro susseguirsi, ciascuna come la verità dell’altra, concludeva: «La verità è l’intero».
Nessuno sa come andrà a finire la propria storia, quella della propria famiglia, quella del proprio paese. Non possediamo il quadro d’insieme cui fare riferimento. Nella vita non è come per i ragazzi che guardano all’immagine data per ricostruire i puzzle o come per i restauratori della basilica di Assisi, che hanno ricomposto i frammenti secondo la foto dell’affresco originario. Non c’è un tempo lineare, ma questo e quel tempo, adeguati a questa o a quella azione. Non c’è nella storia il deja vue e ciò dà all’avvenire il gusto e il rischio dell’avventura.
«Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace».
La rinuncia alle grandi programmazioni e alle grandi ricostruzione della storia origina dalla consapevolezza del fallimento di una speranza mal fondata. Il Qoelet dice chiaramente che l’intero, l’eterno, lo si raggiunge non con la ragione, ma con l’accettazione del tempo, facendo bene ogni cosa. Solo Dio infatti conosce il senso della storia dal principio alla fine: «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera  compiuta da Dio dal principio alla fine».
Sperare non è pretendere di capire, ma imparare a vivere  nel tempo con l’animo sintonizzato sull’eterno, avvertire il bisogno di oltrepassare il tempo con l’anima, come notava Holderlin: “Che la tua anima si slanci, nostalgica, al di sopra del tuo proprio tempo”. La speranza ci sollecita a vincere i limiti stretti del tempo della nostra breve vita, ad allargare lo spirito a tutti gli essere creati, del passato e del futuro, ad elevarci al di là della finitudine temporale, verso l’Eterno.

2. Speranza e tempo
a. Crisi del tempo. La speranza suppone l’accettazione del tempo, la pazienza del suo distendersi giorno dopo giorno lungo il corso di una vita, l’attesa e la fiducia nel trionfo, prima o poi, della verità e del bene. Raramente nella storia il tempo è stato un tale problema come lo è oggi, in particolare per le famiglie. Potremmo definire questo passaggio di secolo come crisi del senso della temporalità. Viviamo, infatti, non solo un tempo di crisi, ma soprattutto una crisi del tempo, che è sempre più multiplo, variabile, dipendente dalle differenze degli stili di vita. Basta osservare come ciascuno vive  una maggiore o minore compatibilità, la scansione e la percezione dei tempi relazionali, sociali, genitoriali, professionali e soprattutto i tempi interni, grazie ai quali elaborare le esperienze e assegnare ad esse senso. C’è un diverso valore anche dei semantemi con cui accompagniamo la percezione del tempo: guadagnare tempo, perdere tempo, sottrarre tempo per sé, rubarlo agli altri, donarlo, ritagliare tempi, approfittare e sfruttare il tempo… C’è chi attribuisce più importanza alla trasversalità dei tempi (per esempio le madri) e chi alla verticalità che stabilisce le gerarchie (i padri); chi procede a corto e medio raggio e chi a lungo; chi, con prospettiva monoculare, attribuisce più importanza alla cronologia (prima una cosa e poi l’altra) e chi preferisce la logica del tenere insieme contestualmente una pluralità di cose.  La gestione del timing, regolando condotte, rapporti, norme e conflitti nella quotidianità, esprime il diverso investimento di se stessi nel tempo e quindi la diversa assegnazione di senso con cui ciascuno collega i segmenti della propria vita.
Proprio perché il senso degli eventi è plurimo, è inevitabile il rischio di ricostruzioni ideologiche, parziali e contrapposte, che pretendono di rinchiudere il senso della storia in schemi semplificatori e teorie lineari. La gestione del tempo dipende da ciò su cui s’investe la speranza e quindi dalla propria disponibilità a spendersi per un determinato obiettivo.
b. Quando lo stress soffoca la speranza. Una mamma e un papà generalmente ripongono la loro speranza nel lavoro, nella possibilità  di un giusto guadagno, che consentirà di assicurare una vita più agiata alla propria famiglia, nel futuro dei propri figli. Per raggiungere tali obiettivi, spinti dall’amore e dalla natura, fanno sacrifici enormi. Spesso una vita non basta, lavorando sodo, per raggiungerli e dunque bisogna correre e correre. La mancanza di tempo è la lamentela ricorrente di fronte alle numerose incombenze di una famiglia: lavoro, cura della casa, dei piccoli e degli anziani, tempo libero, partecipazione sociale, politica, scolastica, parrocchiale…. Vi sono poi le pratiche collettive: riunioni, elezioni, decisioni concertate, che richiedono tempo per riflettere e difendersi dalle insidie della cultura di massa. Per le famiglie è un lusso anche il tempo per stare insieme. L’impossibilità di conciliare l’enorme carico di lavoro richiesto e la mancanza di tempo per dedicarvisi porta frutti di disagio: i legami interpersonali divengono più fragili; i valori dell’interiorità vengono offuscati e aumentano le patologie.
