Il problema della crisi è antropologico

«Una crisi – dice Hannah Arendt − ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che  la crisi stessa costituisce» (H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 229).

Recita il documento di CL: « Che lo si voglia o no, la crisi esiste. E sta cambiando le condizioni di vita di milioni di persone, in molti Paesi, di sicuro in Italia: aumentano i poveri, sempre più aziende chiudono, si rischia di essere tagliati fuori dallo sviluppo mondiale, declassati a Paese di serie B».

Siamo  testimoni di una nuova crisi totale di civiltà, che non riguarda soltanto lo spread e  le classifiche di Rating, ma principalmente un insieme di componenti politico-sociali, morali, filosofiche, finanche religiose. Ci troviamo  dinanzi ad una crisi profonda, una crisi che investe i valori morali e spirituali, che coinvolge la perdita del senso di comunità umana.

L’etimologia della parola “crisi”,  richiama la dimensione del “separare”, del “valutare” e del “giudicare”. Pertanto la situazione di crisi  può essere un’occasione per “verificare se i valori posti a fondamento del vivere sociale abbiano generato una società più giusta, equa e solidale”, oppure se sia necessario “recuperare valori che sono alla base di un vero rinnovamento della società”, ai fini non solo di una ripresa economica ma per il “bene integrale della persona”.

Sulla scorta della nostra realtà ontologica, la crisi può e deve essere un momento privilegiato in grado di scuoterci, ponendoci profondi interrogativi sul senso della nostra esistenza, sul senso dell’economia e della politica, il valore di mediazione del denaro e le condizioni reali di equilibrio della società.  

La crisi è anche economico finanziaria, così come viene trattata dalla maggior parte degli economisti, dei politici, dei governanti e, soprattutto, degli uomini d’affari, ma tale visione si basa sul falso postulato della supremazia del mercato, entità astratta e indistinta al di sopra di qualsivoglia valore antropologico.

 Sono le fredde e impersonali astrazioni numeriche della Borsa Valori e dei grafici statistici che generalmente guidano gli affari nel cosiddetto “mercato dei capitali”.

C’è un aggravante: Standard & Poor’s e Moody’s, le maggiori società di rating del mondo, che con un downgrade possono scatenare reazioni a catena nei mercati e portare a scelte politiche con pesanti effetti economici e sociali, sono controllate dagli stessi grandi investitori che non esitano ad attaccare Stati e imprese quando si diffondono anche solo voci su possibili tagli dei rating[1].   

La crisi come dice Benedetto XVI affonda le sue radici in un “individualismo che oscura la dimensione relazionale dell’uomo”, rinchiudendolo “nel proprio piccolo mondo”. Conseguenza di questa mentalità sono tanti elementi di disagio per tutta la popolazione, in particolare le fasce più giovani e quelle più anziane.

2. Possiamo azzardare  un paragone con la crisi del ’29?

 

Il crack della Borsa Valori di New York del ‘29 rappresentò l’incipit della Grande Depressione che provocò la grave crisi economica che si sarebbe poi prolungata durante gli anni Trenta nel mondo intero, sfociando nella Seconda Guerra Mondiale. Alla stessa maniera, la crisi cominciata in America nel 2008,  con il fallimento dei grandi istituti di credito americani come Lehman Brothers, ha dato il là ad una vera e propria catastrofe planetaria. Leggendo nelle banconote del dollaro In God we trust, cosa pensare dell’abuso del nome di Dio?

Tra le due crisi del 1929 e del 2008-11 possono scorgersi profonde similitudini.  Celso Vegro, per esempio, commentando il libro Il grande crollo di Galbraith, compie la seguente  comparazione: “Il parallelismo con i tempi attuali è praticamente spaventoso. L’ammontare delle perdite è oggi immensamente maggiore di quanto avvenuto nel 1929, ma i meccanismi e i fattori che condussero al collasso di allora sono molto simili a quelli che adesso, attoniti, osserviamo”[2].

Dinanzi a questo quadro, la crisi del 2008/2011 ci interroga insistentemente sulla lezione che da essa possiamo ricavarne, valutando quanto le radici strutturali della società che abbiamo creato nella modernità spieghino questi ed altri avvenimenti nei più disparati campi dell’attività umana.

