Scuola e sofferenza in famiglia

Scuola e forme di sofferenza familiare

Giulia Paola Di Nicola

 

1. La sofferenza a tema

 

Temi considerati “privati”, come la felicitá e la sofferenza, di diritto non entrano negli obiettivi dell’istituzione e nei programmi scolastici con cui gli insegnanti debbono fare i conti. E’ relativamente recente il fatto stesso che la sofferenza divenga oggetto specifico di approfondimento negli studi accademici e nei convegni. Eppure, ogni istituzione si alimenta del buono stato delle persone che la compongono e la sofferenza colpisce ogni persona che viene al mondo, sia puntellando la vita “normale” con i tanti imprevisti, contrattempi, incomprensioni, sia irrompendo a sconvolgerla (malattie, crak finanziari e arretramenti nella carriera, incidenti, morti).

Come puó pensare la scuola di educare le nuove generazioni a prescindere dalle condizioni concrete in cui vivono? Infatti, ciascun alunno, poiché vive in relazione stretta con la sua famiglia, risente fin nelle fibre piu’ intime della sua psiche della sofferenza delle persone care: la sofferenza è sempre un evento relazionale, ossia personal–familiare.

 Non è possibile chiudere gli occhi sui problemi che i ragazzi volenti o nolenti si portano a scuola, come non è opportuno sottovalutarli ai loro occhi, sollecitandoli a far finta di niente. La memoria, come ha notato uno scrittore, è “sonnambula” e torna sulle ferite[1]. Ancora meno opportuno sarebbe incorrere nell’errore che fanno spesso i genitori, ossia fare l’impossibile per evitare ai ragazzi quelle sofferenze che la vita impone a ciascuno, pretendendo di proteggerli mettendoli in una campana di vetro.

 La scuola dovrebbe avere tra i suoi intenti la formazione integrale della persona, la quale matura e s’irrobustisce proprio grazie alla capacità di sopportare, affrontare, attraversare il dolore. Sembra che lo scacco di tanta parte delle nuove generazioni, la loro débacle di fronte alle dipendenze, va cercato proprio nella mancata educazione a ricercare la felicità senza scavalcare la sofferenza.  Il fatto che ogni persona, già a detta di Aristotele e dei primi filosofi, aspiri naturalmente alla felicità, che venga al mondo con un desiderio insopprimibile di realizzare bisogni e desideri, e che invece sperimenti la sofferenza e la morte, costituisce una contraddizione esistenziale inevitabile, anche se talvolta insopportabile, soprattutto in una cultura impegnata all’inverosimile nel cercare i mezzi per eliminare o almeno ridurre al minimo ogni forma di dolore.

Agli occhi degli osservatori la scuola generalmente si occupa soltanto della sofferenza straordinaria, legata agli eventi tragici e luttuosi, come una strage del sabato sera, quando le classi partecipano compatte con i loro professori e con i loro simboli identificativi ai funerali di un compagno e gli adolescenti solitamente chiassosi  appaiono tutti buoni, con i volti solcati dalle lacrime. La stessa scuola trascura peró la sofferenza ordinaria, legata alla esperienza vitale maturata nel proprio ambiente familiare. Un alunno in situazioni di sofferenza può reagire chiudendosi in se stesso, oppure adottando comportamenti trasgressivi, ma puó anche essere aiutato a prenderne atto e metabolizzarla. Dall’iniziale impatto può passare alla progressiva conquista di una impensata capacità di sopportazione, sino a promuovere in se stesso sentimenti di pazienza, di compassione, di più profonda sensibilità relazionale ed anche di robusta spiritualità. Cominciando dalle piccole-grandi sofferenze dell’infanzia s’impara col tempo a consumare interiormente il dolore, manifestando all’esterno solo il suo effetto positivo, come nel caso della nonna descritta da Silone: «conosceva l’arte di ingoiare amaro e sputare dolce»[2].

E’ indispensabile avere insegnanti non solo competenti nelle loro discipline, ma anche capaci di attenzione nel monitorare la sofferenza e di sensibilità umana e cristiana nell’accostare i ragazzi ed evitare di farli sentire diversi. E’ un problema di contenuti e di senso. Infatti, un insegnante dovrebbe consegnare ai suoi alunni  un orizzonte di senso che consenta loro di vedere nel dolore – come facevano gli antichi – un maestro di umanità e saggezza. Come dice Agamennone in Eschilo: «Mediante la sofferenza, la conoscenza»[3].

E’ possibile avere insegnanti di tale spessore, capaci di vedere nella sofferenza una risorsa preziosa che sostiene e orienta lo sviluppo della persona? Certamente non è questione confessionale. Come scrive S. Weil all’amico Antonio Atarés: «Accettare davvero la sofferenza, scoprendo la gioia attraverso la sofferenza, ha lo stesso pregio che fare una bella poesia o un’opera di filosofia o una scoperta scientifica, o una qualsiasi altra cosa del genere»[4].