 Il tempo è divenuto una risorsa preziosa e rara, giacché chi ne ha, in genere non ha più le forze, e chi ha le forze non ha il tempo. Troppe volte il bilancio dei propri investimenti registra il segno negativo, perché al momento dei bilanci non si è avuto il tempo di realizzare ciò che si voleva (la vecchiaia, la morte sono giunte inattese e anzitempo) o perché si sono fatti investimenti fallimentari.
c. Il tempo eterogestito. La speranza non è soffocata solo dalla mancanza di tempo, ma anche dalla sua eterogestione. La tecnica e la razionalità moderne hanno liberato il tempo prima necessario ai tanti lavori manuali, ripetitivi e pesanti, ma nello stesso tempo lo hanno riassorbito, come un plusvalore gestito dalle grandi centrali dei sistemi economico, politico, massmediale. La logica dominante impone di non perdere tempo e favorisce le programmazioni rigide e imposte, seguendo il gioco degli interessi. Il tempo eterogestito sollecita a “vivere fuori”, sia per motivi di lavoro sia per la pluralità di offerte di svago, centri commerciali, cinema, palestre e le tante proposte culturali che cercano di captare il tempo canalizzandolo all’esterno e sottraendolo alla vita intima e familiare. Di conseguenza le famiglie vivono la contraddizione di un tempo insieme liberato ed espropriato. Troppo spesso amministrano il tempo secondo priorità pilotate dall’esterno. La loro speranza è a rischio continuo di essere soffocata dall’ingranaggio dei sistemi.
J. G. Ballard descrive efficacemente la Cronopoli (da Chronos: come lui l’io tende ad assicurarsi un potere sovratemporale. Chronos lo fa nel mito mangiando i figli, che lo costringerebbero ad accogliere il limite della durata) ipotetica città che non potrebbe sussistere senza sincronizzare rigidamente ciascun momento della vita della gente, dal lavoro ai pasti, al sonno, alle chiamate telefoniche… Così scrive (parafrasando): «Le macchine portavano targhe di colore diverso, secondo l’ora in cui potevano circolare… Non si poteva impostare una lettera o fare il bagno se non in un determinato orario … Il ministro del tempo e i suoi programmatori erano i signori assoluti della città. A Cronopoli il tempo come orizzonte aperto e campo di possibilità plurime non esisteva più». In termini più politici, il 1984 di George Orwell aveva già descritto una società in cui il tempo-amico-del-divenire lasciava spazio a un presente perpetuo, dominato dal potere assoluto del sistema. Il tempo dunque come risorsa rubata ed eterodiretta, in cui la speranza è completamente riassorbita da valori intramondani e perciò ridotta a investimento nel benessere.
Le famiglie sono in una strettoia: da una parte hanno bisogno di tempo per comunicare, coltivare l’amore reciproco e alimentare la vita spirituale (per evitare di riporre la speranza in falsi valori);  dall’altra, per vivere, devono allinearsi all’espropriazione del tempo. Facilmente la speranza si appiattisce verso il basso.
d. La distribuzione diseguale del tempo. Oggi è più evidente che il tempo è una risorsa ingiustamente distribuita tra superiori e inferiori, tiranni e vittime, ricchi e poveri, uomini e donne. Sarà difficile riuscire a difendere un tempo familiare e umano se non si tiene conto anche degli aspetti socio politici della questione. In tutte le società la risorsa tempo ha a che fare con l’ineguaglianza sociale. E’ risaputo che i ricchi (intendendo la parola in senso lato come tutti gli individui considerabili “centrali” in un sistema e non solo coloro che dispongono di beni materiali: ricchi di rapporti, di prestigio, di intelligenza…) e i poveri (giovani, immigrati, privi di mezzi, di cultura…) hanno una diversa maniera di gestire il tempo. E’ piuttosto dei ricchi la capacità di progettare, di poter differire il godimento, di orientare l’azione verso un obiettivo in tempi stabiliti. I “poveri” invece, dovendo risolvere i problemi urgenti della sussistenza, giorno per giorno, sviluppano scarsa capacità di programmare e neanche possono farlo (per esempio quanti gestiscono corsi di formazione e di orientamento sanno bene che gli immigrati debbono poter lavorare subito, e recalcitrano di fronte ai corsi di preparazione…).  Quando trionfano  mobilità, precarietà e instabilità dei rapporti, la progettazione a tempi lunghi fa paura. Anche per questo la spirale del disagio cresce attorno ai meno fortunati: le famiglie con esclusi, carcerati, disoccupati, tossicodipendenti rappresentano il grado zero di cittadinanza e nello stesso tempo il grado zero di temporalità, perché sono esclusi dal tempo sociale e dai “progetti di vita” (progettare una formazione adeguata per i figli, progettare la casa col mutuo…). Vivendo alla giornata,  sperano solo di “farcela”. Le inchieste hanno mostrato che la loro capacità di pensare nella durata non supera le quarantotto ore. 

Rispetto a questa divisione che passa per la dotazione diseguale delle risorse, le nuove generazioni si trovano in una condizione di debolezza e facilmente perdono la speranza,  si abbandonano all’onda e rinunciano a gestire la loro vita responsabilmente, a orientarla verso obiettivi validi a programmare la formazione specialistica, la laurea, la specializzazione, il matrimonio… I più fragili soccombono, e sciupano il loro tempo o lo sfruttano furbescamente senza altro progetto che cavarsela alle spalle degli altri. Questa realtà sollecita a non trascurare la dimensione politica che dovrebbe favorire le condizioni della speranza, giacchè una famiglia che non spera, un popolo che non spera è già un popolo morto.

