Parole mezzo dimenticate e tanti ricordi.
Mi sovviene dapprima la “cama”, alias la pula o lòppa, l’involucro del seme del grano, di minor pregio rispetto alla paglia, ma che gli agricoltori, tuttavia, accantonavano per farne l’uso più opportuno. Il termine dovrebbe derivare dal latino desquamāre, che significa togliere le squame, scortecciare, pulire.
Veniamo poi alla “còcchjë o cùcchje”, italiano còclea, ovvero “buccia” dell’uovo, ma anche guscio della chiocciola, mallo della noce, corteccia di un albero ed anche crosta del pane, di un formaggio eccetera.
Deriva dal latino “cochlea” e dal greco κοχλίας (chiocciola) e, in anatomia, definisce anche la sezione dell’orecchio interno, configurata come una chiocciola, corrispondente al labirinto anteriore (Treccani).
Nel dialetto delle mie parti (Alba Adriatica e dintorni) i verbi “lussare”, “slogare” e “distorcere” erano nel passato praticamente sconosciuti. Al loro posto si usava dire “sdegnarsi”, ovviamente non nel significato di respingere o rifiutare. Quindi, dicendo “me so’ sdegnate ‘na mà”, si voleva spiegare di essersi procurata una distorsione alla mano. Secondo i linguisti Cortelazzo e Marcato – da me più volte citati – “in latino ‘indignāri’ significava “giudicare indegno/sdegnarsi”, ma poi, nella terminologia medica, assunse l’accezione particolare di “infiammarsi, irritarsi”, affermatasi poi in vari dialetti.
Ultima parola “lu rapillë”, ovvero la ghiaia sottile che ricopre i vialetti dei parchi o dei giardini. Deriva dal latino “lăpillus”, che vuol dire ciottolo, sassolino, ma anche, purtroppo, calcolo renale.