Qual è questo nuovo, immane dolore?
Immane sventura si prepara in questa casa.
(Eschilo, Agamennone,ep.IV – strofe IV)
Ci voleva il carisma del “nostro” Di Bonaventura perché la tragedia greca tornasse ad essere rito collettivo come per la Grecia in antico, e una sala fosse inusitatamente colma di pubblico in un territorio in catalessi culturale, in un giorno da segnare con bianca pietruzza.
E ci voleva la passione di bravi discepoli-attori, guidati dal ragazzo del secolo scorso, il Vincenzo furens, regista e attore-testimone indomito che oggi nell’eschileo Agamennone si fa corifèo: il saggio, dubbioso vecchio argivo che interroga, diffida dei segnali fallaci (Uso da tempo il silenzio per medicare le pene); che parteciperà poi della vittoria argiva e gioirà del ritorno del suo re, sarà pietoso con l’allucinata Cassandra principessa e preda di guerra (Perché queste grida d’orrore? Perché l’anima s’adombra?); assisterà infine al compiersi del fato sanguinoso di una stirpe maledetta, vaticinato dalla profetessa inascoltata.
E una tragedia giovane di quasi 2.500 anni (458 a.C., secondo anno dell’ottantesima Olimpiade) ci parla, con le voci di questi interpreti, dell’eterna sorte dell’uomo: così del suo smarrirsi incolpevole nell’intrico di circostanze che lo sovrastano e travolgono, come del suo affacciarsi sugli abissi del proprio animo e viverne fino in fondo l’orrore.
Il coro degli argivi, il corifèo, l’araldo, Clitennestra e Agamennone, Cassandra, Egisto: elementi della scacchiera sulla quale il tragediografo ha montato “la macchina dell’angoscia”; una tensione sospesa che dal preludio dei silenzi notturni in cui la sentinella spia i segnali dell’attesa vittoria su Troia dopo un decennio di guerra – Attendo dagli dei la liberazione da questo fardello: da lunghi anni ogni notte dal tetto degli Atridi [..] contemplo i convegni notturni degli astri – passa all’esultante annuncio da parte della regina: la lunga teoria di fiaccole accese dai tedofori sulle cime montuose che separano Troia da Argo dice che Troia è caduta e distrutta; si placa con l’arrivo del re vittorioso e nell’ambiguo gioco psicologico tra il raggelato, tronfio Agamennone e la regina con la sua compressa sete di vendetta per Ifigenia immolata dal padre come candido agnello sull’altare della ragion di stato; si innalza nuovamente nell’oscura angoscia del Coro – Perché svolazza qui davanti al mio cuore presago un’ombra paurosa? – dinanzi ai furenti vaticini della profetessa; culmina nel compiersi del fato: Agamennone e Cassandra trafitti, la regina trionfante sul fiume di sangue che imporpora il trono.
La tragedia si chiude, ma si posano sulla tracotanza di Egisto, sulla tetra alterigia di Clitennestra, le parole del Coro presago dell’ulteriore vendetta che Oreste compirà sui due assassini: poichè sarà ancora la legge del genos – il delittoche reclama vendetta in un’inestinguibile catena di sangue – ad occupare la seconda tragedia dell’Orestea, Le Coefore; solonella terza e ultima – Le Eumenidi – con l’assoluzione di Oreste da parte dell’Areopago, la cultura del genos (il clan, la stirpe, la famiglia) si sottomette alle leggi della polis, dunque della comunità civile e politica.
Straordinaria modernità di Eschilo che fa, del mito, teatro di poderosa efficacia scenica e spettacolare, e sul mito innesta la concretezza della Storia e la sacralità delle istituzioni.
E nel farlo ci consegna, al tempo stesso, figure poetiche eterne: nell’abisso interiore di Clitennestra, negli smarrimenti dell’antagonista Cassandra ritroviamo l’intrecciarsi del sublime e del tragico che attraversa in ogni tempo l’ininterrotto fluire della vicenda umana.
Lasciamo tardi la sala e portiamo con noi l’eco della bellezza. E ci appare senza tempo questa limpida notte di maggio: lontana dal nostro presente feroce e disumanato, dalla guerra ancora scelleratamente “sola igiene del mondo”, dalla sguaiata barbarie di ritorno rozzamente mascherata di civiltà.