e. La fretta della felicità. La cultura postmoderna valorizza i tempi brevi in cui sia possibile raggiungere la fi­nalità pratica di un’idea. L’uso strumentale della ra­gione stabilisce rapporti captativi e di fruibilità; il sapere-potere maneggia oggetti e persone ai fini del vantaggio immediato (Leistungsgesellschaft). Poiché si considera buono ciò che è possibile, la tecnica spadroneggia, il fare prevale sul pensare e sul contemplare. Non è difficile che tale pro­cedere straripi oltre l’ambito della tecnica, inficiando le relazioni comples­sive col mondo, con le persone, con Dio (si pensi alle applicazioni della bioe­tica alle dimen­sioni più intime della vita familiare).  Non solo la speranza viene piegata ad efficientismo, ma viene inficiata la do­manda stessa di felicità, ridotta ad ap­pagamento senza lacrime, stereotipato ed effimero, ad un be­nessere senza armonia, che si affanna a  rincorrere un godimento cieco, bruciando le tappe.
Anche la morte deve conformarsi ai nostri tempi. Bisogna allontanarla il più possibile e poi attenuarne la sofferenza. Alla malattia terminale viene dato un tempo limite: quando non c’è la possibilità di ritornare attivi  e in buona salute, secondo i criteri dell’efficienza e dell’autonomia, la morte deve venire subito, si deve ridurre al minimo il tempo del dolore, del travaglio, dell’inattività, cometa pubblicità suggerisce.
Parimenti, nella vita di ogni giorno, viene fatto il possibile per eliminare la distinzione tra giorno e notte, che rende così inutili gran parte delle ore della vita, tra settimana lavorativa e domenica di riposo, tra stagioni fredde e calde, secche e umide. La TV funziona a tutte le ore dentro le case, come pure si fa il possibile perché siano funzionanti 24 ore su 24 le macchinette di distribuzione di certi prodotti, i negozi e i luoghi pubblici.
Il patrimonio genetico ancestrale della mente umana è messo a soqquadro per permettere un’attività continuativa, con orari regolati dall’efficienza e innaturali.  In famiglia non si aspetta più che le fragole vengano a primavera. Anche questa è educazione alla speranza. Frutti e legumi devono arrivare da altre parti del mondo per annullare l’alternarsi delle stagioni e riscrivere il calendario in modo omogeneizzato e universalizzato.  Di conseguenza, la cultura dei pasti differenziati per stagioni viene relegata al passato. La tecnica mira a denaturalizzare il tempo, obliterare i contrasti illuminando elettricamente i locali “a giorno” in permanenza, ponendo sul mercato i climatizzatori, annullando le distanze attraverso le comunicazioni on line con tutte le parti del mondo, potenziando l’uso dell’aereo, con il relativo stravolgimento dei ritmi e degli orari, che rendono il tempo una variabile dipendente dalla tecnica, non corrispondente al tempo reale. Si dissocia il tempo sociale da quello tecnologico.
A livello planetario le operazioni veloci di deforestazione sono a ritmo incompatibile con i tempi di rinnovo della natura. Così anche per i cicli lenti della formazione del petrolio e del carbone.  Si escogitano tutti i mezzi possibili per scavalcare la lentezza dei tempi naturali e dettare regole sovratemporali, perché la volontà di potenza vuole dominare il tempo e, come scrive Jonas, “l’intrinseca infinitudine del potere umano entra in collisione con la finitudine della natura terrestre”. Non si vuole certo auspicare un riflusso nostalgico verso la vita premoderna, ma bisognerà anche proteggersi dallo stress e dalle sue conseguenze alteranti dell’equilibrio bio-psichico. La sottrazione dei periodi di attesa impedisce alla natura di assimilare in profondità, di fabbricare le sue resistenze alle aggressioni: diventiamo più fragili e dipendenti dal benessere, come la droga che riduce la speranza a ricerca della soddisfazione immediata.
La tecnica cerca di infrangere il ritmo del tempo, in modo da liberare l’uomo dalla tirannia della consequenzialità delle azioni e dai limiti delle contestualizzazioni. Viviamo in una cultura che sollecita all’uso, alla soddisfazione immediata, che ci sollecita ad essere soprattutto consumatori (prêt-a-porter, prêt-a-jeter), a diffidare della ricerca del senso, a gettare immediatamente dietro le spalle il passato. L’uomo senza qualità naviga a vista, senza sapere bene dove va né da dove viene e dunque, come è stato scritto, viaggia attraverso “paesaggi di sabbia”. Conta l’abilità nel ritagliarsi una nicchia di senso immediato, una soddisfazione ristretta a ciò che è godibile subito.  Si vive nel tempo contratto, sbriciolato tra mille sollecitazioni e proposte contraddittorie, sottoposto alla dittatura dell’urgenza, della fretta e dell’istante, funzionalizzato alla resa immediata. Quando l’esistenza scoppia nel caos di momenti che si susseguono senza coerenza, quando non abbiamo un senso che dia ai frammenti una radice nella durata, il frutto principale è il disorientamento: siamo, contemporaneamente e contraddittoriamente, ossessionati e orfani del tempo.
La felicità che la tecnologia consente è più che altro soddisfazione. La sazietà differisce dall’eudaimonia come beatitudine, che reclama il vivere bene, concepito da Platone a Boezio come uno stato d’essere della persona, la quale non può contentarsi dell’appagamento minimale, al seguito delle scorciatoie pubblicitarie che fanno del consumo la modalità principe nel rapporto con oggetti, notizie, af­fetti e religione. Le ideologie della felicità comprata ai saldi, mostrano la loro cecità di fronte alle conseguenze negative sulla famiglia, sull’ambiente, sulla genetica, sulla robotizzazione dell’uomo e della donna. Sono tali esiti fallimentari a far cre­scere la sensibilità per un ambiente umano, per un’ecologia del tempo. 
f. La speranza inattiva. La speranza frettolosa e prepotente salta a piè pari gli ostacoli e si costruisce un mondo interiore a misura di quello desiderato, un mondo da realizzare con una fuga in avanti nell’attesa di un sogno. Simone Weil era convinta che “si vive del sogno proprio o di quello altrui”.
