Intervento sul Bene comune per la 45° settimana sociale II

 

© Dal Libro di A. Danese, Cittadini responsabili, Dehoniane, Roma 1994 pp. 115-145

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3. Il recupero dei valori nella democrazia 

In non pochi autori contemporanei la riflessione sulla poli­tica si incentra sul confronto, sul discorso e sulla comunicazione. Le loro teorie trasmettono la difficoltà di una prassi politica basata sullo scambio sim­bolico e consensuale, che deve convivere con le cadute della comunicazione e quindi trovare il modo di fissare il bene comune al di là delle varie forme di dominio, delle strumentalizzazioni strategiche della retorica, dell’indifferenza partecipativa e della mancanza dei requisiti minimi di partecipazione. Tutti aspetti che alterano le condizioni per un confronto corretto tra i soggetti.H. Arendt sottolinea l’importanza dell’intesa da raggiungere con metodi dialogico-razionali[1]. La politica, come sfera della libertà, si sol­leva dall’ambito della pura necessità che l’uomo ha di lavorare, quando egli segue una logica strumentale che imposta le relazioni in senso economico. Nella politica occorre assumere insieme la dimensione della ricerca del bene comune, essendo liberi dagli interessi di sopravvivenza e da altre impellenze particolari (di qui l’ammissione alla politica solo di certi ceti nella Grecia antica). In generale, nelle teorie in cui si supera la pura riformulazione delle regole del gioco, ci si sofferma molto sull’argomentazione, sulla dialogicità, sul confronto come bene in sé, al fine di trovare sempre nuovi equilibri. Così nella teoria dell’argomentazione di Chaïm Perelman ritroviamo l’esigenza del recupero di una conoscenza non soggiogata dalla ragione scientifica di matrice cartesiana. Egli riabilita la filosofia, la morale, la politica, come ambiti non riducibili all’evidenza scientifica, ma che reclamano altri codici di lettura[2]. Viene messo in causa il positivismo e il neopositivismo, giacché è il discorso scien­tifico che appare intrinsecamente riduttivo della realtà, dal momento che esclude la dimensione più propriamente umana del conoscere e dell’agire. La ragione scientifica è «forte», procede per evidenze oggettive, per dimostrazioni e non per argomentazioni. Perelman, invece, è fautore del pluralismo metodolo­gico che comprende, oltre il paradigma scientifico, anche quello relativo all’agire e dunque ai criteri del ragionevole come verosimile, raggiunto attra­verso la persuasione e l’argomentazione che tendono a creare convergenze circa le finalità, il senso e la direzione dell’agire. La teoria dell’argomentazione vuole sottrarsi sia alla man­canza di riferimenti valoriali che all’assolutezza del criterio dell’evidenza scien­tifica[3]. Non si tratta di mirare a conclusioni apodittiche, ma ragionevoli ed accettabili, passate al vaglio del confronto con le altrui argomentazioni. «Nella pratica della moralità concreta — scrive Perelman — troviamo raramente un di­saccordo fondamentale sui principi ultimi, ma piuttosto un accordo fonda­mentale sui principi, accompagnato da un disaccordo frequente sulla loro ap­plicazione a casi particolari»[4]. Acquista maggiore importanza la relaziona­lità umana, nei continui tentativi di persuasione che ciascuno mette in atto e che in una democrazia trovano il luogo del confronto reale e della tolleranza. Il dialogo assume un’importanza centrale, poiché permette di sottoporre agli altri le proprie ipotesi «convincenti», ma che necessitano di convergenze. Una tale teoria costituisce indubbiamente un momento costruttivo, in cui l’azione appare né irrazionale né razionale in senso assoluto, ma “ra­gionevole”. Ciò che manca alla teoria di Perelman è la distinzione tra “persua­sione” e “giustificazione”, come fa giustamente osservare Scarpelli. «Le ragioni addotte — così scrive — riusciranno presso di me, non già valide perché persuasive, ma, se mai, persuasive perché valide. La giustificazione, insomma, non è riducibile alla persuasione»[5]. Riprendendo la lucida analisi di Juvalta[6], egli appro­fondisce la distinzione anche tra “giustificazione” e “motivazione” per poter met­tere in luce che la giustificazione implica un problema etico «concernente il dover essere di una situazione concreta o astratta… giustificare è pervenire sulla base di ragioni a una conclusione etica»[7]. Senza