Ora,  il processo di globalizzazione è andato costruendosi sulla scia di un modello economico e politico-sociale ispirato principalmente alla ricerca del lucro e delle opportunità di accumulazione di capitale come fine assoluto, attraverso il controllo dei mercati e delle aree strategiche. A tal proposito, l’osservazione di Galbraith concernente la finanza è paradigmatica: “Le persone possono diventare ricche senza lavorare”.

A tal proposito il Santo Padre nel Discorso agli Ambasciatori  accreditati in Vaticano ha citato “la speculazione nelle locazioni, l’inserimento sempre più faticoso nel mondo del lavoro per i giovani, la solitudine di tanti anziani, l’anonimato che caratterizza spesso la vita nei quartieri delle città e lo sguardo a volte superficiale sulle situazioni di emarginazione e di povertà”.

Storicamente, dopo il 1929, l’appellarsi allo Stato è sempre stato uno strumento per ricomporre le condizioni di funzionamento del mercato. Nuovamente assistiamo al triste spettacolo dello Stato che corre in soccorso delle banche e delle grandi case automobilistiche, dando la stura alla socializzazione delle perdite dopo che queste ultime hanno proceduto a privatizzare i guadagni.

Abbiamo visto più di una volta come e quanto il senso di responsabilità sociale di certi gruppi finanziari nei confronti della collettività sia stato praticamente nullo. Il silenzio degli stessi ha dimostrato più di una volta il grado di insensibilità di fronte ai drammi della disoccupazione, della fame e di tutti i tipi di angustie delle quali sono vittime moltitudini di persone e comunità indifese anche nella nostra Italia.

Gli intellettuali del dopo  1929 portarono avanti  un’aspra critica di quello che avevano denominato “disordine istituito” (le désordre établi), ossia il dominio del “regno del denaro”, dello “spirito borghese” e dell’“individualismo” nelle loro variegate sfaccettature.

       “Per quanto razionale sia una struttura economica basata sul disprezzo delle esigenze delle persone, essa contiene in sé i germi della sua stessa condanna”[3].

È esattamente a tale triste spettacolo che stiamo assistendo con l’esplosione della recente crisi, quello cioè di una economia fondata esclusivamente sul lucro facile del “potere anonimo del denaro” senza alcun rapporto con l’economia reale  delle persone, delle aziende e dei lavoratori.  

  Risulta sempre  di grande attualità il giudizio di Ch. Péguy,

    “La rivoluzione sarà morale o non sarà”[4].

A partire da questa affermazione, è bene insistere sul fatto che la crisi che sta colpendo l’umanità sfida i pensatori, principalmente i filosofi, a scandagliare alla ricerca di soluzioni più confacenti alla dignità di tutti gli esseri umani.

Ancora Benedetto XVI al Corpo diplomatico del 9 gennaio scorso:  la crisi,   “può e deve essere uno sprone a riflettere sull’esistenza umana e sull’importanza della sua dimensione etica, prima ancora che sui meccanismi che governano la vita economica: non soltanto per cercare di arginare le perdite individuali o delle economie nazionali, ma per darci nuove regole che assicurino a tutti la possibilità di vivere dignitosamente e di sviluppare le proprie capacità a beneficio dell’intera comunità”.

Lo fece anche la crisi del ’29 e non a caso in quella crisi di civiltà si ricominciò col difendere e diffondere il senso  della dignità della persona umana con la nascita della rivista “Esprit” e con la filosofia personalista.

Piste di approfondimento positivo

 

La realtà è positiva.

Ha commentato Julian Carron nell’incontro di Roma del 4 novembre scorso : «Quello che più colpisce è che questa positività della realtà il popolo d’Israele l’ha veramente compresa proprio nel momento della crisi. Con la perdita del tempio, della monarchia e della terra, andando in esilio, Israele è stato spogliato di tutto quanto identificava come il fondamento della sua fede.  

 Sembra loro di essere stati abbandonati, “trascurati”, appunto, da quel Dio che li aveva scelti. Per rispondere a questa domanda Israele è stato costretto a trovare un fondamento ancora più saldo. È Isaia che Dio manda in soccorso del suo popolo per aiutarlo a guardare bene la realtà che ha davanti: «Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato tali cose? [cioè le acque del mare, l’immensità dei cieli, la polvere della terra e le montagne]. […] Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, che ha creato i confini della terra» (Is 40, 12s.26-28).

