Eluana Englaro e il silenzio che parla il linguaggio di E. Mounier

Eluana Englaro e il silenzio che parla il linguaggio di E. Mounier

 

Questo silenzio reclamato da molti   ci ha ricordato un autore a noi caro:

 Mounier e il suo silenzio di fronte alla figlia Françpoise malata di encefalite da sette mesi a 18 anni.

 

Abbiamo raccolto anche una provocazione: «E adesso chiedono il silenzio. Ma certo: che resta ancora da dire? Eluana va a morire e la morte si deve tacere. Non si deve raccontare. La morte non è chic, stona un po’ con l’eleganza dei pensieri vip. Una morte di fame e sete, poi. C’è qualcosa di più terribile, c’è qualcosa di più straziante? C’è qualcosa che stride di più con la cipria del conformismo? E allora avanti: tutti a chiedere di calare il sipario, di stendere un velo, di rispettare il riserbo. In fondo la battaglia è vinta, no? Il principio è stabilito: ora in Italia si può morire per legge. L’eutanasia è arrivata per via giudiziaria. Che altro si deve aggiungere? Niente. C’è una ragazza che muore, c’è una ragazza che viene uccisa, ma questo è un particolare. Non si deve dire» ( Mario Giordano, dir. Il Giornale)

 

Eluana ora appartiene a tutti e nessuno può impedirci di parlare, anzi ci costringe a pensare e ci interroga nei  meandri più segreti della coscienza. Possiamo rimanere in silenzio o ci vogliono ridurre al silenzio?

Quante famiglie hanno avuto il coraggio di curarsi simili malati in altri tempi in cui  le macchine non c’erano?.

Questa  l’esperienza di una famiglia che in parte abbiamo conosciuta. Emmanuel Mounier, sua Moglie Paulette Leclerq Mounier, la loro primogenita Françoise. Françoise, la figlia primogenita dei Mounier, nata nel marzo 1938, a sette mesi contrasse un male, in seguito ad una iniezione antivaiolosa, che lentamente degenerò in encefalite. Nella pri­mavera del 1940 bisognò arrendersi all’evidenza: la piccina, ormai incurabile, era destinata a vive­re, fino alla morte avvenuta nel luglio 1954, in una misteriosa notte dello spirito. Madame Mounier ci ha raccontato che  suo marito la puliva e preparava per la notte tutte le sere.

 

Forse ci può aiutare quanto Emmanuel Mounier ha annotato  nelle lettere e nel Diario

 

Lettera del 6 ottobre 1939 alla moglie Paulette;

  Mounier et sa géné­ration (Œuvres, Seuil, Paris 1963,  IV 641     

 

Tutto è possibile con i dati che avremo. Da una parte la fede mi appare come l’universo in cui non ci sono catastrofi. Laceramenti, tristezze, ma niente che possa darci l’angoscia dell’impotenza, dell’abbandono totale. E poi sappiamo che ogni prova non è tutta negativa (Chatenay non sarà realizzato, Françoise non sarà normale, ecc. ecc.) ma è un’offerta del Cristo che ci chiede dol­cemente: «Vuoi fare ancora di più, vuoi imparare un po’ di più l’amore, che la felicità ottunde?». Con tutto il mio cuore, con tutto il nostro cuore spero che Françoise sarà quello che noi vorremmo che sia, ma se Dio volesse altro, non sono sicuro che non troveremmo una più grande gioia spirituale a farla cammi­nare attraverso vie oscure che a farne una brava donnina qualunque.

 

Lettera del 3 marzo 1940 a Jéromine Martinaggi;

Mounier et sa gé­nération (Oeuvres IV 660).

 

      Non rallegratevi troppo in fretta. Dopo ho parlato con il dottore. E se l’evoluzione è piuttosto buona da novembre in poi, non è molto incorag­giante riguardo al problema dell’insieme. Il danno, per il fatto di essere diffuso e sornione, non gli sembra meno grave e profondo. E, certamente, lascia possi­bilità di ricupero di cui è impossibile, prima di un anno, fissare il limite… Ma dubita che possa mai raggiungere la normalità.

