Non cancellate mai più il bosco

Non cancellate mai più il bosco

Non cancellate mai più il bosco

Indugio in silenzio nel ventre del bosco immortale,

ma sul perimetro di un bosco raso al suolo devo urlare,

gridare fino a che la voce mia diventa roca.

Destrutturato, sei stato portato via a pezzi.

I signori dello sterminio ti hanno venduto

come ghiaia di fiume senza soffio vitale,

incuranti della libertà celata nel tuo profondo.

Io continuo a raccontare il tuo odore

anche ora che ti hanno espiantato.

Mistero grande la morte che s’intreccia

con certe attitudini umane a creare racconti.

L’urlo del bosco

Ora abito lontano, ma non abbastanza dal tuo magico luogo, dove da sempre vivi e riposi. Da qui non posso sentire il dolce fruscio delle tue fronde al vento, né vedere i tuoi sostenibili intrecci, ma sicuramente, se volgo lo sguardo verso nord, mi perviene la tua aria leggera, fine e purificata dalle tue chiome verdi, racchiuse nel tuo perimetro stretto, variegato, antico: una enciclopedia vivente illustrata, fatta apposta, prima, per generazioni analfabete e poi, per una società variamente acculturata.

Parte dei sogni miei notturni sono ambientati lungo i tuoi percorsi ombrosi e muschiosi, mentre da sveglia, a lungo li ho percorsi gioiosamente alla ricerca apparente di funghi, mentre, in maniera più autentica, sono stata una perfetta raccoglitrice del Paleolitico, o anche una Pigmea odierna, che impeccabile si metteva a stretto contatto con la natura non addomesticata e all’interno di una piccola banda prima, e in avanzata solitaria, accompagnata dall’amico quadrupede fedele, più tardi – curioso e risolutivo nelle circostanze più imprevedibili – m’incamminavo, esploravo piante, piantine, ghiande atterrate con cappuccio liscio e cappuccio riccio, galle. Scovavo chiocciole, che leste al tatto ritraevano le antenne e quando le sollevavo per spostarle in luoghi ritenuti più sicuri e protetti dai miei stessi passi, sparivano definitivamente entro le loro case spiralate.

Le conchiglie vuote, invece, quelle belle e lucide, erano la mia ricompensa e me le portavo a casa.

Nelle aree ombrose le pupille, istantaneamente e involontariamente divenute più grandi a causa della scarsa luce soffusa, continuavano a guidarmi nella ricerca delle piccole cose, mentre intenzionalmente fiutavo l’odore grasso di humus e il mio amico peloso drizzava le orecchie al frullo delle ali di un uccello che si alzava in volo. Negli spazi erbosi, dove la luce meglio filtrava dalle fronde alte, frenavo la marcia e lo sguardo indugiavo più a lungo sulle cortecce scabre, cercando di tra le fessure insetti curiosi mai visti prima, dalle antenne lunghe ed indipendentemente mobili, con occhioni globosi e prominenti come i fari delle allora rare automobili che spaurite si aggiravano in quelle zone interne non ancora pronte ad accoglierle.

Il bosco, l’altra mia casa, la libertà, la selva che andavo a cercare nel periodo prenatalizio per regalarmi un ramo d’abete o ginepro da trasformare in alberello di Natale, piccolo – quelli grandi li avevo all’aperto e addobbati di neve fresca e scintillante – per adornarlo dei soli frutti della terra, pigne, ghiande, galbule di cipressi, sorbe rosse e gialle. Dal mio amico Bosco tornavo in primavera a cercare viole e primule da portare a mazzetti alla maestra, unica e preziosa e poi d’estate, ogni volta che volevo fare una gita fuori porta e allora sì, entravo nel mio mondo di fiaba.