voler svalutare l’“etica della persuasione”, Scarpelli affida le sue preferenze alla “persuasione profonda” e duratura «istituita con l’educazione, piuttosto che all’effimera persuasione all’effimero, tanto comune nella società contemporanea», fatta salva sempre la domanda se l’oggetto della persuasione e del consenso sia in sé giustifi­cato[8]. «Dimenticare questa domanda sarebbe arrendersi al conformismo etico, che ha la manifestazione più pesante negli Stati totalitari, ma non è cer­tamente estraneo alla democrazia mass-mediata»[9].Anche J. Habermas rifiuta l’epistemologia positivistica, che ha portato alla crisi della ragione pratica e alla crescita corrispondente dell’irrazionalismo in politica e in etica, pur prendendo le distanze da una morale metafisicamente e oggettivisticamente fondata. Egli denuncia la scissione tra la scienza empirica razionale e la scelta irrazio­nale dei valori nel decisionismo. «Il progredire di una razionalizzazione limi­tata alla disposizione tecnica, nel senso della scienza empirica, viene pagato con la crescita corrispondente di una massa di irrazionalità nell’ambito della prassi stessa. Infatti l’agire esige orientamento oggi come ieri. Solo che ora esso viene suddiviso in una mediazione razionale di tecniche e nella scelta irrazio­nale di cosiddetti sistemi di valori. Il prezzo dell’economia nella scelta dei mezzi è un decisionismo scatenato nella scelta dei fini ultimi»[10]. La proposta di Habermas dell’agire comunicativo esprime la capacità di elaborare orizzonti normativi, in comunicazione con tutti, a partire dalle relazioni in­tersoggettive in cui vengono individuati il senso e le direttive dell’azione. Scrive Habermas: «Una norma può pretendere di avere valore soltanto se tutti coloro che possono essere coinvolti raggiungono, come partecipanti ad un discorso pratico, un accordo sulla validità di tale norma»[11]. Si tratta dunque di una proposta di riemergenza dell’etica in senso comunicativo, lontana dal decisio­nismo e dal relativismo, dal dogmatismo e dal nichilismo. La teoria consensuale della verità, assumendo il criterio dell’assenso che si coagula attorno ad un’idea, richiede che il dialogo rimanga il più possibile libero dalle distorsioni della comunicazione, dunque avvenga in condizioni ideali e nella prospettiva di una perfetta simmetria che escluda le forme di sopraffazione.  L’ambito politico nelle teorie della comunicazione e del dialogo recupera all’etica la definizione consensuale dei problemi e dunque una sempre attiva capacità critico-costruttiva di confrontarsi, cercando di liberarsi il più possibile — ma è evidente che qui si scoprono i limiti — dalle cadute del discorso nella ideologia, nell’imbonimento delle masse, in tutte le manipolazioni ottenute col consenso dei cittadini. Si presuppone perciò la partecipazione e la maturità culturale e politica dei cittadini, senza la quale la comunicazione è indottri­namento a senso unico. Parlare di consenso comunicativo suona utopistico, giacché è soltanto a certe condizioni ideali che si realizza senza scompensi la ritrovata sintonia tra ragione e decisione[12]. G. E. Rusconi sottolinea che per politica non si può in­tendere solo dialogo, ma anche decisione e uso conseguente della forza[13]. Non si può attendere che tutti siano d’accordo, ma occorre ad un certo punto interrompere la discussione e assumere la responsabilità di una de­cisione, pur conoscendo il rischio che questa comporta di coagulare solo il consenso di una parte della società. Proprio questa necessità di decidere, di im­piegare opportunamente risorse e strumenti, implica l’essere orientati a scelte che rappresentano la possibile migliore realizzazione, anche se non rispec­chiano l’applicazione della verità (il bene in sé).  