Quando tutto crolla, c’è qualcosa che permane: la realtà e gli occhi educati per guardarla.

Ma l’irriducibile positività di cui parliamo non si rivela meccanicamente, bensì solo a
chi accetta la sfida della realtà, a chi prende sul serio le sue domande, a chi non retrocede davanti alle urgenze del vivere.

 Solo chi accetta una simile sfida potrà trovare delle ragioni adeguate da dare a se stesso e agli altri per affrontare la crisi. Quante testimonianze ci sono di persone per le quali le difficoltà sono diventate occasioni di cambiamento! Questa è la grandezza dell’io che dobbiamo brandire di fronte alla crisi; altrimenti siamo già sconfitti, anche se si risolve la situazione finanziaria, sconfitti nella nostra persona perché abbiamo accettato di essere un pezzo dell’ingranaggio delle circostanze. Per quante persone situazioni di sofferenza hanno reso possibile il riscatto da una vita piatta, quanti frutti inaspettati e sorprendenti nati da dolori accettati o da sconfitte da cui ci si è lasciati mettere in questione!

 La realtà guardata come positiva  ha al suo centro l’esperienza del limite, del negativo,   della crisi in senso generale. Passa per l’irrazionale, l’assurdo, l’insuccesso, della vita feriale non per quella della pienezza e della «gloria dell’essere». Proprio a causa di tali situazioni, che appaiono tragiche e senza senso,  gli esistenzialisti parlano di «irrazionalità, assurdità brutale», dell’essere “gettati” nel mondo.

 Per il personalismo cristiano si tratta invece di provocazioni che sollecitano ad andare oltre l’esperienza acquisita, le verità raggiunte e, nell’impossibilità di controllare i processi del vivere e del conoscere, aprono il varco ad una nuova e diversa esperienza dell’Essere.

Tali situazioni scriveva Mounier “mi mettono in contatto con un senso oscuro del mondo che non può essere oggetto della coscienza, benché sia avvertito nello stesso scacco, come trasfigurante l’insuccesso. In questa prossimità ostile che è l’arresto del limite, si rivela l’assoluto lontano, inabbordabile come presenza segreta della notte,  Deus absconditus … il limite così vibrante al bordo dell’azione non chiama all’arresto, ma al salto, all’avventura, alla scommessa”[5].

La crisi, quindi la inconfutabile sconfitta della mentalità ingenuamente ottimistica spinge o a rassegnarsi o a combattere sapendo che attraversando il negativo  ci si scopre generatori di nuova vita.

La società di oggi richiede infatti  locomotive trai­nanti, capaci di rimuo­vere ciò che è statico e di trasformare l’impersonalità delle strutture in foco­lai di relazioni. Ciò comporta la necessità di riconoscere l’inevitabilità dei momenti negativi e di viverli come risorsa (potenza del negativo), ossia come invito a pas­sare dal non essere della relazione (solitudine, in­comprensione, assenza d’amore) all’essere[6].

 In quale direzione?

Scriveva  Giovanni Paolo II nella Laborem exercens: «Nell’insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l’ordine socio-etico del lavoro umano» (L.E., 10).     «Si rende, pertanto, necessario ricuperare da parte di tutti la coscienza del primato dei valori ..della persona umana come tale»[7].

I risvolti economici di una antropologia della persona 

L’essere a favore o meno della persona non è  questione di apparte­nenza a schieramenti politici o sindacali, ma è la risposta che ciascuno dà al suo esistere; è de­cidere di stare o meno dalla parte dell’uomo. L’essere per la persona  denuncia e rivela l’immagine nasco­sta sotto le ideologie e le teorie e costringe i discorsi sull ‘ uomo a tra­dursi in azione per  l’uomo.

Questa realtà ci richiama alla radice del termine persona e ci conduce ad una interpretazione antropologica del movimento di personalizzazione utile per riconquistare spazi di libertà e di speranza di futuro.   La lettura etimologica del termina persona ci riporta alla maschera o al danzatore mascherato[8].  La maschera esprime  l’essere persona in quanto la si diventa, a partire dallo sforzo di comunicarsi con qualcun altro. Tale conquista sempre nuova e faticosa non può ottenersi che cercando insieme di comprendere cosa significhi essere persona. 