     Ecco. Una diagnosi medica è una diagnosi medica, lo so bene. E ci sono i miracoli segreti. Ma quando noi rifiutiamo ogni giorno il miracolo della santi­tà, l’unico che dipende da noi, perché mai dovremmo chiedere dei miracoli gra­tuiti? Bisogna senz’altro che partecipiamo alla permanenza della Passione sul tempo, su quegli uomini che incrocio per strada, sui burocrati intorno a me che mi esasperano, su questa mediocrità da cui mi lascio addentare, in modo diver­so da articoli o da «slanci generosi». Non so per chi lavori questo povero picco­lo volto annebbiato, questa piaga nel fianco che durerà forse anni e anni.

 

Lettera del 20 marzo 1940 alla moglie Paulette;

Mounier et sa géné­ration (Oeuvres IV 660-661).

 

            Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina non fosse altro che un frammento di carne sprofondato non si sa dove, un po’ di vita sinistrata, e non questa bianca piccola ostia che ci supera tutti, una infinità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo a faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse un’elevazione nuova che ogni volta, quando il nostro cuore comincia ad abituarsi, ad adattarsi al colpo precedente, è una nuova domanda d’amore. Tu ascolti questa povera piccola voce supplichevole di tutti i bambini martiri nel mondo e questo rimpianto di aver perduto la loro infanzia nel cuore di milioni di uomini che ci domandano, come un povero lungo il cammino: «Di­te, voi che avete il vostro amore, le mani piene di luce, vorrete dare ancora que­sto per noi».

     Se non facessimo che soffrire — subire, patire, sopportare — non terremmo e mancheremmo a ciò che ci è richiesto. Dalla mattina alla sera non pensiamo a questo male come a qualcosa che ci viene tolto ma come a qualcosa che noi diamo per non essere indegni di questo piccolo Cristo che è in mezzo a noi, per non lasciarlo solo a lavorare con il Cristo…

     Non voglio che perdiamo questi giorni, perché dimenticheremmo di pren­derli per quello che sono: giorni pieni di una grazia sconosciuta.

 

  Lettera dell’11 aprile 1940 alla moglie Paulette;

Mounier et sa géné­ration (Oeuvres IV 661-662).

 

     Sento come te una grande stanchezza e una grande calma insieme, e sento che il reale, il positivo è la calma, questo amore per la nostra bambina che si sta trasformando dolcemente in offerta, in una tenerezza che la supera, che parte da lei, torna su di lei, ci trasforma con lei; e che la stanchezza è solo il corpo che è così fragile per questa luce, e per tutto quello che in noi c’era di abitudinario, di «possessivo» con la nostra bambina che si spezza lentamente per un amore più bello…

     Non c’è altro da fare che essere forti il più possibile con la preghiera, l’amore, l’abbandono, la volontà di mantenere la gioia profonda del cuore.

 

 Lettera del 12 aprile 1940 alla moglie Paulette;

 Mounier et sa géné­ration (Oeuvres IV 662).

 

      Eccoci allo stesso bivio, poveri ragazzi deboli come sempre, le gambe stanche, il cuore stanco che piange. E la stessa mano si posa sulla nostra spalla, ci mostra tutta la miseria degli uomini, tutte le lacerazioni degli uomini, quelli che odiano, quelli che uccidono, quelli che sogghignano — e quelli che sono odiati, quelli che sono uccisi, quelli che sono deformati dalla vita — e tutta la durezza dei proprietari; e poi questa mano ci mostra la bambina piena delle no­stre immagini di futuro. E che non ci dice se lei ce lo prenderà, se ce lo restitui­rà, ma che, lasciandoci nell’incertezza, ci dice dolcemente: «Datemelo per lo­ro». E dolcemente, insieme, cuore a cuore, senza sapere se Egli lo terrà o se ce lo renderà, noi glielo diamo. Perché le nostre povere mani deboli e peccatrici non sono sufficienti per tenerlo, e soltanto se l’avremo messo nelle Sue mani avremo qualche possibilità di ritrovarlo, e siamo sicuri, in ogni caso, che quello che avverrà a partire da quel momento sarà buono.