Il discorso habermasiano, come del resto quello sociologico di N. Luhmann[14], ha evidentemente notevoli implicazioni etiche, soprattutto per il fatto che viene esaltata la libertà, il dialogo, la tensione a raggiungere il bene comune. Tuttavia, il rischio è quello di finire con l’identificare libertà e politica, dialogo in senso lato e dialogo politico, vita etica e polis, sopravva­lutando la sfera del pubblico e sottovalutando quella del privato, come si vede più apertamente negli esiti del pensiero di B. Crick, che scrive tra l’altro: «La libertà vive a condizione che la gente continui ad agire liberamente ed effica­cemente negli affari pubblici e che sia disposta a correre dei rischi parlando in pubblico con risolutezza e decisione»[15]. Di fatto le democrazie occidentali registrano una ridotta partecipazione elettorale, limitata a pro­cessi di affidamento dei cittadini a rappresentanti che, a seconda dello status politico che occupano, assumono decisioni più o meno importanti, nelle quali la razionalità comunicativa di Habermas appare una suggestione idilliaca, un equivoco. «La dinamica reale delle grandi scelte dei nostri sistemi politici è la caricatura della razionalità politica comunicativa»[16]. Se è vero che una gran parte dell’agire politico è basato su sistemi di scambio simbolico — e quindi su comunicazioni che utilizzano il linguaggio come me­dium tra le parti intenzionate all’intesa — la politica è anche agire strategico, caratterizzato dalla decisione, dalla lotta, dalla ricerca del con­senso possibile e dal successo dell’azione. Queste due facce della politica, se contrappo­ste, mantengono in una falsa lontananza la sfera della solidarietà e della comu­nicazione da quella della lotta e dell’utilità. Viceversa è tipico del politico te­nere insieme queste due logiche speculari. La filosofia politica, a sua volta, non può dimenticare uno dei due fronti senza distorcere la peculiarità stessa del pro­blema politico. Se, come fa Habermas, si sottolinea eccessivamente il parlare diretto al fine dell’intesa sui valori, si sminuisce l’importanza della concretezza delll’agire stra­tegico. Se si sottolinea l’agire strategico, si perde di vista lo sguardo ai valori.L’etica che caratterizza l’agire politico non sfugge al rischio di prendere una decisione che recide altre possibili scelte, forse non opportune e non fattibili sul momento. Chi fa politica è costretto a tagliare corto sulla comunicazione, ad accettare di aver messo d’accordo solo una parte delle persone e dei gruppi con i quali avrebbe voluto raggiungere un’intesa e di dover comunque procedere diritto per la strada della decisione presa, pur sapendo di attirarsi lo scontento e l’inimicizia di molti. La scelta non sopprime la dimensione comunicativa del discorso politico, caratte­rizzante del resto ogni sistema democratico, ma non si riduce ad essa. «La vera politica sta nella capacità di mettere insieme il comunicare e il decidere, la po­litica è fatta di comunicare e di decidere contemporaneamente e se manca uno dei due, manca la politica… Nel linguaggio quotidiano c’è un’espressione for­midabile per ambiguità e polivalenza di significato che riproduce l’ambiguità e la polivalenza del politico. È l’espressione “aver ragione” che può voler dire contemporaneamente o alternativamente raggiungere consenso tramite lo scambio di ragioni con l’avversario e/o averla vinta su di lui. La politica è sempre intrinsecamente entrambe le cose»[17]. Comprendere l’importanza dell’agire strategico nella politica significa riconoscere la necessità di agire secondo criteri orientativi delle scelte, ma senza assolutizzarli. Perciò Ricoeur preferisce distinguere i principi minimi possibili in politica dal campo delle argomentazioni sui valori, dei riferimenti ideali che hanno attinenza al background specifico e alle motivazioni personali che ciascuno assume come direttiva delle azioni. Il bene comune resta come ideale orientativo, ma non è definibile una volta per tutte né una volta per tutti; deve essere eticamente tradotto in realtà, nei limiti del possibile. Il pen­siero sociale cristiano non cessa di ricordare che la persona rischia di essere tradita, quando manca un’istanza etica universalmente riconosciuta a guidare l’azione politica. «Per uscire dalla tentazione del volontarismo — scrive G. Piana — è necessario postulare una struttura di significato che il soggetto non pone, ma trova nel mondo. L’istanza emancipativa riceve infatti la sua giustificazione nell’agire umano solo da una corretta dialettica di soggettività e di oggettività, di coscienza e di mondo della vita. Il che esige il superamento di un coscienzialismo vitalistico e l’esigenza di rintracciare una fondazione universale dalla quale la relazionalità umana possa attingere significato»[18]. Questa linea del magistero sociale non contraddice l’altra, se non quando la sfera del politico e quella della morale vengono schiacciate e appiattite in un discorso unico.  