Le famiglie possono rimanere talvolta imbrigliate in interpretazioni spiritualistiche e fondamentaliste, che alimentano l’abbandono della partecipazione politica e sociale, il rifiuto dello sciopero sempre e per principio, la demonizzazione del televisore in casa, la sottovalutazione dei contesti concreti, per sbilanciarsi su un futuro tutto da venire, da attendere molto più che costruire. La speranza deve confrontarsi con la realtà concreta: un bambino abbandonato, non amato, un papà disoccupato, una ragazza madre hanno poche speranze in questo mondo.
Non è possibile essere all’altezza dei tempi conservando un ottimismo rinunciatario e inattivo. Si può optare per l’ottimismo attivo di Bloch e/o per la responsabilità di Jonas o ancora per quell’ “ottimismo tragico” di cui parlava Mounier, che in fondo è realismo animato dall’impegno. «Il futuro, – sottolinea Bettolo – è realizzabile con l’ottimismo dell’intelligenza, criticamente fondato». Con le parole di Teilhard de Chardin, si può dire che occorre gente che rifiuta di stare alla finestra, di guardare e criticare, ed è sufficientemente motivata per sentire il futuro nelle proprie mani. Saranno necessari uomini e donne capaci di rispondere positivamente al richiamo della vita, culturalmente attrezzati, sempre meno docili alla colonizzazione mercantile della vita. Per fondare delle famiglie occorreranno persone sufficientemente motivate per divenire protagoniste del loro tempo.
g. Il paradiso in terra. Sperare non è pretendere di costruire il paradiso in terra, il bengodi o comunque dare corpo alla nostalgia per l’Eden dell’armonia uomo-donna-Dio-ambiente-tempo, spinti da un avvenirismo che nasce dal sovvertimento delle condizioni oggettive di vita e punta all’instaurazione di un mondo pacificato senza Dio. Uno dei maggiori problemi irrisolti che Karl Marx ha lasciato in eredità ai suoi interpreti riguarda proprio la legittimità della speranza, in sede pratica e teoretica, tanto nella cornice del suo pensiero quanto nel più ampio orizzonte della filosofia. L’intera opera marxiana sembra enigmaticamente in bilico tra le opposte dimensioni della scienza e della speranza. E’ certo che senza speranza sarebbe impossibile costruire una società senza classi, eppure tutto ciò che è speranza può essere sterile utopia di fronte alla concretezza della scienza. La linea interpretativa adottata da Ernst Bloch e da Karl Löwith scorge in Marx, il filosofo della speranza più che della scienza, riconoscendo nella sua riflessione un’ineludibile tensione utopica rispetto alla quale la scienza sarebbe un fenomeno secondario e funzionale. Si può riporre la speranza nella classe del proletariato, ma anche nell’io o nello Stato come principio di unità. Talvolta è la ragione (Hegel) a costituire il rifugio dell’io onnipotente, talaltra l’affettività (amore romantico), talaltra la rivoluzione (Marx), tutte vie per ottenere subito  quel risultato creduto buono, che gli ostacoli, i tempi lunghi,  e le contraddizioni frenano nella realtà.
Come nella teoria così nella vita siamo sottoposti alla tentazione di fare l’unità troppo in fretta e quindi di alimentare le fughe nell’utopia-sogno, che riflettono il desiderio di assoggettare la realtà alle proprie possibilità conoscitive o morali. La speranza, se non vuole essere puro sogno di  mondi possibili, nella Fattoria o nell’isola dei famosi,  ha senso nel confronto dialettico con la realtà, cresce e si rafforza nella fatica del confronto, nella sofferenza delle sconfitte e nella gioia delle vittorie.

3. Sperare, con discernimento

a. Adolescenti e speranza. Per i ragazzi il futuro è troppo lontano. Preferiscono vivere alla giornata, almeno fino a che non aprono gli occhi su un avvenire che sembra non promettere niente di buono, con i telegiornali pieni di violenza, la crisi economica in atto, i tagli alla spesa pubblica e le pensioni, il lavoro che non si trova, le classi medie che stentano a stare al passo, l’inquinamento dell’ambiente, i problemi del terzo mondo…
A differenza di un tempo, oggi le nuove generazioni immaginano un futuro peggiore di quello dei loro genitori, che negli anni Cinquanta e Sessanta  riuscivano comunque a trovare un impiego e potevano sperare in una carriera adeguata, se avevano le risorse giuste. L’adolescente è portato a respingere le regole di una società che non gli darà lavoro, che li fa studiare all’infinito parcheggiandoli in istituzioni limitative della libertà, logorandoli sotto la mannaia di continui giudizi ed esami, lontani dalla realtà vitale. I ragazzi finiscono col pensare che niente è programmabile, che lo studio non serve, che il mondo è dominato dal potere e dalle raccomandazioni. Se i giovani rinunciano a sperare e investire le loro energie, c’è chi programma per loro un futuro a misura dell’efficienza. Molti cadono nella trappola del nichilismo e si concentrano sulla soddisfazione dei bisogni immediati, oppure invitandoli a rifugiarsi nei tempi immobili del sogno e delle società lontane, arcaiche, idilliache.