Mio nonno, nato nell’ottocento, tante volte mi ha raccontato le sue storie di giovane uomo e le storie di suo padre e di suo nonno, uomo, quest’ultimo, nato nel settecento, ma tutti vissuti ai bordi di quel bosco, sostenuti in qualche maniera dalla vitalità dello stesso e, simmetricamente, ogni generazione ha sempre a lui reso un rispetto sincero, quasi fosse un grande signore dotato di un’anima profonda e magica che a giusto titolo andava, altresì, preservato dalle calamità naturali e dagli incendi, giacché nel suo ventre tutto s’apprende e le fiabe più belle nel suo profondo riposano. Io stessa, quando ho avuto la necessità di elaborare il mio erbario, in appoggio alla mia tesi di laurea, nel suo cuore mi sono tuffata e da lì, nel pieno della sua prolifica e incontaminata biodiversità, ho estratto le perle più preziose, Ginepro comune, Ginestra odorosa, Primula comune, Equiseto massimo, Ruscus aculeatus, Asteriaceae, Betulaceae, Caprifoliaceae, Cistaceae, Convulvaceae, Euforbiaceae, Fabaceae, Hipericaceae, Iridiaceae, Liliaceae, Malvaceae, Oleaceae, Orchideaceae, Ranuncolaceae, Rosaceae, Rubiaceae, Salicaceae, Urticaceae, Violaceae, Vitaceae.

Ah, Bosco, mio Bosco, avresti potuto diventare una riserva naturale, storica e naturalistica e in effetti lo eri, così come una coppia di fatto, coppia è. Nei secoli ti sei trasformato in una perfetta biocenosi, incastonato come una perla, in un mosaico di
campi coltivati a vigneti, uliveti, orti, frumento e ora campi sempre più incolti, siepi, fossi, perfetti habitat naturali. Hai rappresentato un’impeccabile casa per le numerose specie di uccelli: picchi, passeracei, beccacce, rapaci notturni e diurni; per i mammiferi: topo quercino, moscardino, puzzola, riccio, volpe, scoiattolo, donnola, tasso. Cielo azzurro e al di sotto un unico corpo boschivo dove da secoli ogni giorno i beati si appagano nel sole, fino a quel mattino di fine inverno, quel mattino che la quiete è stata squarciata dalle grida pari ai cento e più decibel uscite dalle bocche infuocate delle motoseghe che superano la soglia del dolore, dolore, tuttavia, inferiore alle grida d’aiuto lanciate al cielo da un intero bosco stupefatto, incredulo, ferito.
Forse, voi dimoranti del bosco, siete stati sorpresi nel sonno, nella beatitudine dell’alba, ignari di cotanta cattiveria e superbia. Voi, esseri dal cuore gentile, non avrete fatto in tempo a dare un nome all’apocalisse che a tradimento, senza preavviso alcuno,
perpetrato da parte di chi notoriamente si definisce caritatevole, addosso vi si è abbattuta; ed e stata strage. Via i nidi, via le primule in fiore, via i nuovi germogli di asparagi, via il micelio fungino pronto a generare i buoni corpi fruttiferi. Via, via, via! Uccelli, lasciate i vostri nidi se volete salvare le penne! Grandi mammiferi, veloci sulle vostre quattro zampe a cercare
una via di fuga! Piccoli mammiferi, rinserratevi nei vostri anfratti, come tante volte nelle varie epoche storiche vi sarà accaduto fare. Scene conservate nella vostra memoria genica, validi sistemi di difesa; ma voi, mie amiche piante, radicate e ferme nella terra che vi nutre e vi sostiene, voi, vi siete consegnate, prigioniere fiere, arrese al potente di turno,
di rosso vestito, alla forza smisurata, alla brutalità, alla tortura, all’eradicamento.

Sulle onde lente smorzate in un ritmo cerebrale veloce e movimenti oculari rapidi, io in un sonno agitato, astrattamente avrò riconosciuto, oltre le regole dello spazio e del tempo, figure angoscianti, cariche di terrore e con voi, dimoranti del bosco, ho sofferto di un dolore di cui non conoscevo la causa, ma di cui ora posso sinceramente affermare d’essere paga di aver, almeno a distanza, sofferto e patito del vostro stesso dolore. Il grazioso popolo del bosco ancora a lungo patirà il tormento sotto quel pezzo di cielo azzurro crudelmente disboscato e voi, Uomini, non cancellate mai più nessun bosco.