Ethos della cultura

  Prometeismo ed   ethos della cultura

Di G. P. Di Nicola

Dal testo  Per un’ecologia della società, EDB, Roma 1994

 

La centralità dei processi culturali nell’epoca contemporanea reclama una particolare attenzione alla ecologia della cultura, nei contenuti, nei metodi, negli obiettivi.

Troppo spesso accade che l\’esaltazione dell’autonomia della scienza, della ricerca, delle università, nasconde la rivendicazione di particolarismi corporativi nei confronti dello Stato e l\’indipendenza del gruppo scientificamente dominante dalla morale, per costruire regole autoreferenziali, di fatto orientate all\’accresciemento del potere e asservite alle centrali economiche. Soprattutto nella ricerca, occorre intervenire per correggere la logica delle corporazioni  e quella del mercato con l’orientamento etico. “Alto contributo alla ricerca” non può essere ciò che è dannoso o anche semplicemente secondario, se sposta le risorse intellettuali e finanziarie su campi poco utili, quando ci sarebbe grande bisogno di impiegarle per combattere il sottosviluppo, le malattie e tutte le forme di privazione. È doveroso chiedersi come accade che ingenti risorse vengano destinate a scoperte che daranno un vantaggio forse economicamente alle grandi holding o serviranno a rendere famosi coloro che utilizzano nuove tecnologie, per esempio nel campo dell’ingegneria genetica, ma non faranno progredire di un passo la lotta all\’AIDS o al cancro.

 Dal punto di vista dell’intervento politico, è doveroso usare la forza necessaria per la distribuzione oculata delle risorse su obiettivi umani,  sostenendo ricerche orientate verso il bene delle persone (anche attraverso l\’istituzione di cattedre specifiche). La canalizzazione della committenza suppone interventi sul mercato delle ricerche, incentivando quei filoni atti a promuovere la qualità della vita per tutti. In questo campo, il dilemma è tra libertà e orientamento, se si vogliono potenziare gli obiettivi di ottimizzazione della qualità della vita senza mutilare l\’intelligenza. Organismi nazionali e internazionali, a livello europeo e dell’ONU, dovrebbero decidere la regolamentazione  e convogliare gli sforzi verso obiettivi comuni. Molto dipende dalla responsabilità dei politici e degli economisti, ma anche dei singoli cittadini, dalla capacità di porre in atto una committenza che integri con le ragioni della qualità quelle mercantili  attualmente dominanti.

Una tale responsabilità si può sostenere tramite la sensibilizzazione dell\’opinione pubblica,  il controllo sociale, l’adozione di un codice deontologico per la ricerca scientifica, parallelo a quello dei politici e dei medici. Si comprende l’importanza di questo codice, se si prende atto delle conseguenze antiumane di una scienza autoreferenziale,  legittimata dalla sua pretesa “sacralità”: le armi chimiche, l\’indifferenza per i rifiuti tossici, l’affitto dell’utero (la donna produttrice di figli e contenitore biologico, con i relativi problemi legati allo sfruttamento della povertà), le banche dello sperma, tutti gli esperimenti in cui la vita umana è immolata sull’altare della scienza e l\’amore del vero è sostituito dalla ricerca del prestigio nel sistema sociale.   Perché la scienza non sia la teologia oscura della società tecnocratica e burocratica, occorre che lo scienziato si dia dei confini, con la responsabilità di chi conosce il rischio che la scienza rappresenta e non sfugge alla necessità di dover scegliere;  ne raccoglie le sfide, ma è intenzionato a ridurne la portata antiumana. 

Troppo spesso l’autonomia della scienza è l\’ideologia di quanti vogliono sfuggire al limite imposto dall’etica. Al contrario,  proprio se si è approfondito il discorso scientifico, si è in grado di chiarirne e limitarne i confini, guardandolo nella sua significatività e collocandolo nella sua cornice, su uno sfondo che lo illumina, perchè umanamente orientato. Per fare scienza bisogna conoscere le regole del gioco sin qui stabilite, penetrarne l’intima logica, per poi smascherarne la tentazione sacralizzante, quella che consacra, insieme alle regole, anche il già noto e, in fin dei conti, l’onnipotenza dell\’io (prometeismo).