 La persona non è riducibile ad appartenenze, sia pure cristiane; si può dire che la cultura dell’umanesimo con­temporaneo va naturalmente verso un personalismo che rivendica il primato di una dignità infinita, di una presenza misteriosa e sacra nel soggetto umano[9]

 

Che significa questo per uscire dalla crisi?

Innanzitutto significa guardare la realtà economica con  uno sguardo “altro”.

Senza angosce o paure del futuro, senza rassegnazione, ma consapevoli che  ogni persona può intraprendere creativamente  per il bene di tutti.

Allora  anche la politica può investire di più sulle energie creative del nostro paese, sui giovani elargendo  prestiti sulla fiducia, con  valorizzazione dei progetti innovativi, senza rassegnarsi a vedere i migliori cervelli  emigrare altrove.

Da parte della persona imprenditore investire  sulla fiducia vuol dire, pur tra mille ostacoli  che potrebbero indurre a chiudere, accet­tare la sfida del cambiamento e creando occupazione aumentando il fatturato.

  • Recita il documento:« offrire le necessarie opportunità ai giovani capaci e meritevoli, affinché l’Italia non diventi un Paese per vecchi;
  • aiutare selettivamente le imprese che investono, creano occupazione ed esportano, elimi­nando lacci, laccioli e aiuti clientelari che non producono alcuno sviluppo». Così ha scritto Flavio Felice nell’ultimo editoriale di PP:

“Il passaggio da un’economia chiusa ad un’economia aperta, in grado di generare opportunità per tutti e di premiare sia i meriti individuali sia la capacità dei singoli di cooperare per il bene comune richiede un definitivo approdo verso una forma di società aperta, caratterizzata da un’ampia mobilità sociale e da una maggiore impronta meritocratica. Anche di queste riforme strutturali l’Italia ha bisogno per liberarsi definitivamente da una cultura politica, economica e sociale riluttante all’idea di mercato e di concorrenza”[10].

 

I risvolti economici di una antropologia relazionale[11]

La persona fa riferi­mento ad un esistere per e con l’essere, a cui rimanda e nel dialogo col quale vuole sentirsi realizzata.

Su una antropologia della reciprocità si radica la concezione di tutta la società  come interrelazione di individui nella interazione delle loro attività operative e cultu­rali. In quanto interrelazione simbolico-esistenziale  che dà senso alla realtà empirica, le so­cietà sono, oggettivamente, interindividuali.

La centralità dei rapporti in tutta la realtà creata, l’essere-per di ciascuna cosa e ciascuna persona,  faceva scrivere a Simone Weil: «Noi non abbiamo dentro di noi e intorno a noi che rapporti. Nella semitenebra in cui siamo immersi tutto per noi è rapporto, così come nella luce della realtà tutto è in sé mediazione divina. Il rapporto è la mediazione divina intra­vista nelle nostre tenebre»[12].

Sul piano economico occorre rileggere il concetto di reciprocità che non può essere solo scambio di doni. Scrive Luigino Bruni:

Per Aristotile « la reciprocità, l’antipeponthós, nell’Etica Nicomachea (1132 b 21) era il «legame sociale», ciò che tiene assieme la vita della polis, una reciprocità che nella sua visione si estende dalle relazioni di mercato fino all’amicizia (philía) di virtù. Anche la parola latina reciprocus etimologicamente deriva da recus (indietro) + procus (avanti): ciò che viene e che va, che parte e che torna vicendevolmente. La reciprocità quindi è molto più del solo scambio di doni, che certamente è una forma di reciprocità, ma non l’unica»[13].

La relazione reciproca convoca  infatti nella dialettica economica la gratuità come elemento per riformare l’economia e  rilanciare la sfida alla crisi. Infatti, se la dimensione tipica dell’umano è la sua apertura al dono-gratuità, e se l’economia è attività umana, allora un’economia autenticamente umana non può prescindere dalla gratuità[14].
Commenta ancora Bruni:«Se l’economia è attività umana, non è mai eticamente e antropologicamente neutrale: o costruisce rapporti di giustizia e di caritas, o li distrugge. Non esiste un’altra alternativa. Da tale prospettiva il mercato è allora richiamato alla sua vocazione originaria, spesso tradita, di inclusione sociale, presente anche nella riflessione di Adam Smith e degli economisti classici, dove il contratto è sussidiario alla autentica promozione umana e al bene comune. Quando l’economia e la società perdono il rapporto con la gratuità, finiscono per smarrire il contatto con l’umano nella sua interezza e andranno perse le vocazioni — ogni vocazione è esperienza di gratuità —, comprese quelle artistiche, scientifiche e imprenditoriali, per ritrovarsi in un mondo nel quale, parafrasando Oscar Wilde, conosceremo con sempre maggiore precisione il prezzo di ogni cosa, ma il valore di nulla»[15]