     Eccoci nella nostra vera situazione di cristiani.

     È davvero bello essere cristiani per la forza e la gioia che questo offre al cuore, la trasfigurazione dell’amore, dell’amicizia, delle ore, della morte. E poi ci si dimentica della Croce e della notte di agonia nel giardino degli Ulivi.

 

Lettera del 17 aprile 1940 alla moglie Paulette;

 Mounier et sa géné­ration (Oeuvres IV 663).

 

     Vedi come ci amano. Ecco la lettera che mi manda il bravo François Perroux. Gli ho scritto in modo particolare perché ha una grande fedeltà a san Francesco (suo patrono) e un cuore traboccante di generosità.

     Lourdes, Lourdes? Sono ossessionato da questo nome da tre giorni. Avere il cuore abbastanza semplice per mettersi in comunione con tutti quelli che han­no creduto a Lourdes. Non fossi sotto le armi [in quel periodo stava prestando servizio militare, N.d.T.], credo che farei una follia, che la porterei a Lourdes per non ragionarci sopra, senza chiedere il miracolo materiale, ma per mettermi insieme agli altri e conoscere anche solo la gioia di riportarmi a casa un bambi­no sempre malato, la gioia di aver creduto alla gratuità della grazia di Dio (e non al suo automatismo terapeutico), la gioia di sapere che il miracolo non vie­ne rifiutato a chi l’accoglie in anticipo sotto tutte le sue forme, perfino sotto le sue forme invisibili, perfino sotto le sue forme di crocifissione, perfino forse a termine… Touchard ha ragione, sai: Françoise è tanto più presente che una ragazzina, graziosa e normale.

 

Lettera del 5 maggio 1940 a Jéromine Martinaggi;

 Mounier et sa génération (Oeuvres IV 664).

 

            L’ultimo atto è cominciato … La diagnosi si è richiusa. Raffica di encefalite, che lascerà la mia bambina così devastata che dobbiamo stringere i denti per non chiedere a Dio di riprendersela…

 

 

 

  Da Entretiens X (del 28 agosto 1940); 

Mounier et sa génération (Oeu­vres IV 670-672).

 

 Presenza di Françoise.

Storia della nostra piccola Françoise che sembra scivolare su giorni senza storia.

     Il primo tirocinio fu quello di superare la psicologia della disgrazia. Questo miracolo che un giorno si è spezzato, questa promessa su cui si è chiusa la porta leggera di un sorriso annullato, di uno sguardo distratto, di una mano senza pro­getti: no, non è possibile che sia un caso, un accidente. «Gli è capitata una gran­de disgrazia»: è capitato qualcuno, era grande e non è una disgrazia. Non ci siamo raccontati delle prediche. Non c’era che fare silenzio davanti a questo giovane mistero, che a poco a poco ci ha invaso con la sua gioia. Mi ricordo i miei arrivi in permesso a Dreux, ad Arcachon; l’ultimo con quanta angoscia… Mi sentivo avvicinare a quel piccolo letto senza voce come ad un altare, a qual­che luogo sacro in cui Dio parlava attraverso un segno. Una tristezza che mor­deva profonda, profonda, ma leggera e trasfigurata. E tutt’intorno a lei, non ho altra parola: un’adorazione. Sicuramente non ho mai conosciuto così intensa­mente lo stato di preghiera come quando la mia mano diceva delle cose a quella fronte che non rispondeva nulla, come quando i miei occhi si avventuravano verso quello sguardo distratto, che portava lontano, lontano dietro di me non so quale atto simile allo sguardo, e che guardava meglio di uno sguardo. Miste­ro, che può essere solo di bontà, bisogna osare dire: una grazia troppo pesante. Un’ostia vivente in mezzo a noi, muta come l’ostia, come lei raggiante. Rileg­gevo Bremond in questi ultimi giorni. Se ogni vera preghiera si innesta sulla morte delle potenze, sensibili, intellettuali, volitive, se la punta sottile dell’ani­ma del bambino battezzato, come scrive non so più quale autore spirituale, vie­ne messa nell’istante del battesimo in commercio diretto con la vita divina, quali splendori si nascondono in questo piccolo essere che non sa esprimere nulla agli uomini? Se doveva rimanere così, noi gli abbiamo augurato, per tanti mesi, di partire. Non è sentimentalismo borghese? Cosa vuol dire per lei: essere disgra­ziata? Chi può dire che lo sia? Chi sa se non ci venga chiesto di custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me anche l’immagine della fede. Quaggiù la conoscerete in enigma e come in uno specchio…

