Due parole su Benedetto XVI: Umiltà e distacco

 

Giulia Paola Di Nicola

La prima cosa che mi ha colpito di questo Papa, già nel primo momento della elezione al pontificato, quando correva da una parte all’altra del globo la sua fama di Rottweiler e di puntiglioso applicatore delle regole del Sant’Uffizio, è stata l’umiltà.

E’ stato forse significativo il suo chiedere perdono per l’esplosione dei casi di pedofilia nella Chiesa, oppure  il suo fattivo e non plateale dialogo ecumenico o infine il silenzio sofferto con cui ha affrontato la presenza di un corvo tra coloro di cui si fidava? Aspetti nobili di una personalità forgiata alla fede, ma non decisivi ai mie occhi. 

Sono stati i piccoli gesti del ritrarsi, dello scusarsi quasi di venire e ricoprire un ruolo troppo magnificamente svolto dal suo predecessore, del ringraziare quasi sorpreso degli applausi (decisamente diverso rispetto a papa Giovanni Paolo II), del lasciare al suo interlocutore il primo posto nella relazione interpersonale, piccole inflessioni della voce e movimenti lenti e solenni del corpo che mi hanno rivelato la bellezza della sua anima.  Sembrava consapevole di portare attaccato alla sua pelle, in quanto tedesco,  l’orrore del nazismo compiuto dal popolo di cui si sentiva figlio, alla cui appartenenza, come Edith Stein per gli Ebrei, non voleva rinunciare e che lo aveva segnato come vittima e corresponsabile.

Appariva come uno che da anni ormai fosse morto a se stesso e facesse semplicemente quel  che gli veniva chiesto, obbedendo senza provarne il peso: “In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio ten­derai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (Giovanni 21,1-19).

Quella di Benedetto XVI è una forma di umiltà, frutto di una fede provata facendo giorno dopo giorno il proprio dovere e studiando, confrontandosi con la fatica della ricerca che ti costringe a constatare la povertà dei  mezzi a disposizione per raggiungere la verità e a prendere atto degli errori fatti e sempre possibili. Un atteggiamento da cui scaturisce una particolare sapienza, quella di cui Benedetto XVI  ci ha dato prova in questi anni, già a partire dalla bellissima Deus Charitas est.

Una seconda notazione riguarda le sue dimissioni, che hanno rinverdito il caso di Celestino V, Pietro da Morrone, l’eremita che fondò l’Ordine dei “Fratelli dello Spirito Santo”, i “Celestini”, approvato da Urbano IV, e vari eremi. Era stato eletto papa quasi ottantenne, dopo due anni di conclave, il 5 Luglio 1294 e venne incoronato – com’è noto – nella neonata città dell’Aquila, nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, dov’è sepolto. Frate santo e pio, si trovò di fronte ad interessi politico-economici troppo grandi, alle ingerenze di Carlo d’Angiò, alle commistioni tra gli apparati vaticani e il potere. Rinunziò dopo 5 mesi e morì due anni dopo in isolamento coatto nel castello di Fumone. Mentre Dante lo giudicò “colui che per viltade fece il gran rifiuto”,  Petrarca lo descrisse come un uomo di straordinaria fede e forza d’animo, esempio di umiltà e di buonsenso.

Ma è a Ignazio Silone, il grande narratore abruzzese del Novecento, che va il merito di aver ricostruito la storia e l’anima di Pier Celestino, difendendo la scelta pura e libera della sua coscienza. In Avventura di un povero cristiano si legge: «Come si può costringere  qualcuno a qualcosa contro cui la sua anima si  rifiuta?…La coscienza è al di sopra dell’ubbidienza”»[1]. E’ sempre il frate che nel confronto-scontro con Bonifacio VIII dice: «Abbiamo dimenticato che il cristianesimo ha avuto inizio dalla Croce… Cos’è diventata la croce  per i cristiani di oggi? Un oggetto ornamentale. Mi chiedo se veramente crediamo allo stesso Dio. Ogni tanto ne dubito»[2]. Celestino  non riesce a sopportare i compromessi della Chiesa fatti “a fin di bene”, convinto  com’è che, ridotto a ragionevolezza, il cristianesimo finisca col confondersi con la ricerca del potere, alla pari delle altre istituzioni terrene: «L’aspirazione a comandare, l’ossessione del potere è, a tutti i livelli, una forma di pazzia. Mangia l’anima…  La potenza non mi attira, la trovo anzi essenzialmente cattiva. Il comandamento cristiano che riassume tutti gli altri, è l’amore». 

A distanza di secoli, il Celestino di Petrarca e di Silone torna a noi da lontano, e arriva in un’epoca in cui tutto è spettacolo, visibilità, prestigio, luccichio superficiale di  TV nostrane che impazzano per il toto voto e in cui ciascuno fa il possibile per apparire  migliore di quel che è. Che testimonianza quella   di Benedetto di ritirarsi in Convento,  per vivere semplicemente di fede  e di comunità! Gli fa onore e fa onore alla Chiesa.  Ricorda che il pastore, l’unico Maestro è Cristo e tutti noi dal Papa in giù, siamo peccatori e servi inutili, che i ruoli che svolgiamo non danno la misura di ciò che siamo, anzi spesso   stravolgono il nostro essere, inducendo noi e gli altri a crederci potenti quando siamo solo arroganti.

Ci auguriamo che arrivi al Papa il grazie corale per tutto quello che ha fatto in questi anni, di cui il gesto delle dimissioni è il canto finale, il più bello. 

 

[1] APC, 590-593, passim.

[2] APC, 722-24.