Simone Weil, «Persona e impersonale»: riflessioni di P. Vanzan sj

Nel centenario della nascita della filosofa e mistica francese Simone Weil, il Centro di Ricerche Prospettiva Persona, diretto dai proff. Attilio Danese e Giulia Paola di Nicola, ha organizzato a Teramo (10-12 dicembre 2008) il VII Convegno Internazionale di filosofia su «Persona e Impersonale: la questione antropologica in Simone Weil» [1], al fine di ricordare la vita e il pensiero di questa donna straordinaria, in continua ricerca dell’oltre. Una donna che, nella sua breve vita, passò dall’essere insegnante a operaia, da bolscevica a socialista, da volontaria nella guerra in Spagna a militante nella Resistenza, da ebrea e agnostica alla fede cristiana, senza mai perdere di vista la ricerca del bene sempre maggiore e, insieme, della verità che sentiva essere sempre oltre cui, nonostante mille ostacoli, dedicò l’intera sua esistenza.

Come ha scritto il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, «quella che è parsa come una delle gradi esperienze spirituali del nostro secolo, non ha ancora avuto la fortuna che merita. Simone Weil è […] una pensatrice che trae dalla profondità del suo approccio metafisico e religioso le ragioni vere del suo impegno storico-sociale. La sua vicenda umana e intellettuale appare profondamente segnata dalle vicende dei totalitarismi della prima metà del Novecento. L’esile donna dall’esistenza intensa e brevissima, la giovane che a Parigi nel 1931 tiene testa a Trotzkij, la filosofa ebrea che si trasforma in “pellegrina dell’assoluto” interpreta la profonda inquietudine dell’uomo contemporaneo in una tensione carica di rappresentatività anche simbolica». Cosicché, oggi più che mai, «nelle inquietudini della postmodernità, in cui tutti […] ci troviamo come naufraghi e bisognosi di un senso che orienti e misuri le scelte, e che può esserci solo donato dall’Altro che viene a noi» [2], la sua riflessione anti-ideologica, appare quanto mai attuale.

 

Simone Weil tra «Persona e Impersonale»

 

Simone Weil nasce a Parigi il 3 febbraio 1909 da una famiglia borghese parigina di origine ebraica, con un profondo gusto per la cultura. Sorella di Andrè, destinato a una brillante carriera di matematico [3], fu prima studentessa all’Ecole Normale Supérieure — dove trovò un punto di riferimento filosofico in Emile Charter, noto come Alain [4] — e poi insegnante di filosofia in vari licei, benché la contemporanea sua attività politica in favore dei disoccupati e degli scioperanti le abbia creato vari problemi. Militante dell’estrema sinistra rivoluzionaria e spinta dal suo profondo senso di giustizia a stare dalla parte dei sofferenti, nel 1934, decise di conoscere direttamente le condizioni di vita dei lavoratori troncando la professione e gli studi puramente teorici per lavorare come operaia alla Renault di Parigi. Ammalatasi di pleurite, fu costretta a lasciare l’officina non senza aver compreso l’inadeguatezza dell’analisi marxista nell’interpretazione delle ragioni dell’oppressione delle masse lavoratrici e, nel 1936 volle partecipare come volontaria repubblicana alla guerra civile spagnola arruolandosi nelle file anarchiche della famosa Colonna Durruti, anche se, una grave ustione a un piede la costrinse a rientrare in Francia. Alcuni episodi tra il 1935 e il 1939 — di cui parleremo ampiamente in seguito —, provocano in Simone una ripetuta illuminazione mistica che si tradusse in una fede vissuta con grandissima intensità ed estrema originalità, completamente orientata a colmare la sua insaziabile sete di verità e di giustizia. Esclusa dall’insegnamento in seguito alle leggi razziali emanate dal regime di Vichy, decise di mettere in salvo i genitori a Marsiglia prima e poi, nel 1942, negli Stati Uniti dove fu molto vicina ai poveri di Harlem. Richiamata in Europa dal suo profondo impegno contro ogni forma di totalitarismo, tornò in Inghilterra e ammalatasi, morì nel 1943, a soli 34 anni, con l’anima consumata dalle tragedie della storia e contemporaneamente aperta all’incontro con Dio.