Da parte dei genitori è importante offrire ai figli una visione realistica e non edulcorata della realtà, che tenga quindi conto delle dinamiche obiettive della forza e del prestigio che regola quasi tutti i rapporti, ma dall’altra non privarli del gusto di avere un sogno da realizzare, la voglia di cambiare e di fare, d’impegnarsi e prepararsi, di valorizzare i propri talenti e spendersi nella speranza di riuscire. Non bisognerebbe spegnere la speranza nei figli anche quando i genitori non riescono essi stessi a sperare e hanno fondate ragione per essere disillusi: sanno che il futuro no sarà roseo, che non basta più far studiare i figli per garantire loro un avvenire decoroso. I genitori dovrebbero essere consapevoli che senza speranza i loro figli “trascineranno la vita”, “rosicchieranno la vita” ma non saranno capaci di viverla a  pieno. Nonostante le analisi pessimiste, i genitori hanno il compito di iniettare il senso della speranza, come auspicava Huizinga: «… a questa generazione il compito di non lasciar perire il mondo nell’orgoglio e nella follia”. Il futuro dipenderà da genitori capaci di trasmettere insieme il coraggio del realismo e la speranza di un’utopia aperta in alto e in avanti.
La fede è una risorsa primaria, che pone al centro della famiglia la fiducia nel Padre celeste dentro e oltre le situazioni spesso scoraggianti della vita di ogni giorno.

b. Educarsi ed educare a gestire il tempo. In una società ad alta competitività, chi sarà meno capace di amministrare coscientemente la propria vita secondo obiettivi perseguibili, chi non saprà vedersela coi tempi sarà più esposto al rischio della marginalità. E’ infatti indispensabile nel nostro tempo imparare a gestire  fa­miglia, città, lavoro e tempo libero, organizzando le sequenze secondo priorità personali e di gruppi di appartenenza («tempo scelto e non subìto»).

Ben più che le soluzioni ingegneristiche, costruite razionalmente a tavolino, si avverte la necessità di persone  capaci di essere “padri e madri del futuro” e dunque diffusori di speranza e di bene. «Sono probabilmente rari – scriveva S. Weil – tuttavia non li si può contare; la maggior parte sono nascosti… Una perla nascosta nel fondo di un campo non è visibile… Ma, come nelle reazioni chimiche, i catalizzatori o i batteri, di cui il lievito è un esempio, allo stesso modo nelle cose umane i granuli impercettibili di bene puro operano in maniera decisiva per la loro stessa presenza, se sono messi là dove è necessario. Come metterli dove è necessario? Molto sarebbe già fatto se almeno qualcuno tra quelli che hanno il compito di mostrare al pubblico cose da lodare, da ammirare, da sperare, da cercare, da domandare, ri­solvesse nel proprio cuore di disprezzare in maniera assoluta e senza eccezione tutto ciò che non è il bene puro, la perfezione, la verità, la giustizia, l’amore».
La qualità del prossimo Millennio dipenderà dallo spessore umano di coloro che, con realismo aperto in alto e in avanti, intendano assumere il coraggio di una testimonianza profetica, che    illumini la quotidianità con la verità trasparente dalla vita, sostenendo donne e uomini con il bene, nutrendoli con  il bello ( “solo la bellezza salverà il mondo”), alimentandoli con l’amore, giacché chi non ama nessuno, non serve nessuno. La vita ritrova il sentiero della felicità, se l’amore ne è il presupposto. «Sono perché amo- sintetizza Palumbieri – Sono nella misura in cui amo. Sono ciò che amo».
Bisognerà offrire alle nuove generazioni strumenti adeguati a leggere in modo critico la storia senza che il peso del passato spenga la capacità di investimento creativo. Nessuno può vivere da semplice spettatore, senza dare senso ai propri giorni, come un puro consumatore di beni e ideologie altrui. L’esigenza di senso eterno nel tempo non è solo questione di ricerca intellettualistica, né è questione emergente nell’età della pensione, come rifugio di fronte allo sfuggire della vita.  Reclama fin dall’infanzia un’autentica spiritualità, perché non è della persona accontentarsi di vivere il proprio tempo in modo  funzionale, lasciandosi sfruttare dai diversi Moloch:  il tempo è per l’uomo e non l’uomo per il tempo.
c. La comunità che alimenta la speranza. La storia  non la si costruisce a partire solo dall’io, ma con tutti gli altri, in attento ascolto degli eventi, con la cultura dell’epoca, dell’ambiente, del gruppo, sulla base dei suggerimenti dello Spirito. Una persona capace di speranza non è individualista, non mira a realizzare l’uomo prometeico del Rinascimento, ma spera e agisce nell’umiltà di chi vuole condividere con i compagni di viaggio progetti, responsabilità e risorse. Bisognerà rafforzare il rispetto dell’alterità ed educare sempre più ad agire insieme, a  piccole comunità. E’ stato scritto: «I germi del futuro sono nel seno della comunità di oggi  alla cui saggezza è consegnata la non facile gestazione. L’embrione è nascosto nel presente. E dal presente dipende la sua sanità di sviluppo o la sua realtà abortiva».