4. Etica discorsiva e persona 

L’etica dal fondamento discorsivo assume come referente la ricerca in comune del bene, dove il bene è in secondo ordine, avendo di mira tutto ciò che di volta in volta viene considerato positivo dai più, senza assumere riferimenti troppo alti. Questi discorsi, sviluppati dai teorici della comunicazione, oltre al rischio della mancanza di punti di riferimento oggettivi, per una morale che superi la numerolatria del consenso, sono esposti al rischio della sottovalutazione del soggetto. Nelle teorie della comunicazione e della soggettività linguistica ci troviamo di fronte infatti al paradosso di un eccesso e di un difetto di personalizzazione. L’eccesso dipende dal fatto che, perché ci sia una vera comunicazione, cia­scuno deve elaborare una morale propria. Per esempio, il rischio specifico di Luhmann nel personalizzare la morale è quello di condurre alla frammentazione dei sistemi morali, per giungere alla mancanza di comunicazione tra gli stessi: «Una maggiore maturazione morale significa una maggiore autodirezione personale e quindi maggiori ostacoli alla comunicazione»[19]. Lo stesso Luhmann lo ricorda: «La morale personalizzata è una realtà che genera conflitti. I moralisti sono dei polemisti… La morale si sottrae alla comunicazione»[20]. L’io è concentrato sulla sua “anima bella”, si chiude alla comunicazione e vive di luce propria. Significative in proposito le espressioni di Nietzsche: «Luce io sono: ah fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce. Ah, fossi oscuro e notturno! Come vorrei succhiare alle mammelle della luce. Come vorrei succhiare alle mammelle della luce. Ma io vivo nella luce mia propria, io ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono»[1].


[1] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, vol. I, tr.it. Milano 1976, 127.

La mancanza di personalizzazione può derivare, al contrario, dal fatto che il fondamento stesso della coscienza morale risiede nella comunicazione. L’essere umano viene ridotto a momento di relazione sociologistica, alla sua dimensione orizzontale e sociale. La teoria comunicativa, inoltre, nel sottolineare la realtà dialogica della persona, sembra ridurre questo carattere dialogico allo stesso par­lare, o meglio al solo sistema psichico, simbolico e relazionale che si esprime nel sistema linguistico. Viene in evidenza una comunicazione orizzon­tale e sistemica, inadeguata a dare ragione della trascendenza della morale ri­spetto alle regole sociali stesse sulle quali discute.Il riferimento comunicativo dell’etica ha il vantaggio di scuotere le forme di morale rigida, per considerarne la genesi nel concorso di tutti e nella con­tingenza storica. Dalla fissità dogmatica si passa alla creatività storica; dalla rigidità del concetto di bene alla flessibilità del concetto di “meglio per noi oggi”. Ma tutto ciò non può giungere ad occultare la convinzione che sia pos­sibile riconoscere una morale comune dietro e oltre i discernimenti sempre parziali che i singoli e i gruppi ne hanno[22].     Quando si tratta di mora­lità o di intelletto pratico, la persona rivendica la sua dimensione creativa, il suo poter fare riferimento non solo alla conoscenza di ciò che è già, ma anche a ciò che non è ancora. Perciò eticità significa anche creatività del soggetto, sia individuale che collettiva, capace di darsi delle regole di comportamento perché dotata di libertà. È una libertà condizionata dal sistema sociale e storico, poiché l’essere umano è un erede bio­logico, psichico, culturale e sociale e lo è non solo come frutto genetico di una discendenza genealogica, ma anche per i suoi condizionamenti storico culturali. Egli altresì è erede dell’essere metafisico, in quanto beneficiario della vita stessa, come sottolinea opportunamente Heidegger, con la bella definizione dell’uomo «pastore dell’essere». Perciò, pur riconoscendo la novità della dimensione dialogica, non si può negare che la persona ha radici ontologiche che si rivelano nella sua esigenza di dialogare con l’Essere in sé e al di là di sé, nella storia e oltre di essa[23]. Resterebbe sospesa nel vuoto dell’io una morale strutturata senza un con­fronto costruttivo con la natura, con la cultura, con gli altri esseri umani che ci hanno preceduto e che ci seguiranno, con l’essere in qualsiasi modo lo si intenda e in fin dei conti anche con quell’essere che chiamiamo Dio. Una tale dimensione metafisica e teologica, per quanto soggetta alle false interpreta­zioni di sempre ritornanti dogmatismi, non può essere tuttavia esclusa, senza far torto alla persona stessa, per così dire liberata dalla dipendenza dalla so­cietà, dalla cultura e dal suo stesso io, proprio in virtù della sua capacità di trascendere il sociale a causa di ciò che in lei non è riconducibile al sociale. Anche se non si possono definire come valide per tutti le caratteristiche di una tale trascendenza verticale, senza incorrere nelle dispute di un legittimo pluralismo teologico, il solo riconoscere di dover fare riferimento a puntelli universali di un’etica per la persona, è già garanzia di un dialogo dotato di