Famiglia, non familismo

Anche in un tempo come il nostro così proiettato sul presente o sull’immediato futuro nell’assillo della risposta immediata, spesso ci rivolgiamo con uno sguardo lamentoso al passato attraverso il rimpianto. Con un sentire che molto spesso si presenta confuso e mistificatorio sovrapponiamo il volgerci all’indietro a quel necessario guardare avanti con uno sguardo lucido la realtà che ci sta di fronte e che non si ha il coraggio di affrontare forse perché non si sa o costa troppo governarla. Accade così che, di fronte a imbarbarimenti dilaganti anche nei rapporti interpersonali e perfino all’interno di quelle cellule genetiche della convivenza umana che sono costituite dalla famiglia, spendiamo molte delle nostre energie in analisi a volte poco produttive su quella che definiamo, a seconda dei punti di vista, distruzione o disgregazione o mutamento della famiglia.

La famiglia sicuramente é mutata nella sua struttura da patriarcale a mononucleare o nel suo insediamento, non solo spaziale, da contadina a urbana. Ed è innegabile che la famiglia sia una palestra di vita necessaria ed anche geneticamente culla di affetti e di protezione necessaria per imparare a camminare sul duro suolo della terra ma non è scontato che sia sempre senza incrinature, un mito edenico, un bene assoluto indifferenziato incontestabile al quale delegare ogni armonia esistenziale. Qualche volta, e ce lo grida con tono lacerante la cronaca, la famiglia può essere groviglio di oppressioni distruttive o violente oppure spogliazioni di personalità. Allora occorrerebbe forse dedicare maggiore attenzione a un elemento determinante della sua vita: la qualità dei rapporti personali che in essa si riesce a instaurare.

Certo é che appare piuttosto raro sentire sulla famiglia valutazioni rapportate al grado di civiltà da essa posseduto. Civiltà, s’intende, non definita dalle legittime e anche benefiche varianti spaziali e temporali di cultura ma civiltà in senso assoluto come categoria di eticità presente anche nelle famiglie cosiddette primitive. Civiltà come attenzione per l’altro, cura della sua libertà, rispetto della sua intelligenza, in definitiva amore per l’umanità di ciascuno, senza finzioni o strumentalizzazioni, senza calcoli di egoismi personali, senza cedimenti a pulsioni possessive e aggressive. Eppure è facile capire come i sentimenti così presenti e anche celebrati all’interno della famiglia, se non vi è innestato il gene benefico del rispetto mentale e morale della persona, non possano essere automaticamente forze solo positive. Anzi le vicende della vita e della storia ci ricordano spesso che anche la famiglia nei suoi vincoli di solidarietà può diventare nucleo di corruzione e deviazione delinquenziale, come la famiglia di ‘ndrangheta e di mafia.

Detto questo, non si può però ignorare che la famiglia resta la grande possibilità umana della crescita felice di intelletti, sentimenti, creatività e della formazione di esseri umani positivi, figure belle nel grande affresco sempre sorprendente della civiltà umana. A patto che in essa i sentimenti siano nutriti di ragione, che i legami siano governati dal rispetto, che ci si guardi con amore per scoprire reciprocamente la luce dell’intelligenza e che la parola sia un felice, giocoso o meno, atto di comunicazione vera. Su questo aspetto forse più che la scienza è stata la letteratura a darci le analisi più incisive e profonde, sia in senso positivo che negativo. Mi vengono alla mente due esempi noti a tutti: la famiglia di Gertrude, la futura monaca di Monza ne I Promessi Sposi scandagliata nei suoi disvalori con precisione chirurgica dalla penna di Manzoni e l’immagine della civile e ironica famiglia torinese che l’ariosa penna di Natalia Ginzburg ci ha consegnato in uno dei suoi libri più belli “Lessico Famigliare “del 1963.