 

Il sentiero della Speranza

 

Di fronte alla crisi questi argomenti sembrano impallidire, ma è ancora un compito antropologico quello di rianimare e riaccendere  la speranza. In questa direzione giova riprendere  il sentiero  ricoeuriano della speranza contro ogni speranza:   «  Proporrei di girare attorno alla coppia amore/giustizia… fino a che punto lo straordinario dell’amore può penetrare lentamente l’ordinario della giustizia?…Spero che ci siano sempre poeti che dicano l’amore poeticamente; esseri eccezionali che gli rendano testimonianza poeticamente; ma anche orecchie comuni che ascoltino e tentino di metterlo in pratica»[16].

 Ma questo che significa sul piano pratico per uscire dalla crisi?

Ci soccorre uno studio  di Paolo Fichera dove si legge: « l’economia è anzitutto “norma della casa”, della casa dell’umanità dove la dimensione relazionale è l’essenza stessa della convivenza. ..

Se un effetto positivo è venuto dall’attuale crisi, è stato quello di far comprendere che non bastano interventi tecnici, pur necessari, se non si tiene conto della dimensione relazionale dell’economia».

E più oltre: « La prospettiva relazionale porta con sé una visione personalista…, segnalando come soltanto il recupero di atteggiamenti tipicamente umani e sociali, creerà una nuova società e una nuova economia: il “dono”, la benevolenza, l’amicizia civile, considerate estranee al gioco economico, sono comprese adesso come necessarie perché una società non è un “campo neutro” in cui i giocatori non si conoscono. Anche in economia, non si ha a che fare con un anonimo “cliente”, ma con un “volto” da incontrare»[17].

Umanesimo familiare per la società

Recita il documento: «È un invito a guardare la crisi come opportunità: essa, infatti, costringe a rendersi conto del va­lore di cose a cui non si pensa finché non vengono meno: per esempio, la famiglia, l’educazione, il lavoro… Allora la strada per attraversare – e per non subire da rassegnati – la crisi è vivere la realtà come una provocazione che ridesta il desiderio e la domanda che, per quanto riguarda l’Italia, significa anche ingegno, conoscenza, creatività, forza di aggregazione. Questi tentativi mostrano la risposta all’unica domanda che nessuno sembra affrontare: da che cosa può rinascere la crescita, da che cosa si può ricreare la ricchezza dell’Italia?».

Torniamo alla storia e leggiamo il dopo ’29, ossia l’uscita da quella che fu davvero una “Grande Depressione”, non solo economica ma soprattutto umana per le conseguenze di disoccupazione, di povertà, di grandi difficoltà per le famiglie, non derivò soltanto dai provvedimenti legislativi che, pur con i loro limiti, furono necessari.  Ma si verificò, con tutti i limiti del caso, il coinvolgimento da parte della classe politica di tutto un popolo che riacquistò fiducia in se stesso anche perché veniva fatto partecipe di quanto veniva stabilito. Le famose “conversazioni al caminetto” di Roosevelt non furono, in quest’ottica, soltanto un’operazione propagandistica. Egli capì che si trovava dinanzi ad una crisi di fiducia, e che bisognava ridare fiducia soprattutto a chi si sentiva duramente e ingiustamente colpito dal ciclone economico, “The Great Crash “ appunto[18].

Per andare alla radice della riscoperta della fiducia,  per ritornare sui buoni sentieri della convivenza solidale e giusta e per fare della crisi una pedana di lancio è necessario lasciarsi provocare da un nuovo modo di considerare i rapporti umani,  l’ umanesimo familiare che la Familiaris Consortio   già nel 1981 esortava a costruire (“un autentico umanesimo familiare” e con alcuni valori privilegiati)[19] .

Rilanciare la famiglia allora appare l’ultima spiaggia per  superare la crisi. I giovani hanno paura e non si sposano. Le giovani coppie hanno paura del futuro e  non fanno figli.  Affermava nel ’33 Roosevelt nel suo appello alla nazione, è «l’irragionevole ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari per convertire la ritirata in progresso».

