Reddito base universale

Più forte di mille eserciti è un’idea il cui tempo è arrivato”

Oscar Wilde

Il reddito minimo universale garantito (che da qui in poi chiamerò semplicemente reddito) è una somma di denaro destinata a ciascun individuo come diritto, non soggetta ad alcuna condizione, che consente di soddisfare le esigenze essenziali, come ad esempio cibo, alloggio, vestiti.

L’idea di garantire a ciascun individuo un reddito non è nuova. Già nel 1516 Thomas More nel suo libro Utopia, parlando della punizione inflitta ai ladri in Inghilterra, persino con la pena di morte, scriveva: “Si determinano contra i ladri gravi supplizi, quando piuttosto era da provvedere che avessero onde guadagnarsi il vivere, perché non venissero a così strana necessità di rubare, e poi perdervi la vita.” Il diritto di ciascun individuo a soddisfare i bisogni essenziali è sancito dall’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari […].”

L’idea ha trovato nel tempo vari sostenitori, tra cui eminenti economisti come Hayek, Friedman, Galbraith, attivisti per i diritti sociali come Martin Luther King, i fondatori di Facebook ed altri imprenditori della Silicon Valley in California, Elon Musk, questi ultimi più per ragioni pratiche che etiche dettate dai rischi connessi con l’automazione e digitalizzazione dei processi produttivi e con l’inarrestabile ascesa dell’intelligenza artificiale, la quale è in grado potenzialmente di sostituire anche alcune occupazioni nel settore dei servizi. Le ragioni etiche e filosofiche per cui sarebbe opportuno introdurre una tale misura di welfare sono però altre: giustizia sociale, libertà e sicurezza economica (Guy Standing, 2017).

Molti critici sono giustamente preoccupati del fatto che sarebbe insostenibile dal punto di vista finanziario. Premesso che, ovviamente, questo dipende dal livello di reddito che si vuole fissare, in realtà le risorse finanziarie potrebbero essere racimolate senza smantellare il welfare esistente e senza neanche stravolgere i livelli di tassazione attuali, creando ulteriori risentimenti tra i contribuenti. Una proposta interessante su una potenziale fonte di finanziamento riguarda il cosiddetto dividendo sociale. L’origine di questa idea si può far risalire a Thomas Paine che nella sua opera “Agrarian justice” (1797) proponeva un fondo comune da cui attingere per garantire un reddito minimo a tutti: “È incontrovertibile che la terra, nel suo stato naturale incolto era, e sempre sarebbe continuato ad essere, la proprietà comune degli uomini…è soltanto il valore associato al suo miglioramento, e non alla stessa terra, che è oggetto di proprietà individuale. Ogni possessore, pertanto, di terre coltivate, deve alla comunità un canone per i terreni che possiede; ed è da questo canone che il fondo proposto in questo piano deve essere istituito”

Questa proposta ha ispirato più tardi Henry George che nella sua opera del 1879, Progresso e Povertà, proponeva una tassa unica sul valore fondiario, avviando la filosofia economica detta Georgismo. Il dividendo sociale può applicarsi anche allo sfruttamento delle risorse naturali. Ad esempio, nel 1976 lo Stato dell’Alaska negli Stati Uniti ha introdotto un fondo pubblico permanente sancito dalla Costituzione per cui una frazione del fatturato prodotto dallo sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio nel suo territorio è distribuito a tutti i residenti dell’Alaska che in questo modo ricevono ciascuno circa $ 2000 dollari all’anno. È considerato anche il primo esempio di reddito universale garantito. Anche la Norvegia dal 1990 ha istituito un fondo comune basato sullo stesso principio che ammonta complessivamente al 2021 a circa $ 250000 per ciascun cittadino norvegese (Wikipedia). Questi fondi nazionali sono destinati ad esaurirsi con la transizione energetica ed ecologica dell’economia. Ma lo stesso concetto può estendersi ad altre risorse naturali che saranno critiche per la transizione stessa, come ad esempio minerali e terre rare per la produzione delle batterie.

Ma come si declina il concetto di dividendo sociale nell’economia digitale del XXI secolo? Il dividendo sociale oggi dovrebbe riconoscere il fatto che la ricchezza prodotta è il risultato di uno sforzo collettivo che si è accumulato di generazione in generazione e che quindi una parte dell’utile prodotto dovrebbe essere equamente distribuito tra tutti i membri della società. Bisogna ribaltare il paradigma, molto popolare, secondo il quale la ricchezza è prodotta dal privato e appropriata dallo Stato; in realtà è esattamente vero il contrario (Varoufakis), la ricchezza è prodotta collettivamente e poi appropriata dal privato.

Prendete un cellulare o un computer o anche internet. Ogni invenzione o brevetto che ha reso possibile lo sviluppo di queste tecnologie è stato reso possibile grazie a finanziamenti pubblici alla ricerca. Non sarebbe giusto, pertanto, che una frazione anche piccola dei profitti delle società private che si sono appropriate di queste tecnologie venga distribuita come dividendo sociale a tutti i membri della società che hanno contribuito al loro sviluppo? Un altro esempio: considerate i grandi social media come Facebook, Twitter, Instagram o il motore di ricerca Google; il valore aggiunto prodotto da questi social media deriva essenzialmente dai dati e dalle informazioni che ciascun utente deliberatamente fornisce.