punti fermi che trascendono il confronto tra attori sociali e lo orientano. Tali punti fermi restano affidati a soggetti singoli e gruppi. Di qui la necessità di restituire spessore al soggetto responsabile, oltre l’impersonalità sistemica, oltre la considerazione funzionale della persona e la neu­tralità di tutte le teorie che mirano ad indebolirla. Una parte accreditata della cultura contemporanea indugia di preferenza sulla tesi della debolezza dell’io, sotto la triplice forma della «perversità» dell’azione del soggetto (al fine di denunciare gli effetti contraddittori rispetto a quelli desiderati), della «futilità» (dunque dell’inutilità di un agire che si proponga di dare una propria impronta al cambiamento) e della cosiddetta tesi della «messa a repenta­glio» (le azioni comporterebbero rischi di involu­zione rispetto alle conquiste precedenti). Tutte tesi che scoraggiano l’azione re­sponsabile del singolo, appiattendolo sulle acquiescienze ai sistemi e al loro funzionamento quasi autoriproducentesi, finendo con l’affidare ancor più alla società anonima, e dunque al sistema e ai suoi capi, il potere di governare la complessità[24]. Del resto il pluralismo delle convinzioni etiche e la negazione di un’etica universale lasciano grandi spazi agli interessi economici delle multina­zionali, scoraggiando l’iniziativa, favorendo la priva­tizzazione della coscienza e l’abbandono del singolo al corso di eventi troppo alti sulla sua testa. La complessità sociale non riesce, tuttavia, a soffocare la do­manda di solidarietà vissuta, né la corruzione dell’agire politico, con il dilagare dei fenomeni di mafia e di illegalità, riesce ad occultare i segnali di correttezza politica nei vari gruppi di impegno, dentro e fuori le isti­tuzioni accreditate. La teoria comunicativa resta di fondamentale importanza per un’interpretazione dialogica in cui l’etica sociale segua regole generali che non siano dogmatiche, ma essa deve evitare di assorbire la ricchezza e la crea­tività dell’etica personale, annegandola al confronto dialogico con tanti tu, a loro volta spenti nell’insieme. Dal punto di vista politico perderebbe di importanza l’agire strategico, dal punto di vista personale, l’agire responsabile. In un mondo a complessità crescente, non si può pensare ingenuamente alla persona, senza considerarne le dipendenze e i condizionamenti dai tanti problemi del sistema, ma neanche si può pensare di distoglierla dalla respon­sabilità (responsum dare) di tentare di dipanare la complessità che la inter­pella, assumendo la sua parte di impegno di fronte alle altre persone, ai si­stemi e alla storia[25]. L’antinomia si sviluppa tra la persona, con il suo microcosmo sociale, e la possibilità di rendere governabile il macrosistema. Ciascuna persona, nel microsociale, può costruire mondi alternativi alla logica della differenza e dell’incoerenza che domina il macrosociale e il sistema collettivo. La domanda etica si concentra sullo sforzo di animare le relazioni intersoggettive di fronte all’eccesso di frammentazione funzionale favorito dal sistema, per il qu­ale i ruoli sociali tendono a predominare. Perciò, soprattutto nei mondi della vita quotidiana, si manifestano i segni di una di­namica interpersonale carica di significato etico, che invece si attenua se si osserva la dimensione del soggetto integrato, portatore di ruoli funzionali all’equilibrio del macrosistema[26]. Ciò che resta problematico è la capacità di costruire mediazioni tra ideali e realtà, bene comune e ricerca in comune del bene possibile, principi etici e regole dello scambio, mondi vitali, ispirati ai «grandi universali» della pace, e strutture istituzionali, nelle quali prevalgono i giochi bassi dei politicanti. Nel campo sociale l’antinomia si presenta tra va­lori e interessi, ambiti della solidarietà e del gratuito e ambiti della pura logica del do ut des. Non sfugge a questa scissione il mondo della politica culturale nelle sue im­plicazioni etiche. Si impone infatti la necessità di costruire mediazioni ragio­nevoli per la lotta contro le conseguenze nefaste di uno sviluppo anarchico e falsamente neutro della cultura, della scienza e della tecnologia. Nell’ottica del bene comune la politica non può sfuggire all’impegno di promuovere una ricerca che coniughi scienza ed etica, medicina e difesa della vita, investimenti e qualità delal vita, per il bene comune e di ciascuna persona, tutte dimensioni che appaiono spesso perdenti sul piano dei risultati immediati e nel confronto dell’agire comunicativo, ma le cui ragioni di qualità vanno emergendo su tempi lunghi.Se il bene comune, visto nell’ottica ideale, fa coincidere il bene della società con quello della persona, nella dinamica della proposta discorsiva i principi minimi su cui di volta in volta ci si trova d’accordo, portano con sé lo scarto prodotto dal disequilibrio tra i due poli. Di fatto, o prevale il bene della società o quello degli individui; rimane sempre una larga fascia di persone per le quali le scelte risultano negative. Sul recupero di questo scarto si gioca la sfida della politica.                             