 

2. Quali famiglie a disagio

 

Non è facile per l’insegnante riconoscere situazioni di sofferenza nascoste forse dietro facciate di spavalderia. Neanche è scontata la distinzione tra la normalità — inclusiva delle diverse condizioni di esistenza, di status e ruoli — e l’eccezionalità, quando cioè la sofferenza oltrepassa la soglia della sopportabilità. Infatti, se è relativamente semplice costruire una tipologia in rapporto alle variabili oggettive, bio-medi­che e socio economiche, molto più complesso è distinguere i confini della percezione soggettiva che varia secondo gli alunni e i loro contesti vitali. Vi sono  ragazzi con situazioni di sofferenza patente ed altri con situa­zioni negative più sfumate, percepite come insopportabili. Bisognerebbe pesare, nel groviglio delle concause, quanto incidono le diverse variabili inter­venienti, oggettive, culturali (modelli, stereotipi), soggettive (psiche, riferimenti valoriali, ideali). Perciò nel formulare una tipologia dei contesti familiari di disagio è opportuno non irrigidire la tassonomia, perché una grossa fetta potrebbe restarne esclusa[5].

A grandi linee gli insegnanti dovrebbero comunque riconoscere i segni della sofferenza sul volto e dai comportamenti dei ragazzi, distinguendo condizioni di sofferenza familiare acuta e patente (A) e situazioni di disagio “normale”(B).

A:

* Famiglie prive di reddito e di beni

* Famiglie relegate in territori poveri, con minori risorse di or­dine materiale, strut­turale e di conoscenze.

* Famiglie nelle quali i genitori sono fuori dal mercato del lavoro (disoccupati o pensionati) o ancora non vi entrano (inoccupati), e non sono perciò oggetto di attenzione politica (i vantaggi delle politiche sociali si cumulano all’interno del binomio mercato del lavoro/ politica sociale).

* Famiglie in cui uno o più componenti cadono nella devianza: furto, droga, pro­stituzione.

* Famiglie con carcerati.

* Famiglie di emigrati, immigrati e profughi che si spezzano e si ricostruiscono in terra straniera dopo anni di lontananza o che hanno generato nuove famiglie nel Paese di accoglienza.

* Coppie miste, con problemi di integrazione tra culture diverse, che si sforzano di offrire ai figli un patrimonio culturale comune, ma più spesso trasmettono una sola cultura dominante.

* Coppie di barboni, senza tetto, anziani sradicati,  no­madi e immigrati clan­de­stini, con forte coesione interna al gruppo di appartenenza, destinatari di in­terventi d’urgenza, che vivono fuori dal sistema e perciò sfuggono all’assistenza continuativa[6].

* Coppie nelle quali il conflitto, spesso suscitato da ossessioni di gelosia, esplode frequentemente in forme violente (Il 67% delle denuncie a Telefono Rosa è contro il marito), occultate per pudore ma percepite dai figli, e che nei casi piu’ gravi alla morte, con effetti devastanti sui figli.

* Famiglie in cui i figli sono oggetto di sfruttamento sessuale. Non poche devianze adolescenziali sono legate ad abusi sessuali su minori che finiscono poi nella prostituzione o nella crimi­nalità. Le grandi città sono anche le capitali di violenze e sevizie sofferte in silenzio, raramente denunciate, di cui i dati ufficiali sono solo la punta dell\’iceberg.

 

B.

* Coppie premature e fragili (in cui uno o entrambi i co­niugi si sono sposati da adolescenti). Come mini genitori, questi giovani sposi risultano più impazienti, meno affettuosi, ricorrono alle punizioni fisiche più facil­mente[7].

* Coppie il cui linguaggio feriale è dominato dal conflitto che inquina il clima familiare con microvio­lenze quotidiane (quali: rimproverare, umiliare, offendere, omettere di aiutare…).

* Famiglie separate, in cui uno dei due vive la condizione monogenitoriale e fatica a crescere i figli da solo.

 * Famiglie ricostruite, i cui  problemi spesso si moltiplicano anziché risolversi, a causa della complessità della rete parentale[8].

* Famiglie che subiscono le tensioni da iniquità, ossia il venir meno di uno status rassicurante e della protezione socio–sanitaria e previdenziale già garantita dallo Stato (per la riforma dello Stato sociale o per un processo di mobilità discendente nella scala sociale).

