La beatitudine come felicità negli ultimi canti del Paradiso di Dante

(Dalla relazione pronunciata nella premiazione del Certamen dantesco della fondazione Celommi, 22 aprile 2024)

Parte II

Come viene rappresentato questo uomo ora compiuto, finito ? Accompagnano tutta la descrizione delle emozioni e dei sentimenti il tremito dell’ineffabile che colora di evanescenza tutta la visione e che spinge il narratore a ricorrere al ricordo dei beati, quasi per una pausa di consolidamento conoscitivo, e poi la pienezza del godimento dei colori, nell’immagine della candida rosa che nelle sue tonalità e nelle sue linee di disposizione è sul piano intellettivo un’immagine oppositiva antifrastica al disordine ingiusto della società terrena

Difatti la diffusa descrizione nel canto XXXI della simmetria nella collocazione dei beati oltre a rappresentare un ordine provvidenziale, contribuisce a intensificare un senso di armonia ecumenica insieme alle parole rassicuranti di san Bernardo sul felice approdo del destino umano quando si conforma al volere divino. Si potrebbe concludere con il Gianni che la visione nei canti della beatitudine apparentemente centrata su Dio come protagonista ha in qualche modo come protagonista centrale l’uomo in tutta la sua interezza intellettiva e sensitiva, l’uomo che nella sua condizione di drammatica contraddizione fra la ricerca di comprensione dell’Essere, fra molteplicità e totalità si incontra e scontra, senza mai arrendersi, con il contrasto fra i limiti delle sue relatività e la vastità imprendibile dell’Assoluto. Per la drammaticità e la grandezza stessa di questa contraddizione esistenziale che Salvatore Battaglia definisce “destino dilemmatico dell’uomo”, l’essere umano, come già annunciato nell’Ulisse infernale, non può fare a meno di aspirare alla conoscenza come suprema felicità ma se anche, per grazia, può arrivare alla conoscenza totale, non può trattenerla nella memoria come possesso perenne da spendere autonomamente.

Si tratta allora solo di una posizione intellettuale ed etica di credente che riconosce con umiltà i ruoli diversi del divino e dell’umano? Direi di no, in questa condizione dilemmatica l’uomo è presente non solo come intelletto ma nella sua pienezza esistenziale di sensi, emozioni, sentimenti ed è a questo punto che viene alla mente uno dei motivi ispiratori dell’azione umana cioè il desiderio di conoscenza della verità così come rappresentato con la sua imponenza incoercibile nelle tragedie di Sofocle. L ‘approdo di questo cammino al quale la natura umana non può sottrarsi appare tuttavia ben distinto nei due poeti. Per Sofocle la conoscenza ha l’eroica sofferenza del dolore come testimonia in modo illuminante la figura di Edipo, per Dante alla luce della Grazia divina, una volta superata la distorsione del peccato, con la conoscenza si arriva non solo alla pienezza dell’intelletto umano e del raggiungimento di un’armonia etica (Tu m’hai di servo tratto a libertade XXXI vv85), ma anche al vertice della sensibilità in tutte le sue forme con il dono della beatitudine pur davanti alle porte dell’ineffabile. E’ così che nel trionfo umano e non solo dell’espressione del canto XXXIII, nel ritmo mosso della descrizione, il declinare quasi malinconico sottolineato dalla minuta figura infantile Omai sarà più corta mia favella pure (vv105-08) a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua a la mammella nel riconoscimento dei limiti aggiunge non sottrae valore lirico all’espressione. Poi ancora una volta con i versi 115-120 si torna all’elevazione di tono in un sostenuto solenne che ha bisogno per esprimersi anche dell’invocazione e dell’esclamazione Oh abbondante grazia…(XXXIII v82) Oh quanto è corto il dire… (XXXIIIv121) e nella malinconia per la piccolezza dell’uomo sa anche riconoscere la sua grandezza in quella effigie stampata sul cerchio del Figlio in te come lume riflesso, – da li occhi miei alquanto circunspetta – dentro di sé, del suo colore stesso – mi parve pinta de la nostra effige (vv.128-131). Al culmine della visione sottolineato dall’incisività delle multiple allitterazioni in rotante e spirante tre giri di tre colori (vv 116-119o), luce eterna che sola in te sidi (vv124-125) e nella martellante ripetizione del “te”, si avverte netta la meta del percorso ma anche la sua fine.

Rimane, come promessa della fede ma anche come sicurezza dell’amore divino, il completamento della grandezza del destino umano annunciata già nell’Inferno. Bisogna notare che anche lo scenario intorno: il paesaggio è al culmine della sua compiutezza. Nell’armonia universale del cosmo, il girare della rota igualmente mossa” (XXXIIIv.144) delinea nella visione provvidenzialistica una umanità nuova e compiuta inserita positivamente nella luce di un cosmo perfetto. Sembra così attuarsi un chiusura della spirale dell’esilio per il peccato originale nell’approdo al paesaggio della beatitudine che supera perfino la bellezza dell’Eden attraverso una condizione che nell’uomo è la consapevolezza drammatica e conquistata della libertà quasi come partecipazione creativa. Ed è tutta la creazione che si muove nell’armonia della beatitudine già evidenziata nel primo canto del Paradiso, cosmo unificato e animato con mirabile equilibrio simmetrico dall’Amore divino che appella e include attivamente anche l’uomo.

Da parte del poeta Dante, dopo la drammatica ascesa, una glorificazione che sembra aprire la via lucente dell’Umanesimo