       Come risulta evidente da questa breve biografia, la vicenda umana e spirituale di Simone Weil fu quanto mai complessa, a volte contraddittoria, eppure sempre orientata attraverso l’esperienza personale, alla ricerca di una verità che solitamente non coincide con le conquiste intellettuali, ma ha piuttosto a che fare con «quella luce interiore senza la quale vivere è una pena insopportabile, che raggiunge tutti coloro che la desiderano finalmente e fino in fondo e ne appaga l’anima»[5]. Il suo pensiero, caratterizzato da un forte principio di realtà, nonché dall’esigenza di ancorarlo al contesto sociale e politico di appartenenza, la porta a rifiutare il concetto di personalismo — sorto all’interno dell’ambiente borghese dove era nata ma lontano da quello popolare in cui aveva deciso di vivere e operare — più per spirito di contraddizione che per i suoi specifici contenuti. Come sottolineato dall’intervento d’apertura di Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese, Persona e Impersonale[6], Simone Weil, proprio per quella sua profonda sintonia con i sofferenti, evidente fin dall’infanzia, critica il concetto di persona che le sembra favorire il delirio dell’io «come se il compito principale della vita consistesse nel cercare gratificazioni, aspetto sottovalutato dai personalisti e da quanti fanno della persona il riferimento essenziale dei diritti. La questione le appariva nello stesso tempo morale e filosofica, per il fatto che non poteva essere la persona il criterio di verità: se l’io desidera la verità, questa deve risiedere altrove, oltre la persona stessa. È qui che si colloca il tema dell’impersonale»[7]. In realtà, in quella che ci appare una contraddizione, per il fatto di rifiutare e promuove la persona allo stesso tempo — visto che la vita e il pensiero di Simone sono a servizio della persona —, è racchiusa un’antropologia che per sfuggire agli estremi che la attraggano e lacerano, cerca altrove il suo punto d’appoggio. «Nel vocabolario weiliano bisogna leggere persona come io, impersonale come verità, individuale come pensiero, collettivo come massa. Si tratta di entrare in un universo linguistico ben distinto da quello del personalismo, nella cui ottica invece individuale (l’io) significa individualistismo, impersonale significa anonimo, collettivo l’on, ossia il mondo che nasce quando l’io abdica alla propria responsabilità e si massifica», per comprendere come ai suoi occhi, sia necessario un deciso distacco dalla dimensione personale per vedere l’uomo «oltre le apparenze, le impressioni mutevoli dell’io, le convenzioni e le mode culturali»[8]. È l’impersonale, infatti, a garantire la possibilità di raggiungere tutti, anche il «ciascuno» sconosciuto, a evitare il temuto passaggio dall’io al collettivo, e a far sì, che a essere perseguito, sia il bene dell’individuo. D’altro canto, l’essere umano per la Weil è molto più della somma dei suoi diritti, e per questo ha «l’obbligo di seguire il richiamo della verità in ogni ambito della vita umana», fino alla spoliazione, fino a riconoscere la grazia.