* Famiglie che, pur avendo il necessario, sono po­vere di umanità e di cultura. Possono essere dominate dall’ansia,  dal legame ossessivo alla tradizione, dalla concentrazione delle energie at­torno al patrimonio o all’impegno lavorativo, con forte riduzione del tempo libero. Gli insegnanti non possono dimenticare durante le lezioni che secondo l\’ ISTAT solo il 40% della popolazione italiana si può consentire cinema, teatro, concerto, libri.

* Famiglie con bisogni inappagati di socializzazione, perché prive di reti parentali e amicali (per far fronte a questa domanda è nata la nuova figura dell\’animatore di rete).

* Famiglie che pur vivendo a contatto con gli altri, sperimentano il disagio relazionale, ossia l’incapacità di stabilire rapporti significativi all’esterno.  Ha scritto E. Mounier: «Quando l’altro diventa alienus, io di­vento estraneo a me stesso, alienato e alla fine perdo me stesso»[9]. Infatti quando si spegne il gusto della destinazione interpersonale dell’esi­stenza, è in qualche modo la vita stessa che perde senso, minacciata da una depressione che si riversa a cascata su tutti membri della famiglia e al di fuori di essa.

* Famiglie nelle quali un torto subito da un componente crea inimicizie e coinvolge tutti, comprese le istituzioni: la scuola può diventare nemica del bambino, magari a causa dell’insegnante che ha reso antipatica la matematica o l’epica, il lavoro può risultare insopportabile a causa del collega che ti fa mobbing, la Chiesa nemica a causa di quel prete… L’ostilitá puó estendersi sino a vedere nemico il mondo intero.

* Famiglie che reprimono a stento drammi legati ad una cattiva concezione della sessualità. I figli, non solo  tra le fasce più povere ma anche tra persone al di sopra di ogni sospetto, vengono indirizzati e resi dipendenti rispetto ad un clima di esaspe­rato erotismo.

*  Famiglie incapaci di far fronte al cambiamento  in ordine all\’uguale responsabilità di cura da parte dei coniugi, al diritto di entrambi al lavoro, all’obbligo della fedeltà. I figli riflettono la crisi delle identità maschili e femminili e manifestano disagio rispetto ai nuovi modelli di partenariato.

* Famiglie imbrigliate nel passato, che si trascinano traumi legati ad un qualche evento doloroso e sono incapaci di andare oltre (si pensi alla diffusione della sindrome postpartum o alla difficoltà di elaborare un lutto).

* Famiglie dominate dallo stress, per l’eccessivo lavoro (doppio, triplo) o per la presenza di figli numerosi cui non corrispondono adeguati aiuti da parte della comunità e dello Stato. Manca il tempo per confrontarsi ed essere realmente una famiglia, essendo esso assorbito dalla cura, dal lavoro, dai tempi morti della burocrazia. Lo stress produce irritabilitá nei rapporti interpersonali e  contribuisce allo sfaldamento dei legami. Vi sono collegate degenerazioni quali: malattie mentali, se­parazioni, aborti, al­col e tossicodipendenza, fenomeni di criminalitá.

* Famiglie con malati al loro interno, che condizionano la riformulazione dei ritmi di vita di tutti i componenti del  nucleo. Vi sono comprese le malattie legate alla depressione, al senso di persecuzione, all\’insicurezza. Se ciò si verifica  in un solo componente della coppia, l\’altro è costretto ad un surplus di impegno che può divenire sfibrante e mettere di fronte all’alternativa: eroismo o ab­bandono.

* Famiglie escluse dal circuito delle reti di comuni­cazione tecnologica (digital divide) o che vivono al loro stesso interno un gap tra figli e genitori.

* Coppie ossessionate dai figli, ancor più se figli unici, incapaci di dirigere la loro vita verso progetti  che non siano centrati sull’ossessione genitoriale e di dare ai figli il gusto dell’autonomia e della creatività personale.

* Famiglie che vivono le tensioni da  “famiglia lunga”, con giovani adulti in casa fino a 35-40 anni, che non possono permettersi o  non si decidono a fondare una loro famiglia e procrastinano all\’infinito il “sì”.

* Coppie assorbite dalla dimensione materialistica dell\’esistenza e indifferenti ai valori spirituali, che non sono in grado di trasmettere ai figli obiettivi “alti”. In alcuni casi i ragazzi possono sviluppare una spiritualità alternativa e forse in­cappare nella rete spesso soffocante delle sette e dei surrogati della religione.

 

Considerazioni

Senza irrigidire le tipologie, ciò che fa problema è che spesso le famiglie, sentendosi prive dello slancio necessario a reagire alle con­dizioni sfavorevoli, si abbandonano ad una frustrante rassegnazione, alla depressione,  alla violenza, alla dissoluzione del progetto familiare, tutte patologie che i figli pagano amaramente e con cui la scuola impara ogni giorno di piu’ a prendere atto per  poter svolgere il suo compito educativo.