E’ dentro una comunità di famiglie che si alimenta la capacità di discernere e selezionare, riconciliarsi col passato in maniera creativa,  sapendo scartare ciò che è vecchio, in quanto desueto, e recuperare ciò che è antico, che cresce di valore alla prova del tempo, guardando al futuro senza dimenticare il pas­sato, almeno per quel tanto che non subisce l’usura del tempo.
Occorre valorizzare la costruzione di una storia comune, come elemento che consente il rapporto tra differenze di oggi e quelle segnate dal tempo: l’antico, il moderno, il post-moderno. Insieme è più facile cogliere l’unità di fondo, ricomponendo i fram­menti attraverso il filo conduttore dei va­lori. Infatti, se la cultura del frammento destabi­lizza le cer­tezze, accentua le differenze, aggredisce e nega le teorie, la­scia le richiede la creatività di ciascuno nel raccogliere, tessere e valorizzare le singoli parti, costruendo rapporti il cui senso non è dato a priori, ma si viene costruendo nelle relazioni che le famiglie intessono tra loro nel vicinato, nei mondi vitali o nella comunità ecclesiale.
E’  un bene che non ci si fidi più dei sistemi, delle regole procedurali e neanche di una deontologia professionale, con le relative, innumerevoli carte dei diritti, dei servizi ecc. Si indebolisce quella che Mancini considera la “corrente fredda” del concetto (che si realizza nell’eticità hegeliana come «il trionfo dottrinale dell’ethos»), al confronto con quella che è la “corrente calda” della profezia. Più importante è la credibilità dei soggetti, la loro coerenza tra pensiero e vita, l’incisività della loro testimonianza, rispetto a cui diventano secondari i grandi manifesti programmatici, le dichiarazioni di principio, gli schiera­menti di appartenenza, le definizioni teoriche e totaliz­zanti. Una tale credibilità la si verifica nella esperienza di una comunità, luogo di coltura di prospettive positive anche in chiave escatologica: «la speranza è disponibilità che si rivela in un’esperienza di comunione».
Ci si muove per tentativi, secondo i mondi nei quali ci si trova a vivere, in una storia la cui trama può essere modificata, allargata, riscritta, arricchita di nuove intuizioni, di nuovi incontri, nel clima collaborativo e comunicativo dell’amore. Si può sbagliare, ma come voleva Teilhard de Chardin, l’importante è «non stare alla finestra per guardare o criticare», ma collocarsi «nelle fondamenta della nuova umanità». Contribuire a risvegliare la speranza ovvero con le parole del salmista, «Voglio svegliare l’aurora», per porre le premesse della gestazione di nuove famiglie, indispensabili ad un Rinascimento basato sull’umanesimo relazionale.
e. Una speranza fondata. La cultura religiosa delle famiglie di questo Millennio avrà bisogno di centrare l’essenziale: la morte e la risurrezione del Cristo come modello delle infinite morti e risurrezioni che costellano l’esperienza dei singoli e dei popoli e che reclamano la capacità di risorgere quotidianamente dagli scacchi e dal nulla. Ad un certo punto diventa necessario rispondere alla domanda “Sei tu quello che aspettiamo, sei realmente quello che può colmare la nostra speranza, o dobbiamo aspettarne un altro?”. Senza il Cristo chi garantisce la nostra speranza. Ha scritto Madeleine Delbrêl: “Sperare è attendere con illimitata fiducia qualcosa che non si conosce ma da parte di Colui del quale si conosce l’amore”.
Non tutti hanno il dono della fede, ma tutti dovrebbero avere l’onestà di evitare di investire in false speranze e dunque il coraggio di rifiutare di affidarsi ai falsi déi. Occorre aprire le strade giorno per giorno nei labi­rinti della complessità, seguendo il tenue filo di Arianna che si presenta di volta in volta per orientare il proprio cam­mino, del quale non si conosce il punto d’arrivo, ma a cui ci si affida. Agli occhi della fede la speranza è garantita da Qualcuno che ci ama, che sta fuori del labirinto e ne conosce il dipanarsi, meritevole di affidamento perché sa indicarci la strada per uscire dal vuoto e ripetitivo girovagare.
E’ l’amore la grande fucina della speranza, capace di sciogliere l’animo umano, di riscaldarne i sentimenti, di rigenerare la forza di vivere anche quando ci sarebbero tutte le ragioni per perdere la fiducia, specie da parte di chi è o si sente sconfitto. L’amore supera non solo la ragione ma anche la giustizia, la quale è piuttosto una virtù etica, legata alla razionalità. Nel rapporto tra giustizia e amore si realizza una dialettica in cui la dimensione etica non si identifica con quella poetica, ma la reclama. L’amore richiede la logica del dono e del perdono rispetto all’equilibrio dello scambio, la sovrabbondanza della misericordia rispetto all’uguaglianza, la gratuità rispetto al calcolo, nell’ottica espressa dalle Beatitudini  evangeliche o dell’inno all’amore nell’Epistola ai Corinti La speranza ha a che fare con la dialettica tra giustizia e amore, quando l’un termine completa e ridimensiona l’altro nel senso che l’amore dà alla giustizia lo slancio necessario all’iniziativa pro-sociale e al perdono e la giustizia dà all’amore la concretezza necessaria ad evitare la retorica, la superficialità sentimentalistica, lo sguardo  atemporale,  la disincarnazione, la chiusura nella comunità di amici.