I giovani dove potrebbero respirare quell’ambiente umano essenziale e alternativo, che  libera la persona dall’angoscia della pura negoziazione, dal freddo calcolo dei vantaggi, della competizione ad oltranza, della lotta senza quartiere,  dalla valutazione asettica e razionale della realtà, dall’invadenza dello Stato? La donna e l’uomo che si amano e si apprestano a fondare una famiglia devono sentire tutta la dignità e la responsabilità di essere effettivamente fondatori e rifondatori perenni del legame di socialità umana con frutti inediti a raggiera, dall’ambito privato della vita personale e familiare, ai riverberi nell’impegno nella comunità, nel lavoro, nelle istituzioni della politica e della religione.

            È dalla coppia che bisogna ripartire per un umanesimo che non voglia fermarsi all’analisi delle relazioni sistemiche, delle logiche economiche e finanziarie basate sulla comunicazione e sul linguaggio astrattamente considerati. Lì si trova il nucleo relazionale che fonda e decide della qualità della vita come centro propulsore e variabile indipendente delle dinamiche relazionali tra differenze di sesso, generazione, professione, condizioni fisiche e mentali, come riconoscono in particolare psicologi sociali e terapeuti.

Si registra purtroppo un profondo iato tra famiglie e  istituzioni, dal punto di vista dei valori, dell’economia, del lavoro, del diritto. Le famiglie avvertono come una ingiustizia la distanza tra la fatica di arrivare alla fine del mese, con salari che hanno perso il loro potere d’acquisto, e gli “sprechi” delle varie “caste” nei luoghi della politica, dell’economia, della burocrazia, del giornalismo tra la vicinanza che regola i rapporti familiari e l’impersonalità, tra la solidarietà gratuita che anima la cura reciproca e il prezzo di ogni cosa nei sistemi, tra la spontaneità della cura e la statuizione dei diritti.  E’ una ingenuità pensare che le famiglie possono rinnovare anche il ciclo economico della società?

Lasciamo rispondere Zamagni che sulla nostra rivista ad una domanda in tal senso affermava: «  La famiglia ha un valore aggiunto .  Fino a tempi recentissimi la famiglia è sempre stata concettualizzata come luogo di consumi questo lo vediamo molto bene nelle statistiche ufficiali d’Italia dell’ISTAT dove la famiglia è indicata come il luogo nel quale si esercitano le attività di consumo: la famiglia compra, la famiglia spende ecc. non è mai ancora entrata nella mentalità dei politici e degli stessi studiosi di economia l’idea per cui la famiglia è anche luogo di produzione, esattamente produzione di relazioni e soprattutto di quella relazione primaria che è la fiducia.  In questo senso è necessario affrettare i tempi del passaggio da una concezione della famiglia intesa come aggregato di singole individualità che vi trovano il riparo dalle avversità, sostegno, tutte cose vere, ma non sufficienti, perché la famiglia è molto più di questo. Ora noi sappiamo che la fiducia è il fattore propulsivo di un’economia di mercato. Dove non c’è fiducia non si può sviluppare un’economia di mercato dal volto umano come si suol dire. Ecco perché concettualizzare la famiglia come luogo di produzione e non soltanto di consumo è oggi operazione culturale ma anche politica di  primaria rilevanza»[20].

Il ruolo attivo delle famiglie

Spesso le famiglie si limitano a richiedere un aumento di sussidi senza riuscire a farsi esse stesse promotrici di azioni politiche ad ampio raggio. Fa comodo ricevere una busta paga un po’ più corposa, ma che fare se poi la famiglia, sopraffatta dalle difficoltà, si sfascia? Sono le famiglie infatti che possono immettere una corrente “calda” nel freddo delle istituzioni e rinnovarle dal basso, evitando che il cambiamento sia soltanto un giro di valzer, un mutamento d’abito, la sostituzione di una scena di teatro.

Alla base c’è sempre il mutamento degli stili di vita delle famiglie, che coscientemente o inconsapevolmente costruiscono nuove forme di socialità e chiedono una maggiore corrispondenza tra le istituzioni e la vita della gente. In genere le famiglie mettono in atto microtrasformazioni feriali e sommesse, come quelle rivoluzioni della storia silenziose e carsiche di cui parla Hegel, che si sviluppano lentamente nelle conversazioni familiari e generano al tempo opportuno nuovi assetti sociali e istituzionali.