  5. Bene comune e giustizia          

La ricerca della giustizia connota alcune teorie di filosofia pratica, anch’esse tese a superare sia i limiti del non cognitivismo che quelli dell’essenzialismo e del neo-utilitarismo, attraverso forme di dialettica comuni­cativa e dunque di razionalità aperta. Il bene comune, nell’ottica della giusti­zia, implica la ricerca di formule di uguaglianza effettiva, sia per far fronte alle condizioni di necessità primarie, che in condizioni migliori, quando, soddisfatti i bisogni più impellenti, si può mirare all’obiettivo di giustizia propriamente umano.  Sulla linea dell’utilitarismo classico, volendo ottenere la maggiore utilità possibile per il maggior numero possibile di membri di una società, Harsanyi fa coincidere la massimizzazione dell’utilità sociale con il criterio di fondo della moralità. La giustizia ha a che fare così con la distribuzione più effi­ciente delle utilità per il benessere degli individui ed è orientata al raggiungi­mento dei fini e degli interessi dei singoli. Non viene in evidenza un fine buono in sé, ma un principio di massimizzazione della «preferenza»[27].Anche la teoria della giustizia neocontrattualistica di J. Rawls (sulla scia delle teorie contrattualistiche del sei-settecento) rivela i limiti dell’interesse del neo-utilitarismo, allorquando la persona si riduce ad una li­sta di preferenze, del resto comune a tutti gli individui della specie (giacché tutti gli esseri umani sono governati dalle stesse leggi psicologiche fondamen­tali)[28]. Rawls parla di persona morale, al contrario delle teorie welfa­riste e, sulla scia kantiana, accentua i concetti di autonomia e responsabilità che consentono di scegliere i fini, non secondo natura, ma secondo la capacità razionale di definire fini e interessi. La persona ha dei diritti nei confronti della politica in quanto garante della sua dignità e della libertà di porre in atto le scelte all’interno di uno schema di distribuzione di vantaggi e svantaggi, di­ritti e doveri.L’idea di Rawls suppone la differenza tra la libertà, che è un principio prioritario, e l’uguaglianza, che è un principio da coniugare con la libertà, te­nendo fede alla giustizia come equità, tutte le volte che i due principi entrano in collisione. In pratica Rawls mostra quale uguaglianza è coerente con la li­bertà[29]. Nella sua teoria della giustizia, l’equità non è un principio a parte, ma è esigito dalla stessa libertà che, per essere ottimizzata, richiede appunto l’uso dei mezzi che sono “i beni sociali primari”. Questi consentono l’uguaglianza distributiva in relazione all’identificazione di un paniere di tali beni[30]. A differenza dell’utilitarismo, nella teoria di Rawls non conta l’uguaglianza di benessere riguardo ai risultati, ma i mezzi, os­sia i beni sociali primari quali precondizioni che Juvalta considera «preliminari»[31] dell’uguaglianza, su cui non si può discutere né cedere, perché legati alle condizioni che storicamente si sono venute creando nell’Europa moderna[32].  Per A. Sen invece si tratta della libertà-potere che differisce dalla libertà-controllo[33]. Quest’ultima implica il controllo sulle scelte in vista di deter­minati scopi, dunque il diritto a più possibilità di azione. La libertà-potere, invece, esige che la persona sia capace di raggiungere gli scopi che ha scelto e quindi abbia anche le opportunità concrete di esercitare tale libertà. Quello che manca a Rawls, secondo Sen, è il tener conto delle differenze tra gli uomini e quindi della relazione tra persone e beni, qualificata dalla capacità di base che distingue le persone tra coloro che sono in grado di raggiungere gli obiettivi e coloro che non lo sono[34]. La tesi dell’eguaglianza di risorse è accolta da R. Dworkin, che individua nella “mancanza di invidia” la condizione ideale di ugua­glianza[35]. Il criterio dell’uguaglianza delle risorse può essere individuato anche come pari opportunità, nell’intenzione di non escludere al­cun individuo dall’accesso ai beni, specie di quelli che conferiscono sta­tus e