Altri canali di finanziamento potrebbero derivare dai cosiddetti “green dividends”. Questi si possono declinare nella forma di carbon tax o anche semplicemente mediante la rimozione dei sussidi alle fonti fossili. Costituiscono un risarcimento da parte del soggetto responsabile dell’inquinamento nei confronti della collettività per gli effetti negativi sulla salute umana. In economia quanto appena detto corrisponde alla definizione di esternalità negativa e la carbon tax costituisce quello che tecnicamente si chiama imposta pigouviana, dall’economista Pigou che per primo la formalizzò.

La lotta all’evasione e all’elusione fiscale potrebbe fornire altre risorse importanti. Tax Justice Network ha stimato che il Regno Unito perde circa 27 miliardi di dollari all’anno a causa dell’elusione fiscale delle multinazionali che utilizzano paradisi fiscali a tale scopo (si veda in merito l’articolo del 15 Novembre 2022 pubblicato sul The Guardian, “Global corporations ‘cheating public out of billions in tax’, say campaigners”). La European Tax Observatory, prendendo ispirazione dal recente accordo di più di 140 paesi del mondo su una tassa minima globale del 15% applicata alle multinazionali, ha proposto una tassa minima globale del 2% applicata al patrimonio dei 2756 individui più ricchi del mondo (stimato pari a 13000 miliardi di dollari) in grado di assicurare circa 250 miliardi a livello globale all’anno (si veda in merito l’articolo del 23 Ottobre 2023 sul The Guardian, “EU-funded report calls for wealth of super-rich to be taxed, not income”).

Il reddito avrebbe la funzione di integrarsi con l’attuale sistema di welfare. Alcuni liberali vorrebbero completamente sostituirlo con il reddito ma questo probabilmente non sarebbe auspicabile perché, sebbene imperfetto, il welfare ha comunque alcuni pilastri che vanno preservati e adeguatamente finanziati come sanità, istruzione, tutela dei disabili ed altri servizi sociali. Certamente però il reddito eviterebbe ai percettori situazioni di disagio e umiliazione dovuti allo stigma sociale, ad una burocrazia che ingerisce pesantemente nella sfera privata per accertare criteri di merito e condizionalità. Per non parlare del fatto che spesso i sussidi nell’attuale sistema non raggiungono tutti quelli che ne avrebbero bisogno.

Il reddito rafforzerebbe le libertà individuali, restituendo a ciascun individuo la capacità di essere pienamente padrone del proprio destino e la possibilità di poter scegliere senza essere soggetti a ricatti o condizionamenti dovuti a necessità o indigenza. Guy Standing nel suo libro “Basic Income: And How We Can Make It Happen” evidenzia come un reddito rafforzerebbe molte libertà tra le quali: la libertà di rifiutare o accettare un’offerta di lavoro, la libertà di rischiare per avviare una iniziativa imprenditoriale, la libertà di svolgere attività di cura in famiglia o attività di volontariato, la libertà di fuggire da situazioni di abusi o relazioni violente diventando uno strumento di emancipazione, libertà di formare una famiglia e di avere figli, libertà di restare nel luogo che si ama. Aggiungo anche che il reddito sarebbe un incentivo all’indipendenza ed autonomia dei giovani, soprattutto italiani, che lasciano mediamente il nucleo famigliare di origine dopo i 30 anni!

Garantire a tutti la libertà di accettare o rifiutare un’offerta di lavoro vuol dire ridare forza e potere negoziale ai lavoratori, spesso isolati o vulnerabili a causa dell’indebolimento dei sindacati, contro datori di lavoro che offrono condizioni non dignitose o di sfruttamento. Alcuni critici ritengono che potrebbe essere un forte disincentivo al lavoro. In Italia la propaganda del governo in merito al reddito di cittadinanza ha insistito su questo punto arrivando ad etichettare la misura come “metadone di Stato” ed i percettori del reddito come “divanisti”, accusati di ricevere un reddito senza fare nulla in cambio (non mi pare che dicano la stessa cosa in merito alla ricchezza ereditata!). Io credo invece che il reddito sia un disincentivo allo sfruttamento del lavoro. Se vi dessero un reddito tale da garantire l’essenziale smettereste di lavorare? Io sono convinto che per il 99% delle persone la risposta sarebbe no. Il lavoro di qualsiasi tipo, pagato o non pagato come il volontariato o spesso lavori domestici e di cura, è una necessità intrinseca dell’uomo. La psicologia ha dimostrato che l’uomo per esistere deve sentirsi causa di un cambiamento, agente attivo nel mondo, vuole vedere che le sue azioni abbiano un effetto sulle cose del mondo, “un essere umano incapace di avere un impatto significativo sulla realtà smette infatti di esistere” (David Graeber, Bullshit jobs).