Come concretizzare la risorsa dell’umanesimo familiare per uscire dalla crisi?

Innanzitutto attraverso le politiche familiari, che considerano la famiglia una risorsa per la società civile con l’ obiettivo non della sopravvivenza delle famiglie, ma della realizzazione della loro vocazione, sociale ed economica.

Ovviamente non sono immaginabili interventi normativi che, facendo violenza sulle scelte di ciascun individuo, impongano la famiglia come unica forma di aggregazione sociale. Occorre tuttavia una legislazione che metta in risalto, senza confusioni, l’unicità della famiglia (secondo la definizione costituzionale), e l’importanza del suo ruolo sociale ed economico. Proprio per questa funzione sociale ed economica (sussidiaria alle istituzioni pubbliche) sarebbe doverosa una normativa fiscale che, escludendo da tassazione le somme utilizzate dalla famiglia per il suo sostentamento e sviluppo, riconosca alla famiglia una sua autonoma soggettività tributaria.

Inoltre, vale la pena mettere in evidenza una realtà che molti dimenticano: le famiglie sono soggetti economici che investono creando valore e ricchezza.

Pertanto, si auspicano iniziative di (micro)credito per specifici investimenti familiari (istruzione, salute, assistenza, tecnologia, mezzi di trasporto etc.). Una più efficiente gestione finanziaria delle famiglie (possibile soprattutto con l’aiuto delle banche) aiuta infatti una più efficiente gestione delle risorse economiche e dei servizi che, allo stesso modo di una qualsiasi impresa sociale (oppure, secondo una certa dottrina economica, come le imprese civili), le famiglie forniscono a favore dei propri componenti.

La migliore capacità di spesa dovrebbe infine stimolare il sistema delle imprese a realizzare economie di scala a vantaggio delle famiglie, che beneficeranno così di servizi sempre più efficienti ed economici.

Un ruolo strategico in questo contesto deve essere svolto dalle realtà locali. L’attuazione del principio di sussidiarietà impone infatti alle istituzioni (ivi incluse quelle locali), il coinvolgimento della società civile, e quindi delle associazioni familiari, nella programmazione delle politiche sociali e familiari; in quella sede sarebbero auspicabili concrete iniziative di educazione alla bellezza della famiglia (magari quella unita una vita intera).

Solo così si potrà combattere la cultura consumistica contemporanea che ci rappresenta la famiglia come una limitazione alla libertà personale. Ma non solo, l’esperienza delle famiglie aiuterà in modo efficiente e mirato

 (i) ad affrontare le emergenze sociali, rimuovendo le cause di disagio,

(ii) ad individuare i bisogni reali della società civile, e

(iii) a prevedere forme di mutua assistenza sociale e familiare (p. es. la costituzione di associazioni al fine di agevolare la concessione di prestiti alle famiglie).

Se ci fossero giovani sposi qui in sala a loro diremmo:« Costituire

una famiglia, mettere al mondo dei figli è la prima e fondamentale forma di produttività, perché la famiglia è il luogo privilegiato dove uno fa esperienza di felicità, non che uno non possa essere felice altrove, ma direi che la famiglia ben regolata è fonte inesauribile di felicità e la felicità, come sappiamo, è una proprietà della relazione interpersonale; la felicità è cosa diversa dall’utilità perché per essere felici, almeno come sappiamo bisogna essere in due.  …» [21].

D’altra parte le persone quando non sono felici, producono male, lavorano male e ottengono risultati perversi, ecco quindi perché la felicità, la relazionalità, la fiducia non possono essere rese oggetto di produzione come gli autocarri, i televisori e tutti gli altri oggetti. Quindi, in questo senso, il ruolo della politica deve veramente rispetto alla centralità della famiglia cambiare di 180°…Fino ad ora la famiglia è stata  vista in termini residuali e quando si parla di leggi finanziarie se rimane qualche spicciolo allora lo si destina alla famiglia con la stessa mentalità con cui si fa l’elemosina al poveretto, noi dobbiamo uscire da questa mentalità.