       Un esempio di quanto affermato ci viene dal suo saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale[9] del 1934, in cui, dopo averla provata in prima persona, descrive la condizione operaia e fa una critica radicale del capitalismo industriale. Non le sembra possibile infatti cancellare l’oppressione e l’ingiustizia nella società umana, neanche con le rivoluzioni che, purtroppo, tendono a tradire le promesse fatte proprio perché, in fondo, finiscono per mantenere ciò che si trova alla base dell’ingiustizia, vale a dire, prima ancora della proprietà privata e dei mezzi di produzione, la separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra funzioni direttive e funzioni esecutive. Come spiegato da Flavio Felice nel suo intervento La crisi all’analisi economica marxiana[10], la Weil critica il marxismo: «Marx spiega mirabilmente il meccanismo dell’oppressione capitalistica; ma lo spiega così bene che si fatica a raffigurarsi in quale modo questo meccanismo potrebbe smettere di funzionare», mettendo così in evidenza il paradosso di Marx e di coloro che a pochi anni dalla crisi del ’29 e in un’epoca di grave recessione economica, divinizzavano la fine del capitale. «Si è colpiti – scrive la Weil – dal carattere mitologico che essa (la concezione marxista) presenta in tutta la letteratura socialista dove viene ammessa come postulato». È questa una concezione in forza della quale l’agire umano – con particolare riferimento all’agire economico – sarebbe ingabbiato nel regno della necessità, la storia dominata da forze impersonali o meta-personali al cui dominio la persona non potrebbe sottrarsi, quando invece, «l’economia è naturaliter per la persona perché nell’ambito di ciò che riguarda gli affari sociali non esiste che la persona. Tutto è riducibile a essa: partito, classe, razza, corporation, nazione. Solo la persona agisce, solo la persona pensa, soffre, spera, gioisce; in definitiva, solo la persona sceglie»[11].

       Continuando a parlare di lavoro Robert Chenavier nell’intervento Personale e impersonale nel lavoro[12], mostra che per Simone Weil il lavoro non è importante per ciò che produce, ma per la dignità che permette all’uomo di trovare, grazie alla sua attività «che deve essere allo stesso tempo personale e impersonale in un senso più nobile». Il patto dello spirito con il mondo, di cui parla la Weil dal 1934, non fa scomparire il soggetto, realizza invece «l’unione dell’anima con l’ordine del mondo». Nella sua analisi dell’attività lavorativa perciò, viene valorizzato l’esito delle azioni indipendentemente dall’emozione, dal desiderio e dalla volontà personale, per giungere alla conclusione che la forma di libertà che l’individuo trova nel lavoro è impersonale e dettata dalla necessità. La libertà viene concepita come un ideale regolativo, cioè un obiettivo a cui aspiriamo senza poterlo mai raggiungere. Ciò non vuol dire però che sia inefficace, perché, a differenza dei sogni, gli ideali orientano e muovono uomini e donne, li impegnano a cambiare lo stato delle cose, rendendo meno imperfetta la società, quella stessa che Simone vede andare nella direzione sbagliata, in cui aumenta lo sfruttamento del lavoro operaio e gli individui, sradicati dal loro passato, vengono gettati in una condizione di solitudine e di assenza di valori, mentre si rafforzano le gerarchie, i poteri burocratici e le strutture di comando [13]. Da questa profonda tensione interiore nasce la svolta della fede, che in lei non è mai rinuncia alle sue posizioni sociali, ma convinzione che nella miseria umana, nella sofferenza, nella spoliazione, così come nella solidarietà con gli altri uomini, nell’amore per il creato, nella disposizione etica verso la verità e la giustizia, si manifesta un aspetto impersonale del divino. Solo quando un essere umano aderisce incondizionata­mente a una di queste forme di dolore, o di amore assoluto, allora può riuscire a intravedere una prospettiva ultraterrena di salvezza.

 

Nell’attesa di Dio: una scelta di fede

 