Il reddito ci farebbe probabilmente lavorare meno, il che ci consentirebbe di ritrovare un po’ di equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero, con effetti positivi sui livelli di stress, ansia e salute mentale ed in generale rafforzando il senso di comunità, solidarietà e tolleranza, in quanto nessuno si sentirebbe escluso ed ognuno partecipe della ricchezza collettiva. Nel 1930 Il famoso economista britannico John Maynard Keynes, nel suo saggio “Economic possibilities for our grandchildren“, prevedeva che nel 2030 le persone avrebbero lavorato al massimo 15 ore a settimana. Forse non sarà così, ma è certo che il modello di lavoro tradizionale è entrato in crisi. Ci sono certamente margini per ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, come dimostrato da alcune grandi aziende che hanno ridotto la settimana lavorativa a quattro giorni. Per non parlare dell’inutilità di alcuni tipi di lavoro che non danno alcun contributo alla collettività, non hanno alcun senso per quelli che lo svolgono e che, soprattutto, se dovessero scomparire nessuno se ne accorgerebbe (David Graeber, Bullshit jobs).

Il reddito farebbe una differenza enorme per chi vive in condizioni di povertà. I dati ISTAT sulla povertà per l’anno 2022 mostrano che sono in condizione di povertà assoluta poco più di 2,18 milioni di famiglie (8,3% del totale da 7,7% nel 2021) e oltre 5,6 milioni di individui (9,7% in crescita dal 9,1% dell’anno precedente). La signora Thatcher in un suo famoso discorso affermò che la povertà è una questione di difetto di personalità (in inglese “poverty is a lack of character”), in sintonia con una certa ideologia neoliberista che spesso degenera in disprezzo o addirittura odio nei confronti dei poveri. In realtà la povertà è semplicemente mancanza di denaro. In una brillante presentazione il giovane storico olandese Rutger Bregman (TED Talk disponibile su You Tube) confuta questa visione evidenziando come alcune ricerche abbiano dimostrato che il cervello umano in condizioni di povertà focalizzi le risorse mentali esclusivamente sulla necessità di assicurarsi la sopravvivenza (in inglese “scarsity mentality”) compromettendo la capacità di effettuare scelte razionali.

Il reddito migliorerebbe la sicurezza economica e mitigherebbe gli effetti negativi del precariato sulla vita delle persone (Guy Standing, 2011), soprattutto quelli connessi alla mancanza di un reddito stabile e sicuro nel tempo, tra i quali ansia, stress, alienazione, rabbia, frustrazione, anomia, mancanza di autostima, estrema incertezza, incapacità di programmare a lungo termine e, infine, scarsa capacità di memorizzazione, concentrazione, riflessione e quindi di formulare pensieri complessi. Il regista inglese Ken Loach nei suoi film ha fatto un ritratto oggettivo, realista di cosa voglia dire vivere nel precariato.

In Italia i contratti atipici precari sono stati introdotti nel 1997 con la legge Treu e poi nel 2003 con la legge Biagi, che ha anche introdotto le agenzie interinali. Non è un caso che dagli anni novanta abbiamo assistito all’ascesa dei partiti populisti e ad una polarizzazione estrema del dibattito politico. Il disagio sociale prodotto dalle condizioni precarie di lavoro e dalla conseguente incertezza esistenziale non può che produrre questa politica. Se non si pone rimedio alle cause che producono questo disagio e malessere diffuso la situazione non potrà che peggiorare. Se proprio dobbiamo arrenderci all’idea che la precarietà del lavoro sia una condizione ineluttabile nell’attuale sistema economico, allora è necessario allo stesso tempo ricompensare i cittadini con qualche forma di assicurazione universale che protegga gli stessi dagli effetti negativi del precariato per una questione di giustizia sociale, libertà e anche equità intergenerazionale.

Non vorrei far passare l’impressione che il reddito sia la soluzione a tutti i mali ma, certamente, potrebbe essere una componente essenziale per la soluzione di alcune questioni sociali ed economiche e potrebbe creare una società più giusta, umana, solidale, più altruista e tollerante. Garantirebbe una base economica solida sotto la quale non è possibile precipitare, un punto di partenza uguale per tutti da cui ognuno può prosperare sulla base delle proprie capacità e coerentemente alle proprie attitudini, aspirazioni, ambizioni e convinzioni.

Ho iniziato questo articolo con Utopia di Thomas More.

Le utopie hanno questa strana tendenza a diventare realtà.

Riferimenti bibliografici

Guy Standing, Basic Income: And How We Can Make It Happen, Penguin Books Ltd, 2017

Yanis Varoufakis: Basic Income is a necessity|DiEM25 (https://www.youtube.com/watch?v=B1eOVU61mZE)

David Graeber, Bullshit jobs, Garzanti, Milano, 2018

Guy Standing, The precariat: the new dangerous class, 2011

LE STATISTICHE DELL’ISTAT SULLA POVERTÀ – ANNO 2022:

You Tube, Poverty isn’t a lack of character; it’s a lack of cash, TED Talk by Rutger Bregman (https://www.youtube.com/watch?v=ydKcaIE6O1k)