prestigio, partendo dal punto di vista dei gruppi svantaggiati della so­cietà. Nell’uguaglianza di opportunità, ciò che viene allocato non è il bene, ma la probabilità di conseguirlo, in considerazione delle condizioni o delle circostanze in cui vivono i soggetti, ritenendo modificabile l’ambiente di per sé diseguale. Nell’argomento di Dworkin, inoltre, assume particolare impor­tanza la pluralità dei progetti di vita in funzione dei quali vale la differenza delle risorse. Viene in evidenza perciò una pluralità personale di stili e obiet­tivi di vita, di fronte a cui l’idea di uguaglianza va ridisegnata, perché sarebbe a sua volta ingiusta, se non tenesse conto di questa inevitabile ricchezza della pluralità delle scelte personali.Pertanto, se per Rawls sono importanti i beni sociali primari e per Sen sono da sottolineare le capacità fondamentali delle persone, per Dworkin si deve porre l’accento sull’uguaglianza delle risorse nell’ottica dell’uguaglianza delle pari opportunità. Il bene della giustizia assume così una dimensione contrattuale e razionale tra persone libere e autonome che pattuiscono regole universali, generali, pubbli­che e definitive. Ciò che emerge è la netta separazione tra le idee sul bene e l’idea di giusto, giacché ciascuno ha un’idea personale di bene. Ne risulta una società radicalmente pluralista, frammentata dall’incomunicabilità tra gli indi­vidui, forse una riproposizione aggiornata dell’idea di tolleranza lockiana, certo non sufficiente a porsi nella dinamica della società complessa, nella quale è ben difficile l’accordo tra le parti contraenti. Commenta giustamente Cremaschi: «La giustizia nasce come una coincidenza degli opposti, dalla somma degli egoismi, senza che sussista, prima del suo sorgere, alcun bersaglio etico o “ideologico”»[36]. Viene in evidenza una sottovalutazione della soggettività che, nella sua nudità esistenziale, è valutata entro uno schema di equità che suppone l’indifferenza della singolarità, (“similarità postulata”). I neocontrattualisti non percepiscono l’importanza di un bene comune, frutto di relazioni da persona a persona, sottovalutano la ricerca etica in una comunità fondata sull’amicizia, aperta alla giustizia distributiva che deve raggiungere il “ciascuno” attraverso i canali dell’istituzione.Anche nelle teorie neocontrattualistiche, come in Habermas e in Perelman, vediamo so­stenuta la necessità di un accordo razionale come riferimento per il bene co­mune, facendo affidamento su una situazione ottimale («posizione originaria») che consente l’accordo. Il bene comune diviene, nel linguaggio di Rawls, l’ideale regolativo della giustizia e dunque il «verso dove» di ogni con­fronto comunicazionale e di ogni patto: una «società ben ordinata», che abbia risolto i problemi più urgenti e stemperi le disuguaglianze a favore dei più de­boli, tramite il necessario intervento dello Stato in economia.Nelle teorie di questo genere prevale il bisogno di superare i dogmati­smi e i relativismi di opposto segno, tramite il riconoscimento della raziona­lità dell’allocazione dei beni agli individui e, più in generale, dell’etica dell’azione politica. I limiti sono forse da collegare ad una antropologia dell’individuo e non della persona, il che riduce il campo del bene comune più ad equilibri di diritti, all’equità della distribuzione delle risorse, che ad intrinse­che spinte solidariste[37]. La giustizia razionale infatti non dà ragione di quel sur­plus di slancio etico di cui si ha bisogno oggi per affrontare le grandi sfide della distribuzione ineguale delle risorse.L’idea del bene comune, stretta entro i canoni di una giustizia intesa come distribuzione di tali risorse, non si allarga alle dimensioni integrali della persona, ivi compreso il suo bisogno di spiritualità.Sia le teorie dell’etica razionale, centrate sulla comunicazione, che le filosofie che fanno riferimento al linguistic turn implicano il riferimento alla persona, anche se ne esplicitano dimensioni parziali. Ciò che Ricoeur sottolinea rispetto a queste teorie è il