Simone Weil perciò, arriva alla conoscenza di Dio non solo mediante la sua intelligenza brillante e la sua energica capacità relazionale, ma anche e soprattutto attraverso un’esperienza vitale, tanto che, come scrive Maria Clara Bingemer nella sua relazione Dal Dio personale trinitario all’essere umano relazionale[14], «Il segreto stesso della vita e del pensiero di questa donna è […] racchiuso in questo mistero assoluto e nascosto di Dio e della Sua rivelazione intesa come comunione perfetta tra Padre, Figlio e Spirito». L’amore compassionevole verso le persone colpite da varie forme di sventura e di bisogno che caratterizzerà Simone fin dalla giovinezza, unito al suo impegno sociale, alla lotta politica e alla sua personale discesa negli inferi della fabbrica la porteranno a quell’illuminazione spirituale che farà da preludio all’incontro d’amore col Cristo e con Dio Padre. Nella sua Autobiografia spirituale intitolata Attente de Dieu[15] — scritta al Padre Perrin,—, spiega di non aver mai cercato Dio perché lo riteneva irraggiungibile, qui sulla terra, sia con la ragione che con il pensiero, pur sentendosi sempre in sintonia con il cristianesimo. «Nella sua appassionata ricerca di verità lei vedeva, in questo periodo della sua maturità, che la verità inglobava molti aspetti: la bellezza, la virtù e ogni specie di bene, ma non certamente l’istituzione ecclesiale o il dogma, che non le sembrano aggiungere alcunché alla sua vita, che lei sentiva già cristiana, implicitamente. È dunque Dio stesso che le é andato incontro, trasformando la sua esperienza d’amore implicito in esperienza d’amore esplicito» in tre diverse occasioni. La prima durante un viaggio in Portogallo nel 1935, quando, la processione dei pescatori il giorno della festa della Madonna addolorata a Povoa do Varzim, si trasformò nell’occasione per trovare un punto di contatto tra la sua compassione per i poveri e la fede cristiana: «Lì ho avuto la certezza che il cristianesimo é per eccellenza la religione degli schiavi, e che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con essi», la seconda nel 1937 ad Assisi, all’interno della cappella di Santa Maria degli Angeli nella quale spesso pregava San Francesco, dove la presenza di Dio la fa inginocchiare e adorare il mistero al quale ancora non dà un nome, infine la terza nel 1938 nella suggestiva abbazia benedettina di Solesmes, leggendo una poesia in inglese,Love, di G. Herbert, indicatale in quella stessa abbazia qualche mese prima da un giovane inglese. «Credevo di recitarla soltanto come una bella poesia — scrive in una lettera al Padre Perrin — ma in realtà, a mia insaputa, questa ripetizione aveva la virtù di una preghiera. Ed è proprio nel corso di una di queste ripetizioni, che Cristo stesso, come le ho scritto, è sceso e mi ha presa».

       La persona del Cristo, Verbo incarnato, perciò discende e sorprende Simone Weil in modo talmente inaspettato e imprevisto da vincere la ragione grazie all’esperienza luminosa e incontestabile di una presenza, da lei descritta con dei tratti del tutto personali: «Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio, non avevo previsto la possibilità di un contatto reale, da persona a persona, qui sulla terra, tra un essere umano e Dio. Non avevo mai inteso parlare di cose del genere e non ci avevo mai creduto. Nei Fioretti le storie d’apparizione mi disgustavano più di ogni cosa, come i miracoli nel Vangelo. Inoltre, in questa improvvisa discesa su di me, né i sensi né l’immaginazione hanno avuto alcuna parte; ho solamente sentito attraverso la sofferenza la presenza di un amore analogo a quello che si percepisce nel sorriso di un volto amato»[16]. E mettersi dalla parte del Dio crocifisso diventa per lei disposizione alla contemplazione di un amore che tutto ha donato e che tutto continua a offrire nell’umiltà e nella povertà suprema.­ L’attiva e battagliera operaia fra gli operai, povera tra i poveri, da sempre unita all’universalità del dolore umano, trova nell’imponente e tenace presenza di Cristo nella storia l’ispirazione del suo offrirsi in riscatto di molti. «Sono rimasta — scriveva in una delle memorabili pagine dei Quaderni — in quella precisa posizione, sulla soglia della Chiesa, senza spostarmi, immobile […], ma ora il mio cuore è stato trasportato, per sempre spero, nel santissimo Sacramento esposto all’altare»[17].