Riconoscere il limite è, da un certo punto di vista, inevitabile, almeno nel senso che c’è una committenza che fissa i confini della ricerca dall’esterno; è esterno anche il limite politico, nella misura in cui il potere interviene a fissare dei paletti a priori   alla ricerca ritenuta — a torto o a ragione — dannosa, specie dopo l\’esperienza delle atrocità commesse su esseri umani (usati come cavie); vi è poi un limite ex-post, come nel caso di Cernobyl, o dopo i danni delle armi atomiche, quando si è costretti a ripensare le centrali nucleari in termini di sicurezza. Limiti interni sono quelli legati alla comunità scientifica che si autodefinisce in base agli obiettivi. La stessa passione per la scienza perciò dovrebbe tenere in massimo conto il limite, come ciò che disvela più ampi orizzonti, prospettive altre, sistemi più vasti; non dunque qualcosa che deve essere negato, combattuto perché inibisce, ma ciò che deve essere cercato, conosciuto e, in certo senso, amato come ciò che consente ulteriori conquiste.

Sarà sempre difficile, tuttavia, controllare ciò che attiene alla responsabilità di ciascun uomo di cultura, il quale non dovrebbe sottostare alle regole per obbedire ad un dictat, ma darsele egli stesso per deontologia professionale, perché sa che la scienza è conoscenza al servizio del bene, a vantaggio di tutti e di ciascuno, e dunque non un sapere-potere, ma un sapere-servizio. Sin dall\’educazione scolastica andrebbe potenziato il gusto della cultura come amore del vero attraverso le diverse discipline, piuttosto che premiare la capacità di ripetere teorie astratte, trasmesse da una burocrazia di funzionari della cultura. Lo sottolineava S. Weil: «Dal momento che la scienza forma un tutto indivisibile si può dire che… non ci sono più dei sapienti, ma solamente dei manovali del lavoro scienti­fico, ingranaggi di un insieme che il loro spirito non abbraccia af­fatto… In una tale situazione è una funzione che prende un’importanza fondamentale, ossia quella che consiste semplice­mente nel coordinare; la si può chiamare funzione amministrativa o burocratica»<!–[if !supportFootnotes]–>[1]<!–[endif]–>.

In effetti, specie nella ricerca, si rende evidente che la moralità non attiene solo alla coerenza tra convinzioni e comportamenti, sempre nell\’ottica individuale, ma è la risposta che ciascuno dà al richiamo che viene dalla fragilità dell\’altro che chiede indirettamente che non gli si faccia del male. Fragile è qualunque altro si affacci alla vita dell\’io, ma anche il sistema, la  scienza, la democrazia, la città della convivenza, tutte realtà che poggiano non su istituzioni astratte e autofunzionanti, ma sulla responsabilità di ciascuno e in particolare degli uomini di cultura.

Perchè la sua ricerca rispecchi amore per la verità, il ricercatore non mirerà a guadagnare centralità, ma sarà capace di collocarsi in una prospettiva in certo senso impersonale, guadagnerà quella metacentralità che gli consentirà di entrare e uscire da un determinato sistema, proprio grazie ad un superiore punto di vista. È questa capacità di accantonare l\’io che rende possibile l’etica nella ricerca e nella creazione di una comunità scientifica, altrimenti inaridita in problemi di gerarchie e di potere. Non l’etica statica delle regole immutabili, dove tutto ciò che è nuovo è tabù, né l’etica dell’intenzione libera e assoluta, dove tutto ciò che è nuovo è migliore, ma l’ethos che qualifica la persona e la rende capace di vivere una vita felice, perché propriamente umana. A tal fine, occorre  ottimizzare, nei modi possibili, la qualità delle relazioni interpersonali negli ambienti culturali, abbassando il tasso di conflittualità, prendendo le distanze dalla menzogna e dalla prostituzione intellettuale, dal plagio (non così raro come si vorrebbe far credere, ma diffuso anche a livello dell\’appropriazione delle tesi di laurea da parte di docenti maldestri), di 