Le ragioni oggettive e soggettive della sofferenza s’intrecciano con la stigmatizzazione sociale da cui la scuola non è esente: stereotipi, pregiudizi, discrimina­zioni. Le variabili negative tendono a cumularsi. Più un ragazzo è o si sente vittima della sofferenza, piu’ rischia di cadere in una sorta di  spirale per­versa, in cui ciascun elemento trascina gli altri, contribuendo alla caduta: dall’isolamento alle condizioni di salute, all’alcoolismo, alla piccola criminalitá, all’abbandono scolastico…

La correlazione tra sofferenza, sfaldamento della famiglia e disorientamento dei figli non è automatica:  le più patenti condizioni di disagio possono istillare nei ragazzi una volontá di reagire che mette in circuito risorse alterna­tive. Un insegnante può impegnarsi se è convinto che la cura  – intelligenza e amore –  può ribaltare le condizioni più sfavorevoli, innestando fattori di compensazione attraverso il lavoro che sa stimolare curiosità e interessi, rafforzare il carattere, sollecitare la comprensione e la solidarietà dei compagni e dei colleghi, scoprire e valorizzare talenti nascosti, interagire e se necessario intervenire sulle famiglie, attraverso i servizi alle famiglie e tramite le autorità competenti.  In ogni caso occorrono  insegnanti che dispongano di qualità umane e valoriali per mettere in circolo risorse alternative positive.


[1] Rimando a G. P. Di Nicola- A. Danese, Perdono…    per   dono, Effatá, Torno 2006.

[2] Cf I. Silone, Il seme sotto la neve, in Romanzi e Saggi, I, Mondadori, Milano 1998, 515-1013, 521.

[3] Giove viene visto come un pedagogo che insegna la sapienza ai mortali tramite le esperienze dolorose: «Giove sommo i mortali a sapienza scorge, ponendo scuola i mali»   Eschilo, Agamennone, vv. 175-177, in Le tragedie, Orsa Maggiore, Vicenza  1989.

[4] Lettera s. d. collocata nel  1942, CSW, 3 (1984), cit., 215. «Gioia e dolore sono doni ugualmente preziosi, che bisogna gustare a fondo, ciascuno nella sua purezza, senza volerli mescolare…Quando si presentano, bisogna aprire loro tutta la nostra anima, come si apre la porta al messaggero di una persona amata. Che cosa importa a una donna che ama se il messaggero che le porta un messaggio è rozzo o cortese?» AD, 137-138.

[5] Cf Aa. Vv., Famiglie in difficoltà tra rischio e risorse, Milano 1992.

[6] Dai dati del Rapporto sulle povertà estreme  risulta che i barboni stanno mutando caratteristiche: sono più giovani (il 61% ha meno di 44 anni) e sono aumentate le donne (il 23,3%. A Catania il 20% sono ragazze madri che hanno subito violenza). Quanto ai nomadi, fanno registrare un forte desiderio di cambiamento sia verso il lavoro (il 75,7% desidera un lavoro stabile), che verso la dimora stabile (il 60,8%). Generalmente sono giovani (il 58% ha meno di 34 anni), con un livello di sco­larità basso (l\’80% non ha titolo di studio e il 35% è analfabeta).

[7] Cf C. A. Moro, Erode fra noi, Milano 1988, 50-51. Le famiglie premature (in cui i coniugi o uno dei due si è sposato da adolescente) risultano particolarmente fragili, dal momento che tutte le ricerche statistico-demografiche ne confermano la facile disintegra­zione. Sembra che i mini genitori siano più impazienti, meno affettuosi, ricorrano alle punizioni fisiche più facilmente. Secondo una indagine riportata da Mion, una madre su tre e due padri su tre mostrano un bassissimo livello di tolleranza verso il figlio che piange, evidenziano segni di frustrazione, privano i figli dei sostegni psicologici di cui hanno bisogno, sono meno capaci di affrontare le difficoltà dei rapporti con l\’ambiente (cf R. MION, Famiglie premature e ciclo di vita familiare, in «Bambino incompiuto»,  1 [1988], 40 ss).

[8] Dai dati Istat 1996, relativi al 1995, risultano 600.000 coppie ricostituite in seguito alla rottura di una precedente unione (separazione, divorzio, vedovanza). 

[9] E. Mounier, Le personnalisme, in Oeuvres, cit., t. III, 453. Fa eco Bellino: «L’uomo tanto più si umana e ri­trova la sua identità, quanto più vince l’avarizia dell’individualismo de­possedendosi e perdendosi nell’altro. È dalla solidarietà che nasce la vera tolleranza, che consiste, come vuole il suo etimo (da tollo), nel portare sopra sé i pesi dell’altro» (F. Bellino, L’etica della solidarietà e la società complessa, Bari 1988, 234).