       Quel trasporto verso Cristo di cui parla Simone con il passare del tempo cresce così smisuratamente da portarla, prima della fine della sua breve vita, a decidere di attraversare «la soglia della Chiesa» e farsi battezzare. Lo racconta nel dettaglio Eric O. Springsted con il suo contributo dal titolo Simone Weil e il Battesimo[18]. Per venti anni dopo la sua morte, si è pensato infatti che Simone non fosse stata battezzata e, anzi, avesse rifiutato categoricamente il battesimo, pur interrogandosi circa la possibilità di riceverlo. A trattenerla era stata la «paura di appartenere a un gruppo, Chiesa inclusa, perché, secondo lei, l’istinto di aggregazione ha la capacità di cancellare il pensiero e l’immaginazione morale; pensava che entrare nella Chiesa significasse abbandonare tutte quelle persone che ne erano rimaste fuori, che lei amava e dalle quali aveva tratto profitto spiritualmente; pensava che se avesse sottoscritto la dottrina cattolica avrebbe soffocato la sua vocazione intellettuale; infine, non aveva ricevuto alcun comando da Dio per chiedere di essere battezzata» eppure nel 1960 iniziarono a circolare le prime voci sul suo battesimo in extremis [19], ormai accertate grazie alla testimonianza di Simone Deiz, colei che per oltre quarant’anni ha custodito il segreto del battesimo impartito alla Weil morente.

       «Il 15 aprile 1943 Deitz notò che Simone Weil non era andata a lavoro e si recò nel suo appartamento, ma la trovò svenuta sul pavimento. Weil fu portata al Middlesex Hospital e le venne diagnosticata la tubercolosi. Deitz disse che Weil sapeva di essere malata già prima di lasciare New York, ma l’aveva nascosto perché ciò le avrebbe impedito di lasciare New York e soprattutto non le avrebbe permesso d’imbarcarsi nel suo progetto di infermiera di prima linea. A Middlesex, Weil chiese di parlare con un prete. Su richiesta di Deitz, l’Abbé de Naurois, cappellano di “France libre” a Londra le fece visita per tre volte quella primavera. Le visite non diedero alcun frutto. Secondo Deitz, Weil disse a proposito di quegli incontri: “Io gli ho detto che voglio ricevere il battesimo ma che voglio farlo solamente a certe condizioni” […] Dopodichè, Deitz chiese a Weil: “E ora sei pronta ad accettare il battesimo?”. Weil rispose, “Con grande desiderio, si”. Deitz prese l’acqua dal rubinetto e pronunciò la formula, “Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”» [20].

       Trasferita al Sanatorio di Grosvenor in Ashford Kent, Simone Weil morì il 24 agosto 1943 e, come sottolinea Eric O. Springsted: «Riguardo al sacramento e a come fu compiuto, come una grazia di Dio, è da considerarsi valido, a meno che lei non mentisse nella sua professione di fede in Cristo. Il che non è pensabile […] Ma mentre il battesimo è valido, questo non elimina le sue precedenti obiezioni, specialmente quelle filosofiche più forti, nelle quali asseriva che la richiesta della Chiesa di un’adesione intellettuale al dogma, come criterio per ricevere il battesimo, fosse illegittima. Non c’è nessuna ragione di pensare che lei abbandonò quelle obiezioni»[21], ma probabilmente durante gli ultimi giorni della sua esistenza terrena, riuscì a vincere quell’ansia di sbagliare, quell’esplicito timore di non donare tutta sé stessa e il suo amore soltanto a Cristo — come avrebbe significato per lei entrare nella Chiesa —, quell’immobilità che per lungo tempo l’aveva tenuta sospesa, «all’intersezione tra “necessità” e “bene”, tra il mondo e l’inattingibile» e fu pronta a   ricevere il dono «di un’illuminazione, di un momento di luce» [22], rappresentato dalla grazia inattesa[23].

[1] Il Convegno, organizzato dal Centro Ricerche Personaliste di Teramo, col patrocinio del Comune, della Provincia, dell’Università, della Diocesi e della Società Filosofica Italiana di Teramo, si è articolato in tre giornate, suddivise in quattro sezioni tematiche: la prima dedicata al contesto storico-culturale in cui la Weil è vissuta, la seconda all’aspetto antropologico del suo pensiero, la terza a quello teologico e infine la quarta a quello scientifico-epistemologico. Studiosi weiliani tra i più accreditati del panorama internazionale hanno offerto il proprio contributo e si sono confrontati con gli esiti delle ricerche più aggiornate.