   Come l’esperienza e la sociologia attestano (si pensi agli studi di Sorokin sugli effetti positivi dell’amore), ) iniettando la speranza che nasce dall’amare e dall’essere amati è possibile combattere la trappola del nichilismo e di tutte le tentazioni rinunciatarie di fronte al bene, che spingono verso il basso, verso la deresponsabilizzazione dei paradisi artificiali: droga, sesso, noia, svalorizzazione della vita, svendita del proprio corpo e della propria dignità.
   Ha scritto P. Ricoeur rispondendo alla domanda “In che cosa sperare?”: «Spero che ci saranno sempre poeti che parleranno dell’amore in modo poetico; esseri eccezionali che ne daranno testimonianza poetica; ma anche persone comuni, capaci di raccoglierne il respiro e di metterlo in pratica». Questa testimonianza poetica possono dare le famiglie, svolgendo un ruolo sacerdotale nel proprio ambiente, nella misura in cui sono in grado di diffondere semi di bene,  di offrire il pane necessario a vivere non solo ai disperati, ma a tutti, giacché in un modo o in un altro, in un momento o in un altro siamo tutti “poveri Cristi”. Ciascuno può sentirsi protagonista e non comparsa se si rende conto di questa ricchezza che possiede in termini di capacità di alimentare la speranza di cui le famiglie, la società e tanto più  la Chiesa hanno estremo bisogno: non potrebbero sopravvivere alle loro interne conflittualità se non fossero nutrite quotidianamente da questa corrente calda che ha la sua radice in Dio.
Il tema del Convegno di Verona (16-20 ottobre 2006: «Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo!») è orchestrato sul motivo offerto dalla Prima lettera di Pietro, una lettera affascinante, che presenta l’immagine dei cristiani delle origini nella struggente condizione di “stranieri e pellegrini”, che “rendono ragione della loro speranza”. Rendere ragione è un atto della carità intellettuale che appunto esplicita le motivazioni, ma nasce soprattutto dalla capacità di giocarsi la libertà nella storia quotidiana: il rispetto dell’altro, l’affrontare l’inizio e il termine dell’esistenza, la cura delle relazioni, la qualità della presenza sociale, la sollecitudine verso i bisognosi, l’esercizio della cittadinanza e della legalità. Una famiglia che ha fede e spera non tratta l’esperienza del mondo semplicemente come il teatro del proprio agire, bensì vi legge un disegno più grande al quale volentieri collabora sapendo di essere lievito e luce nel bel mezzo di vicende burrascose.
Il congresso di Verona sarà solo una discussione tra esperti, un interessante opportunità di incontrare e scambiarsi informazioni oppure dimostrerà che la Chiesa è capace di essere serbatoio di speranza, perché fondata sul Cristo e non sulle strutture o i programmi pastorali? Noi speriamo che saranno le famiglie, con i loro “racconti di futuro”, cioè interpretazioni di vita e esperienze capaci di prefigurare nel presente la direzione futura, a riaccendere la speranza, più che i discorsi degli intellettuali. Non sarebbe possibile costruire la comunità credente come luogo della testimonianza se essa non diventerà una famiglia di famiglie.
Ci si aspetta molto dalle famiglie; che esse realizzino il legame tra i luoghi della Chiesa e gli spazi della vita umana, quelli messi a tema per il Convegno di Verona (la vita affettiva, il lavoro e la festa, i 5 modi della trasmissione e della comunicazione, la fragilità della vita umana, la cittadinanza). Il loro sguardo verso il futuro non è semplicemente il fatto che le realizzazioni presenti hanno sempre un “altro” e un “oltre” da attendere e da sperare. E’ soprattutto la loro capacità di vivere l’amore reciproco che rende credibile la speranza e presente  il Cristo risorto.
A mo’ di conclusione
Ci chiediamo se il tempo, visto dalla prospettiva ultraterrena, possa essere scavalcato, se la valutazione del senso delle azioni fatta con gli occhi di Dio segua gli stessi parametri della durata, se la responsabilità non contenga ancora qualcosa di prometeico o se dobbiamo piuttosto pensare all’attenzione, all’accoglienza, alla recettività attiva come valori che spezzando la prevedibilità dei progetti rendono possibile l’incrocio col divino e quindi una sorta di eternizzazione del tempo.
Esiste davvero una possibilità di ritornare al futuro, di vivere nel passato, di eternizzare il presente e quant’altro la fantasia suggerisce alla cultura contemporanea per spezzare il vincolo del tempo? Il desiderio di spezzare tale vincolo è riconducibile soltanto all’ambizione di prometeismo dell’uomo contemporaneo o anche alla leggerezza dell’essere, ossi al paradosso di un’epoca in cui mentre i sistemi disegnano progetti sempre più necessitanti e vincolanti, è necessario vivere in qualche modo nel tempo-fuori del tempo per non soccombere alla complessità?
Divenire rigeneratori di speranza  significa fare esperienza di comunione e in essa di amore provato con la pazienza del tempo. Ciò che noi vorremmo fare prometeicamente con la fretta, saltando il patire della durata, la croce della dilazione, l’amore lo fa sottoponendosi al consenso degli altri, accettando la pazienza dei frutti, attendendo i risultati.
 “Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni è come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”. Solo così si capisce la logica illogica dell’operaio dell’ultima ora o quella del buon ladrone , che sorpassa immediatamente gli apostoli fuggitivi, mentre lui, che nel tempo datogli in vita è stato ladro, forse omicida, entra per prima con Gesù in paradiso.


