di Maria Teresa Barnabei, Agosto 2024, Atile Edizioni
“La poesia non serve a niente, ma proprio per questo è indispensabile”, secondo la scrittrice e giornalista Maria Grazia Calandrone, che si inserisce in un dibattito plurisecolare sull’utilità/inutilità della parola poetica, oggetto anche di una millenaria speculazione filosofica a partire da Platone e Aristotele fino a Cacciari, che in una lectio Magistralis del 2008 ne ha sostenuto la assoluta necessità per impedire che il linguaggio si esaurisca, sintetizzandosi in un significato univoco (quello scientifico-tecnologico).
Addirittura, nel 1916 il poeta/soldato Ungaretti definì la poesia “…il mondo l’umanità la propria vita” ( nei versi indirizzati ad Ettore Serra sotto forma di lettera, Commiato) e conferì alla parola poetica circondata di silenzio e isolata nella pagina bianca il potere di scavare nell’abisso dell’anima perché più efficacemente semantizzata.
Non a caso ho citato Ungaretti, modello letterario privilegiato del primo decennio della produzione poetica della docente e scrittrice Maria Teresa Barnabei, 1950/’60, quando lei era appena adolescente. Ora questa prima versificazione, non la primissima che è andata perduta, è compresa in una raccolta di 90 poesie suddivise per decenni fino ad oggi, pubblicata nell’ agosto di quest’anno da Atile edizioni
Il titolo è già poetico di per sé e fortemente evocativo, sebbene ricorra ad un simbolo dalla valenza realistica, che rinvia alla concretezza della vita quotidiana :”L’ orto della mia vita”. E’ la stessa autrice a chiarire nell’introduzione il senso della metafora. ”Nella consuetudine del mio ambiente paesano e nel ricordo infantile la frase “fare l’orto”… era non solo il coltivare piante di sapori e di profumi … ma quasi sempre … significava un luogo del cuore nel quale si assaporava la vitale dolcezza di ciò che nasce anche per le nostre cure”. Nei versi di “Zappe” (ultimo periodo, 2023, pag.135) si può ravvisare la genesi del titolo, insieme ad una vera e propria dichiarazione di poetica: “Con le zappe dei miei ricordi/coltivo l’orto della mia vita./Rivolto la terra dei giorni vissuti/la innaffio con l’acqua/[…] dei sentimenti provati/affondo e sostengo le mie radici/strappo le erbacce dei miei rancori/do spazio e aria ai rami sacrificati/li riparo dai venti e da geli e ardori./E’ così che crescono le erbe odorose/che insaporiscono le sciape/e, a volte, amare/consuete pietanze quotidiane.”
Nell’introduzione si può rinvenire anche un personale contributo della scrittrice sul dibattito relativo all’utilità/inutilità della poesia citato in apertura: “Ormai da più parti si parla di valore terapeutico della poesia che permette ai componimenti o, meglio, ai tentativi poetici non solo di sublimare gli impeti delle emozioni, e le oscillazioni dei sentimenti … , ma servono anche a potenziarne l’intensità comunicativa con il nostro io e con quello degli altri e a rafforzare la dolcezza umana della solidarietà … “
La riflessione su Dio e la religione (Tu, pag.66), sulla natura nei suoi aspetti vegetali e animali (La sera, pag.99; Notte di terremoto, pag.111), sul paese come luogo delle radici, della memoria e degli affetti (Sopra le croci del mio paese, pag.27) percorrono tutta la raccolta come tematiche privilegiate, indagate nella loro ambivalenza di esiti positivi e negativi, di problematicità filosofica. Una certa vaghezza metafisica e suggestiva nell’osservazione e nel linguaggio si accompagna sempre alla precisione del dettaglio, al nome scelto con rigore scientifico per quel fiore, quell’animale, quell’albero, in un connubio contrastante che ricorda le descrizioni pascoliane.
Ma non c’è la chiusura pascoliana nei recinti del nido famigliare, le radici non sono steccati che isolano, bensì vie che spalancano orizzonti e si aprono al mondo.
Dopo gli anni ’70 si affacciano le tematiche sociali e politiche, che sostanzieranno i versi fino alla fine, irrorando l’ispirazione dell’autrice parallelamente al suo impegno con il partito e con il sindacato, senza però offuscare minimamente l’impegno culturale e scolastico. Nei componimenti si riversa l’adesione alle lotte politiche e femministe (La parola non detta, pag.48) con l’ardore della partecipazione emotiva, lo sdegno per le ingiustizie, le guerre, la condizione precaria dei giovani, la prima generazione ad avere un presente e un futuro peggiore di quella precedente (Ragazzi, pag.70; Quando annotta, pag.102).
Si intrecciano a temi intimistici, alla famiglia, marito, figli e nipoti, gli affetti più cari, che la scrittrice non ha mai trascurato pur nell’impegno pluridirezionale, tratteggiati con echi gozzaniani di un lirismo delicato e affatto compiaciuto (Il tempo degli addii, pag.56; Nonnitudine, pag.128).
Una musicalità intensa ma non barocca accompagna il pathos dei sentimenti con un ritmo aderente alle parole e alle situazioni, senza rime tranne che in due testi, ma con rimandi di rime interne, assonanze e consonanze che formano una trama musicale.
La raccolta si conclude, anche se in realtà è la penultima poesia, con il componimento “E invece” (pag.139), denuncia di sconfitta della sua anzi della nostra generazione, espressione accorata della delusione politica raccontata in prosa nel recente romanzo “Era il tempo dei sette venti (2021) e incarnata da Alfredo, alter ego di Teresa. Avevamo un sogno:/la Terra tutta/come un prato di montagna/con il bianco del fiore di achillea/a illuminare il viola del cardo/e a ricevere il sole del botton d’oro,/la ruvida asperità/del cardo a carezzare/la leggerezza aerea del soffione. /[…]E invece/ognuno alza le siepi/intorno al suo giardinetto/monocolore/[…]/e la luce dell’orizzonte/è solo il bagliore/dei missili di guerra./…