 Anche le Istituzioni devono coltivare il loro spirito di solidarietà, dando sostegno “alle famiglie, in particolare a quelle numerose, che spesso si trovano a dover affrontare difficoltà, rese talvolta più acute dalla mancanza o dalla insufficienza di lavoro”.

Occorre  “difendere la famiglia fondata sul matrimonio come essenziale cellula della società, anche attraverso aiuti e agevolazioni fiscali che favoriscano la natalità”, riservando un attenzione particolare “verso i giovani, i più penalizzati dalla mancanza di lavoro”.

Una società solidale è tale se aiuta le nuove generazioni a trovare “alloggio a costi equi” e un’attività lavorativa. “Tutto ciò è importante per evitare il rischio che i giovani cadano vittime di organizzazioni illegali, che offrono facili guadagni e non rispettano il valore della vita umana”.

 Mi piace concludere con l’appello di Benedetto XVI al Congresso Eucaristico di Ancona: ««Cari giovani, non abbiate paura di affrontare queste sfide! Non perdete mai la speranza» (Ancona, 11 settembre 2011)».


[1] http://community.soldionline.it/economia/120571-chi-ce-dietro-standard-poors-e-le-agenzie-di-rating-articolo-del-fatto-quotidiano.html

[2] Titolo dall’originale inglese: The Great Crash of 1929. Vedere rassegna in: www.correiodacidadania.com.br/content/view/2963/9/. Ultimo accesso: 21/5/09.

[3] Citato da R. RICUPERO, ex-segretario della Unctad, nell’articolo “Moral em crise”, Folha de S. Paulo, 26/10/08, B2 – Dinheiro.

[4] O., t.l, p. 317.

[5] E.MOUNIER, Introduction cit., III, p.173.

[6]Cf Persona e famiglia, editoriale di « Nuova Umanità»,  52/53 (1987), 3-12.

[7] Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 8

[8] Cf. V.MELCHIORRE, Essere e parola, Vita e pensiero, Milano 1984, p.51.

[9]      Scriveva J. Maritain: «Quando diciamo che un uomo è una persona vo­gliamo dire che egli… è in qualche modo un tutto, e non soltanto una parte, un universo a sé, un microcosmo, in cui il grande uni­verso può, tutto in­tero, essere contenuto per mezzo della conoscenza; mediante l’amore può darsi libe­ramente ad altri esseri che per lui sono come altri se stesso, relazione, questa, di cui non è possibile tro­vare l’equivalente in tutto l’universo fisico. In termini filosofici ciò vuol dire che nella carne e nelle ossa umane c’è un’anima che è uno spirito e che vale più dell’universo tutto intero». (J. Maritain, Les droits de l’homme et la loi natu­relle, New York 1945, tr.it. I diritti dell’uomo e la legge na­turale, Milano 1977, 1991, 4-5).

[10] F. Felice, Per credere nel futuro, in “Prospettiva Persona”, n. 77/78, pp.5-6.

[11]  Per una più ampia trattazione dei temi qui affrontati si rimanda al libro in via di pubblicazione: G. P. Di Nicola – A. Danese, Amici a vita. prospettive multidisciplinari sulla coppia, Città Nuova, Roma 1997.

[12] S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Rusconi, Milano 1974, 280.

[13]  L. Bruni, Reciprocità e gratuità dentro il mercato La proposta della Caritas in veritate, in  «Aggiornamenti Sociali» , n.01/2010, pp. 40-41

[14] In quest’ottica si comprende perché l’enciclica Caritas in veritate inviti a superare la dicotomia non profit-for profit, a favore di una idea di «economia civile», cioè a favore di quella tradizione di pensiero e di prassi che vede l’intero mercato e ogni forma di impresa come realtà umane a tutto tondo, chiamate per questo ad aprirsi al loro interno al dono-gratuità, se è vero che il contratto e il dono possono essere forme di reciprocità alleate per una società più civile, e non in conflitto tra di loro.

[15] Ibid., pp. 43-44

[16] P. Ricoeur, Le sfide…cit., 15-16.

[17] P. Fichera, http://www.itst.it/itst/allegati/721/Fichera%20-%20Tra%20realismo%20e%20speranza.pdf

[18] Cf. P.Fichera, ibid.

[19] Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n.7.

[20] S. Zamagni, http://www.prospettivapersona.it/editoriale/63/zamagni.pdf

[21] Ibid., p. 33.