Cari amici,
Vogliate trovare qui l’espressione della mia viva riconoscenza nei confronti dell’Università di Stato di Rio de Janeiro per l’organizzazione del colloquio che associa il mio nome a quello di Simone Weil. Non dimenticherò mai la scoperta dell’opera di Simone Weil attraverso il libro La pesanteur et la gràce, in cui ritrovavo l’eco del pensiero del mio maestro Gabriel Marcel, ma un’eco che era anche il suono proprio e inimitabile di una voce che si elevava da una esperienza di sofferenza e di intensa meditazione su questa sofferenza. In seguito, la pubblicazione della sua opera dispiegava passo passo un incredibile affresco schizzato in un così piccolo numero di anni.Consentitemi di sottolineare un solo tema che mi permetto di considerare comune tra lei e me. Quello della radice greca e della radice biblica giudea e cristiana.Se è legittimo parlare di un’ermeneutica della cultura, è al riguardo dell’incontro con queste buone radici.È un incontro nel senso che la nostra cultura ha due origini distinte e irriducibili. Il loro incrocio ha generato un essere culturale originale che unisce, senza confonderle, le due radici della nostra cultura. Questo essere culturale originale, a sua volta, non si perpetua che nella misura in cui i testi fondatori dell’una e dell’altra origine sono continuamente reinterpretati in funzione delle nuove attese dei lettori e degli inattesi ascoltatori. È in questa storia della ricezione che si congiungono la fedeltà al passato e l’audacia creativa, la tradizione e l’innovazione. Da una parte, la tradizione non è un deposito morto e immobile, ma una risorsa inesauribile, la cui ricchezza non si rivela che a misura della capacità di ricezione e di reinterpretazione degli uomini di oggi. D’altra parte nulla crea nulla; la libertà umana resta una libertà regolata dalla ripresa di ciò che ci è stato trasmesso. A questa dialettica della tradizione e dell’innovazione bisognerebbe aggiungere un’altra dialettica, forse più difficile da mediare, tra l’universale e lo storico. Se si vuole ammettere che lo storico è il frutto della dialettica precedente, l’universale esprime la dimensione critica senza la quale il passato non sarebbe sottomesso alla valutazione e il futuro non sarebbe comunicabile. In un’epoca in cui le identità culturali si fanno più angoscianti e talvolta più aggressive è necessario preservare la vivacità di questa dialettica che salva l’universale dall’astrazione sterile e lo storico dalla sua tendenza a chiudersi su se stessa.Tradizione e innovazione, universalità e storicità, queste sono le due dimensioni maggiori di un’ermeneutica della cultura. Quanto all’etica, essa attraversa le due dialettiche considerate nella figura dei due predicati del buono e dell’obbligatorio, che, a loro volta, danno luogo ad una terza e feconda dialettica, tra la componente teleologica del ben vivere e la componente deontologica che trova nella forma negativa dell’interdizione – non uccidere, non mentire–la sua espressione non equivocabile. Forse non è indifferente sottolineare che è la violenza che ci impedisce di dimorare all’ombra dell’ottativo della vita buona, condivisa anche nell’amicizia e nella giustizia che costringe gli altri e noi a passare dall’auspicio all’ingiunzione.Ora, che cos’è la violenza se non la sofferenza inflitta dall’uomo all’uomo? È lo spettro della sofferenza subita e inflitta che ci riconduce all’esperienza principe che ha messo in moto il pensiero di Simone Weil e che ella chiamava la sventura (le malheur). E la sventura che ci riconduce alla radice greca, sotto la figura della tragedia, e alla radice biblica del salmo dell’afflizione (Sal. 22).
Paul Ricoeur
Parigi settembre 1993
sull’argomento si rinvia ad articolo di A. Lorenzon, Prospettiva Persona n.8(1994), pp.64-67