[2] Messaggio del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, on Sandro Bondi (dal sito http://simoneweil.sitonline.it/, Fascicolo Completo Weil, 12. Si veda l’inrvervento di S. Bondi negli atti del Convegno a cura di A. Danese e G. P. Di Nicola: Persona e impersonale. La questione antropologica in Simone Weil, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 41-44)

[3] Sul rapporto tra Simone Weil e la matematica: Mario Castellana (Università di Lecce), Matematica ed epistemologia (negli atti citati a pp. 177-198); Franco Eugeni (Università di Teramo) e Marco Santarelli (Università di Teramo eLa Sapienza di Roma), La matematica come comprensione del mondo (pp. 167-176).

[4] Da lui Simone eredita un’impostazione e una serie di questioni aperte che risalgono alla tradizione spiritualista laica e radicale della filosofia francese, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Gioca un ruolo importante in questo contesto la ricezione del kantismo tradotto coi concetti di Maine de Biran, quindi l’importanza dell’esperienza volontaristica, dell’effort (lo sforzo), come fondazione autonoma dello spirito e decisione sul valore della conoscenza. Un approfondimento del tema è presente nell’intervento di Emmanuel Gabellieri (UCLY di Lione), Dall’umanesimo alla Rivelazione (pp. 261-271),nel quale viene descritto il passaggio di Simone Weil «dalla “filosofia del soggetto” del suo maestro Alain a un’esperienza mistica, tradotta in termini di una metafisica religiosa», e in Giorgio Campanini (Università di Parma), Simone Weil nel contesto culturale europeo del Novecento(pp. 45-54).

[5] Di Nicola-Danese , Conclusioni, pp. 309-324, p.311.

[6] Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese sono docenti di Sociologia della Famiglia all’Università di Chieti e condirettori della rivista Prospettiva Persona. Il testo del loro intervento fa riferimento ad alcuni lavori precedenti: Simone Weil. Abitare la contraddizione, Dehoniane, Roma, 1991; Abissi e vette. Il percorso spirituale e mistico di Simone Weil, Lev, Roma 2002;M.C. BINGEMER-G. P. DI NICOLA, Simone Weil azione e contemplazione, Effatà, Roma, 2005. Sull’argomento anche le relazioni di: Paolo Farina (ISSR, Trani), Il male e la presenza assente di Dio(pp.153-164);Wanda Tommasi (Università di Verona), Studio, attenzione, preghiera: il passaggio all’impersonale (pp.199-208); Roberto Ricci (SFI-Teramo), L’ebraismo come problema (135-138); Stefania Tarantino (Istituto Italiano di Scienze Umane, Napoli), L’impersonale e il sacro (pp. 209-220); Margherita Pieracci Harwell (Università dell’Illinois di Chicago), Sintonie weiliane tra Italia e Francia (pp.55-75).

[7] G. P. Di Nicola- A. Danese, Introduzione tematica, p. 9.

[8] E. Mounier, Œuvres, Seuil, Paris 1961-1963, III, 488 e 209.

[9] S. WEIL, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano, 1983.

[10] L’intervento di Flavio Felice , docente di economia politica alla PUL di Roma, si trova alle pp. 103-110. Per l’importanza assunta nella vita di Simone Weil, questioni quali il lavoro, l’ingiustizia, l’oppressione, lo Stato totalitario sono state affrontate sotto diversi punti di vista da: Emilia Bea (Università di Valencia), Diritto e giustizia. L’obbligo del dare (pp.123-132), Domenico Canciani (Università degli Studi di Padova), Elettra,sorella di sventura e figura dell’amore soprannaturale, (pp. 223-350)

[11] F. Felice, art. cit., p. 109.

[12] L’intervento di R. Chenavier (Presidente dell’Association pour l’étude de la pensée de Simone Weil, di Parigi) si trova alle pp. 111-121).