Questa la poesia per intero:
 ’A speranza  
Ogne semmana faccio na schedina:
mm a levo ’a vocca chella ciento lire,
e corro quanno è ’o sabbato a mmatina
’o Totocalcio pe mm’ ’a ji a ghiucà.
Cuccato quanno è a notte, dinto ’o lietto,
faccio castielle ’e n’aria a centenare;
piglio ’a schedina ’a dinto ’a culunnetta,
’a voto, ’a giro, e mm’ ’a torn’ ’a stipà
Io campo bbuono tutta na semmana,
sultanto ’o lluneri stongo abbacchiato,
ma ’o sabbato cu ’a ciento lire mmano
io torno n’ata vota a gghi a ghiucà.
Nun piglio niente, ’o ssaccio… e che mme ’mporta?
io campo solamente cu ’a speranza.
Cu chi mm’aggia piglià si chesta è ’a sciorta,
chisto è ’o destino mio… che nce aggia fà?
’A quanno aggio truvato stu sistema
io songo milionario tutto ll’anno.
’A ggente mme pò ddi: – Ma tu si scemo?
Ma allora tu nun ghiuoche pe piglià? –
Si avesse già pigliato ’e meliune
a st’ora ’e mo starrie già disperato.
Invece io sto cu ’a capa dinto ’a luna,
tengo sempe ’a speranza d’ ’e ppiglià.
La Rochefoucauld,  Massime, Rizzoli, Milano, 1992, p. 65.
G. Leopardi,  Canti: Le ricordanze, vv. 77-78.
Vauvenargues, Riflessioni e massime, TEA, Milano, 1989, p. 138.
N. Chamfort, Massime e pensieri, Guanda, Parma 1998, p. 12.
A. Morandotti, Le minime di Morandotti (3), Scheiwiller, Milano, 1980, p. 124.
F. Nietzsche Umano, troppo umano, I Adelphi, Milano 19772, p. 65.
G.F.G.Hegel, La fenomenologia dello Spirito, tr.it. E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1970 , I, p.13.
Qoelet cap. 3, 1-11.
Qoelet cap. 3, 1-11.
Cf C. Ventimiglia, Paternità in controluce, Angeli, Milano 1996.
Novella di J. G. Ballard riportata da J. Chesneaux, Habiter le temps, p. 16.
Cf F. Durbet, La galère, jeunes en survie, Paris 1993.
Cf Aa.Vv., Trattato di Bioetica, a cura di F. Bellino, Bari 1992.
«Oltre all’irrazionale distruzione dell’ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell’ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione…ci s’impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica «ecologia umana». Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo… ma l’uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale di cui è stato dotato… Egli, tuttavia, è anche condizio­nato dalla struttura sociale in cui vive, dall’educazione ricevuta e dall’ambiente. Questi elementi possono facilitare oppure ostacolare il suo vivere secondo verità. Le decisioni, grazie alle quali si costituisce un ambiente umano, possono creare speci­fiche strutture di peccato, impedendo la piena realizzazione di coloro che da esse sono variamente oppressi. Demolire tali strutture e sostituirle con più autentiche forme di convivenza è un compito che esige coraggio e pazienza» (Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 1. V. 1991, «L’Osservatore Romano», 2-3 Maggio 1991, abbr. CA, n. 38). Rimando a: G. P. Di Nicola, Per un’ecologia della società, Dehoniane, Roma 1994.
«Nella sua essenza, la felicità è desiderio di amare e di essere amati. In ultima istanza è il desiderio di Dio»  (cf P. Poupard, Felicità e fede cristiana, Casale Monferrato 1992, 8); con ri­ferimento a sviluppi letterari del tema, cf P. Quennel, La ricerca della felicità, tr. it. Bologna 1992.
Per un approfondimento rimandiamo a: M. C. Bingemer– G. P. Di Nicola, Simone Weil. Azione e contemplazione, Effatà, Torino 2005; G. P. Di Nicola– A. Danese, Simone Weil, Abitare la contraddizione, Devoniane, Bologna 1991.
Entrambi sostengono la centralità del momento della speranza in Marx, ma lo valutano in maniera opposta. Cf D. Fusaro, Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith interpreti di Marx (Il Prato, Padova 2005) http://www.filosofico.net/filsperanza.htm
J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino1978.
S. Weil, ?crits de Londres, Paris 1960, 41-42.
AS, p.84.
S.Palumbieri, , L’uomo e il futuro. II. Germi  di  futuro per l’uomo,  Dehoniane, Roma 1993,  II, 198.
Cf I. Mancini, L’ethos dell’occidente. Neoclassicismo etico, profezia cristiana, pensiero critico moderno, Torino 1990.
UP, 375.
S.P., III, 466.
Si vedano i due volumi: Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. pubblicati dalla LAS di Roma a cura di Toso–Formella–Danese, nel 2006.
Rimandiamo al nostro: Perdono… per  dono, Effatà, Torino 2006.
P. Ricoeur, Le sfide e le speranze del nostro comune futuro  in «Prospettiva Persona», n. 4 (1993), rip. in Persona, comunità  e  istituzioni, a cura di A. Danese, Ecp, Firenze 1994.
Seconda lettera di Pietro, 3, 8-14.
J. Chesneaux dedica il suo libro sul temo: Habiter le temps a “L’operaio dell’ultima ora” (J. Cheseaux, Habiter le temps, Bayard Paris 1996).