     … In questa storia la nostra «disgrazia» assumeva un’aria di evidenza, una familiarità rassicurante, o meglio, non è la parola giusta, impegnativa: un ap­pello che non apparteneva più alla fatalità.

     È venuta la guerra, che l’ha racchiusa nella grande miseria comune. Così immerso, il peso è diventato più leggero. La guerra ha dato a Paulette i momenti più atroci di solitudine e di angoscia, in settembre, in aprile. Ma, nonostante questi periodi, ha portato a termine la nostra guarigione dalla malattia di Françoise. Tanti innocenti lacerati, tanti innocenti calpestati; questa bimba immolata gior­no per giorno era forse la nostra presenza all’orrore del tempo. Non si può soltanto scrivere dei libri. Bisogna anche che la vita ci strappi periodicamente alla truffa del pensiero, il pensiero che vive sugli atti e sui meriti altrui.

     Ora che la minaccia di aprile è sventata, ora che appare che dobbiamo sop­portare insieme, Françoise, mia piccola bambina, avvertiamo una nuova storia intervenire nel nostro dialogo: resistere alle forme facili della pace segnata con il destino, restare tuo padre, tua madre, non abbandonarti alla nostra rassegna­zione, non abituarci alla tua assenza, al tuo miracolo; darti il tuo pane quotidia­no di amore e di presenza, proseguire la preghiera che tu sei, tenere viva la no­stra ferita perché questa ferita è la porta della presenza, restare con te.

     Forse ci devono invidiare questa paternità brancolante, questo dialogo ine­spresso, più bello dei giochi abituali.

 

Lettera del 12 novembre 1940 a Paul-Louis Landsberg;

Mounier et sa génération (Oeuvres IV 678-679).    

Ogni ora della vostra lotta [vicino a sua moglie internata] è la nostra lotta. Ogni ora di vostra pena è nostra pena. Credo che non ci sia peggiore osta­colo — peggior dolore — che un volto amato sfigurato. Questo piccolissimo fiocco di memoria che ci resta della nostra bambina viva è ancora prezioso al cuore di questa presenza assente che essa porta tra noi. Il suo volto distratto — è bella — ha sigillato su di lei un vetro come su un ricordo che appassirà a poco a poco. Ma questa pace non la tradisce. Il momento in cui l’abbiamo davvero perduta furono quelle giornate di Arcachon in cui, su un essere che non vedevamo, si posava un essere contorto, un adulto contorto: lo Straniero. Sapeste come vi se­guiamo con tutto il cuore, noi che abbiamo solo la disgrazia di perdere un futuro sconosciuto e non tutto un passato ancora fremente!

     E intorno al letto della nostra bambina che noi siamo con voi, in questa vita sconosciuta da tutti che conduciamo con lei, che ha i suoi avvenimenti come ogni altra vita, che è forse più ricca di un’esperienza paterna normale. Quando noi adoriamo, nonostante noi stessi, senza enfasi, il mistero di bontà che è pre­sente in questo sguardo bello e perduto, che non cerca più né gli oggetti né gli uomini, ecco è allora che la nostra fraternità con voi diventa più viva. È la pro­va della fede che noi subiamo: «E ora tu la conoscerai in enigma e come in uno specchio». Possa la vostra durare solo il tempo di una crisi dello spirito!

 

NB. Le traduzioni appartengono all’antologia pubblicata nel 1985 da Mario Montani con l’editore LDC,

i cui diritti mi sono stati gentilmente affidati da p. Montani prima di morire.