Per riconoscere il senso positivo del limite, occorre vedere tutta la vita sul pianeta come una limitazione reciproca tra i diversi sistemi, naturali, organici ed inorganici, tra esseri umani e ambiente e tra persone tra loro. “Limite” ha accezione negativa, se si parte dall’idea che ciascuno ha per telos  quello di espandere le sue potenzialità all’infinito, combattendo gli ostacoli; l’esistenza stessa di qualcosa e di qualcuno che non è l’io lo priva dell’onnipotenza. Ma, se trasformiamo il senso negativo del limite in  molla di comunicazione, più che di “coscienza del limite”, dobbiamo parlare di “coscienza del dono”, nel senso che il limite è la possibilità stessa di essere in relazione con gli altri, di vivere serenamente le proprie dipendenze e le proprie risorse, in un concerto di realtà di cui si vogliono cogliere le sintonie, o anche di cui si studia e approfondisce l’individualità, avendo di mira l’armonia. La mutua dipendenza è la chiave dell\’arricchimento reciproco, quando i soggetti sono tra loro in una dinamica relazionale. In quest’ottica, ritmi e qualità delle relazioni interpersonali sono regolati non tanto sulla base di un’etica che abbia il senso dell\’emozione o del vincolo culturale ad un gruppo o dell\’imperativo categorico, quanto sulla base di una radicale coscienza della reciprocità dei viventi, a diversi livelli di interconnessione.

All\’interno del sapere concepito come potere, si colloca uno dei problemi principali del rapporto tra ecologia e cultura e cioè l\’impunità di coloro che selezionano disonestamente la nuova classe culturale dirigente. Molte   rapide carriere dei mediocri vengono realizzate nella cerchia intima delle dinastie della cultura, con proliferazione di affiliazioni a gruppi che cooptano “fedeli” osservanti, anche se inetti. Grandi editori, giornalisti, baroni universitari, simili nella logica a imprenditori e politici, promuovono individui che, all’occhio comune, appaiono insignificanti, squallidi e che sono comunque dannosi per la società, date le responsabilità che vanno a rivestire, per le quali non hanno talenti da investire. «Sembra impossibile – scriveva Alberoni – che persone capaci e intelligenti possano fidarsi di loro, affidare incarichi delicati e lasciare che all’esterno appaiano i loro portavoce, li rappresentino… La tecnica con cui queste persone fanno carriera nel seguito personale del potente si può osservare molto bene all’Università. È il caso dell’assistente che scientificamente non vale niente, ma è ossequioso, servile, ubbidisce prontamente, dice sempre di sì. L’altro si abitua a vederselo attorno, a dargli le incombenze più sgradevoli e, a poco a poco, non riesce più a farne a meno. Lo ricompenserà più tardi con una cattedra, facendolo passare davanti ai più meritevoli»<!–[if !supportFootnotes]–>[2]<!–[endif]–>. Per non parlare di coloro che ottengono ugualmente gratificazioni di carriera con metodi più sgradevoli. Il potente, che si abitua ad avere attorno una persona che non stima, ma che può “usare”, finisce con l’avvertire una sorta di “dovere morale” e di compensarla per scrupolo, mentre sarebbe doveroso favorire le energie migliori della società e promuovere coloro che, assunti ruoli di responsabilità, diano garanzia di una gestione competente ed etica. Il potente identificato nel suo status  non va oltre la logica di difesa, non riesce a superare la paura di chiamare nella propria cerchia persone intelligenti e autonome, per timore di venire surclassato o non sufficientemente coccolato (megalomania), o semplicemente contraddetto in discussioni difficili e lunghe; meglio chi, avendo rinunciato a pensare e ad agire secondo la propria coscienza, non crea problemi.

Le conseguenze di una selezione scorretta si riversano su un’intera generazione, penalizzando cittadini, specie giovani, bloccati da una classe dirigente incompetente, sistemata nei gangli decisivi della società in politica, all’università, negli ospedali e dovunque si richiederebbero competenza, onestà, qualità umane. L\’aspirante capo, più velocemente che i contenuti della disciplina, apprende la logica clientelare, intuisce i rapporti di forza e si adegua, imparando a dosare lode e denigrazione, citazioni sovrabbondanti e silenzi, cullando il narcisimo del capo, ripetendone le verità e le scelte (si pensi al mercato delle recensioni, delle citazioni, dei libri<!–[if !supportFootnotes]–>[3]<!–[endif]–>). I rapporti tra potere e autorevolezza ne saranno compromessi e così pure la fiducia in chi detiene il potere nel campo culturale, ossequiato al fine di ottenere favori, ma denigrato, appena raggiunge la soglia della pensione e abbandonato al ludibrio o alla facile dimenticanza.