[13] Sul rapporto tra mistica e politica cfr H. B. Gerl-Falkovitz (Università di Dresda), La “bestia sociale” (pp. 95-102),dove viene sottolineato il rifiuto del marxismo da parte della Weil, che vede in esso un semplice rovesciamento del rapporto tra sfruttati e sfruttatori Per lei, invece, «la giustizia soprannaturale deve divenire giustizia sociale. La legge diviene l’efficacia storica di un’obbligazione soprannaturale; solo così ha la sua forza morale. In dettaglio, la Weil arriva alle seguenti indicazioni: promulgare solo poche leggi, ma durevoli; enunciarle in modo intelligibile per permettere una comprensione e un consenso sempre personale (chiarezza come un momento dell’attenzione); giustificare sempre nuovamente la necessità delle leggi presso la gente come radicate nella trascendenza; assimilarle intellettualmente e intuitivamente, senza propaganda, senza costrizione».

[14] Maria Clara Bingemer, Decana del Centro de Teologia e Ciencias Humanas, Università Cattolica PUC, di Rio de Janeiro. Sul periodo mistico di Simone Weil sono intervenuti anche: Gaspare Mura (PUL, ASUS, Roma) Il “venerdì santo della filosofia”(pp. 139-152); Giovanni Giorgio (ITAM, Chieti), L’impersonale necessità nella storia (pp. 79-94); Giovanni Trabucco, Poetica e teologia della persona a partire da Simone Weil (pp. 249-260).

[15] S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008.

[16] Ivi, 37-39.

[17] S. WEIL, Quaderni IV, Adelphi, Milano, 1993, cit., 179s. Si trattò di una conversione del tutto particolare, perché, a differenza degli altri convertiti, Simone Weil scelse di non chiedere il battesimo e di non entrare nella Chiesa perché cattolico, com’è noto, si­gnifica universale, ed è proprio questo che per lei mancava alla Chiesa cattolica romana, l’esse­re pienamente universale, in grado di abbracciare gli esseri umani di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ciò che lei non poteva ac­cettare era la condizione parti­colare, talora persino settaria, che ai suoi occhi l’essere cattolici romani comportava.

[18] L’intervento di E. O. Springsted (professore di Teologia alla Princeton University, USA e pastore presbiteriano) dal titolo Il Battesimo. Quando e perché, si trova alle pp. 291-300.

[19] Jacques Cabaud fu il primo a sostenerlo nel 1967, nel libro Simone Weil á New York et Londres, anche se non citò la fonte di tale informazione né diede molti dettagli. Nel 1971 Wladimir Rabi, redattore del giornale Ebreo Les Nouveaux Cahiers, pubblicò un completo resoconto.

[20] Per la testimonianza completa: «The Baptism of Simone Weil» in Spirit, Nature and Community: Issues in the Thought of Simone Weil,Albany: State University of New York Press, 1994.

[21] E. O. Springsted, art. cit., in Persona e impersonale, cit., 294.

[22] L. BORDIN, Il reale e il soprannaturale, in M.C. BINGEMER – G. P. DI NICOLA, Simone Weil azione e contemplazione, 106-116.

[23] Come scrivono G. P. di Nicola e A. Danese, nelle conclusioni della loro Premessa agli Atti: «L’accento sull’impersonale, a fronte delle denunciate inflessioni nichiliste e gnostiche, riconduce alla volontà di prendere le distanze da quegli egocentrismi idealisti, personalisti, esistenzialisti, nietzschiani, nichilisti, che distorcono la visione della realtà e ostacolano la capacità di rifiutare gli idoli dell’io e del noi, delle pseudo sintesi e del nulla. L’impersonale è la barriera weiliana contro l’idolatria… Grazie all’impersonale, il pensiero di Simone si mantiene libero e attento, sempre pronto a riconoscere e accogliere la Grazia, che viene d’altrove» (Persona e impersonale, cit., 5-6 ).