valore dell’istituzione sociale e politica in rapporto al bene della persona e al bene comune. Ricoeur parte dalle teorie lin­guistiche, che presentano un loro fondamentalismo nel rite­nere che tutto sia linguaggio, finendo col perdere il riferimento al mondo della vita, a quello dell’azione e dello scambio tra persone. È vero però che tutta l’esperienza umana diventa comprensibile a se stessi e comunicabile, se viene elaborata in un linguaggio. Perciò, l’essere umano viene definito come essere parlante, perché la parola esprime la condizione prima dell’essere persona, nel senso che l’agire propriamente umano si distingue dal comportamento animale proprio per il fatto che deve essere espresso in un linguaggio comunicabile, per di­ventare significante. Scrive Mounier: «Se il pensiero non si fa comunicabile, dunque impersonale per certi aspetti, non è pensiero, ma delirio. La scienza e la ragione oggettive sono i supporti indispensabili della intersoggettività. Anche il diritto è un mediatore necessario»[38]. Attraverso il linguaggio ciò che è genuinamente personale viene incanalato in un insieme di regole oggettive e impersonali, in cui l’io media la sua spon­taneità per rendere se stesso accessibile agli altri. Nella comunicazione interpersonale è importante avere la capacità di adottare un punto di vista impersonale, esterno rispetto agli interessi dell’io o, come dice Nagel, con «uno sguardo da nessun luogo»[39]. In tal caso infatti l’io appare a se stesso come un “ciascuno”, “uno qualunque” e questo distacco da sé consente di costruire sul piano linguistico una sintassi che traduce e articola il discorso. Sul piano etico lo stesso distacco crea una gerarchia di valori, come un si­stema oggettivo, il più possibile valido anche per quella persona che non potrà mai essere conosciuta[40].Ricoeur sottolinea che non sono solamente l’io e il tu che in­tervengono nel processo di interlocuzione, ma il linguaggio stesso che ne rap­presenta la dimensione istituzionale, almeno nel senso che nessuno inventa il linguaggio, ma lo anima prendendo la parola in un contesto fissato da sistemi fonologici, lessicali, sintattici, stilistici e da tutto ciò che è stato già detto. Questa correlazione tra il linguaggio come istituzione e il discorso come locu­zione e allocuzione, costituisce perciò un modello di riferimento per intendere il rapporto tra le istituzioni (politiche, giuridiche, economiche) e le interazioni umane. La triade locuzione, interlocuzione, linguaggio-istituzione esprime in forma diversa la triade dell’ethos: stima di sé, sollecitudine, istituzioni giuste. La promessa è la forma in cui è più evidente il parallelismo tra la triade lin­guistica e la triade etica: essa è un atto del discorso perché implica il porsi nell’obbligazione e dunque impegnarsi a mantenere la promessa, come espres­sione di coerenza della propria identità (stima di sé). Essa inoltre è impegno verso qualcuno (relazionalità etica). Infine, implica fiducia nello strumento che veicola l’obbligazione di preservare l’istituzione del linguaggio, come strut­tura fiduciaria su cui riposa la possibilità di comunicare. Il linguaggio e le isti­tuzioni politiche appaiono dunque canali di distribuzione del dono che cia­scuno è per l’altro, attraverso la fiducia che l’io e il tu ripongono nello stru­mento istituzionale che veicola la loro reciproca obbligazione.Questa impostazione di Ricoeur salva da una parte tutta la potenzialità etica della persona in rapporto a sé e all’altro; dall’altra la dimen­sione etica di quel terzo istituzionale che costituisce l’oggetto della politica, in quanto strumento privilegiato di distribuzione universale dei doni, da quello economico a quello amministrativo, a quello artistico e spirituale. L’esistenza oggettiva delle istituzioni è dipendente dal tasso di fiducia che le persone continuano ad attribuire ad esse come depositarie del legame sociale e in quanto strumenti di bene, anche al di là dei limiti che esse possono imporre all’io.


[1] H. Arendt, Vita activa, tr. it. Milano 1989;