Per una ecologia della cultura, si chiede anche di valutare i processi come gli effetti, ossia di non puntare tutto sull’efficienza delle azioni, ma sugli obiettivi proposti, sui modi e i percorsi seguiti. I mezzi utilizzati divengono importanti quanto gli scopi prefissati, poiché obiettivi buoni, raggiunti con la violenza, ottengono effetti boomerang. Ciò implica accettare che scopi simili possono essere perseguiti in modi differenti, in maniera da rispettare le diverse prospettive e concedere a ciascuno di inventare piste inedite. Implica soprattutto accettare eventuali scacchi dell’azione, come momenti di un processo in cui ciascun contributo, fallimentare o vincente, venga preso in considerazione con pari attenzione.

Gli obiettivi di ecologia umana suggeriscono inoltre prospettive olistiche, integrate. Suscita diffidenza tutto ciò che contribuisce ad accentuare le separazioni e tagliare i legami tra le persone e le loro specifiche esperienze, indebolendo i processi di comunicazione. Dal punto di vista culturale, si mira a che la specializzazione non  accentui l’impossibilità di confrontare e orientare le conoscenze. Se questa esigenza fosse intesa in maniera fondamentalista, essa costituirebbe un anacronistico ritorno all’indietro, senza speranze di successo, in una società in cui la competenza specifica è ragione di arricchimento, in termini economici ed umani. Ma non si tratta di eliminare la specializzazione e le competenze, bensì di potenziare le comunicazioni, i lavori di équipe e soprattutto l\’attenzione agli obiettivi,  mirando a non perdere di vista l’integralità della persona, il rapporto tra le competenze e il loro orientamento valoriale.

 Nella conoscenza viene in evidenza il valore di una osservazione attenta, ma anche in qualche modo ricettiva e, proprio in quanto tale, creativa. Generalmente si sottolinea troppo l\’azione attiva che tutti gli organismi realizzano sull’ambiente (processi di ossidazione cellulare, scambio metabolico, tecnica); si sottolineano meno gli inevitabili condizionamenti che pongono l’essere umano in condizioni di ricezione-accettazione di realtà date, quali le proprie condizioni fisiche e psichiche, quelle della specie, le componenti ambientali, la dipendenza dagli elementi indispensabili per sopravvivere. Ciò non significa occultare le conquiste della tecnica, tese a rendere tali condizioni meno passive e costrittive, ma non assolutizzarle, non chiedere religiose sicurezze a chi non è in grado di darle, per mantenere i problemi sempre aperti e  le soluzioni falsificabilili, in senso popperiano<!–[if !supportFootnotes]–>[4]<!–[endif]–>.

Il mondo della cultura ha grande necessità di persone distaccate dalla carriera, fedeli alla propria dignità e intelligenza, indipendenti dal successo, capaci di restare ai margini della cultura ufficiale, del mercato editoriale e massmediale, e tuttavia diffondere, con la forza stessa della loro presenza, germi di verità. La loro marginalità testimonia l\’irresponsabilità di chi li ha occultati ed è, rispetto a tutti i sistemi politici, la denuncia della corruzione, ma anche il lievito del mutamento.

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<!–[if !supportFootnotes]–>[2]<!–[endif]–> Cf F. Alberoni, La carriera dei mediocri, «Corriere della Sera», 27. VIII 1990.

<!–[if !supportFootnotes]–>[3]<!–[endif]–> Cf G. De Rienzo, Ci vorrebbe un Di Pietro, in «Corriere della Sera», 17. VI.1993.

<!–[if !supportFootnotes]–>[4]<!–[endif]–> Cf K. R. Popper, Congetture e confutazioni, tr. it. Bologna 1972; Id., La società aperta e i suoi nemici, tr. it. Roma 1974;  D. Antiseri, Regole della democrazia e logica della ricerca, Roma 1977; Aa. Vv., La sfida di Popper, a cura di M. Baldini, Roma 1981. Cfancora gli studi interessanti di  E. Sciarra, L’epistemologia delle scienze storico sociali nel pensiero di Karl Popper, Chieti 1981; F. Bellino, Ragione e morale in K. R. Popper. Nichilismo, relativismo e fallibilismo etico, Bari 1982; C. Cipolla, Dopo Popper. Saggio sulla grandezza e limiti dell\’epistemologia popperiana e sul suo superamento, Roma 1990.