ontinuo ad affrontare l’ argomento “ correnti artistiche” nella speranza di giungere, io per prima, ad una più chiara visione delle loro interdipendenze o meno.
Il primo, l’Espressionismo, significò rifiuto di schemi, scuole, interposizioni stilistiche e altro che non fosse la propria sensazione per “esprimerla” (omen – nomen) così come era nata. Ed era per lo più dolente, ritorta su se stessa, marcata da esperienze drammatiche. Inizia con la corrente dei fauves, belve, che denunziano un’aggressività e una sofferenza interiore, capaci di esprimere un artista del calibro di Van Gog. In questo filone artistico, come altrove, si trovano linee di convergenza con altri momenti e differenti volontà espressive negli autori stessi.
Al dilà quindi di una facilitazione storico – euristica sulle sinergie culturali, cioè sul come, quando e con chi un determinato soggetto abbia operato, nulla resta di assoluto, forse neanche nella volontà di chi fonda, per così dire, e dà inizio ad un movimento.
L’Impressionismo, che precedette il primo, era, al contrario, volontà di isolare momenti di gioia così come capitava di avvertirli nell’anima e fermarli sulla tela, rapidi, freschi, colorati, luminosi. E’opinione condivisa che sia stata proprio la “luce”a farla da padrona ed indirizzare l’operato di quei maestri tanto che Monet sentiva di dover finire presto ciò che stava dipingendo per timore che essa, continuamente mutante, modificasse tutto l’accordo dei colori, delle ombre e dei sentimenti, mutando la percezione originaria. Di qui sorgeva la necessità di dipingere rapidamente e quindi ridurre il dettaglio dei particolari. Tutto questo non era tecnica ma scelta sentimentale, preferenza, principio d’arte espresso nel celebre titolo dato all’opera di uno di loro, Claude Monet, Impression du soleil levant, dal quale prese nome l’intero movimento e che i barbogi detrattori dell’epoca usavano invece… per prendere in giro.
Anche qui, dentro questa essenzialità della luce da tutto il gruppo sentita, dentro questo irripetibile bouquet di “grandi” si nascondeva tanto altro, dal romanticismo all’estetismo all’espressionismo, al surrealismo, al verismo.
Tornando all’ espressionismo, si dovrebbe per esso intendere piuttosto l’espressione di uno stato psichico, qualche volta psicotico che interpreta ciò che vede secondo le reazioni istintive dell’animo e lo conforma o deforma a seconda di esse: vedo una realtà infelice e così la esprimo. Ed infelice era di certo la società tedesca, culla del movimento, prostrata in tutti i sensi, alla fine della prima guerra mondiale. Lì operavano artisti come Kirchner ed Heckel. Estremizzante il primo fino al realismo più crudo, come nell’ Autoritratto da soldato con la mano destra mozza (Allen Memorial Art Museum di Berlino); rude ma non compiaciuto Heckel, dal segno forte e deciso che passò da una produzione alquanto naturalistica ad una fase che non pare azzardato definire quasi metafisica come è la Ragazza sofferente conservato al Wilhelm Museum di Duuisburg
Nel frattempo in Austria lo stesso movimento si conformava ad un particolare simbolismo decorativo culminante con Klimt e, in toni molto più drammatici, con Schiele.
Il pittore del celebre Bacio, che verticalizza in un raffinato gioco di ori e fioretti la soffusa sensualità dell’amore, Paul Klimt, solo “da grande” trascurerà questo tipo di pittura per operare, come dicono i sacri testi, in una sorta di “espressionismo” che in realtà ha più dell’ “impressionismo” escludendo il sensismo esasperato e amaro degli altri.
E arriviamo a Egon Schiele che vediamo, adolescente, ben costruito nel corpo e nella mente (checché si spettegolasse su una presunta malattia mentale proveniente dall’asse paterno) il quale allarmava i professori per il solo fatto di non smettere mai di disegnare in classe. Crescendo, divenne molto più drammatico, probabilmente meditando, insieme a tanta altra gioventù sopravvissuta al “mattatoio” della prima guerra mondiale, su un coagulo di situazioni irrisolte che poi andava a sintetizzare in formidabili rappresentazioni. Come selezionasse le sue aspre problematiche, capaci di alterargli perfino i tratti somatici (almeno per quel che riguarda l’autoritrattistica) per tradurle in linguaggio figurativo dai forti stereotipi, quale quello riservato alla donna, onnipresente, ritratta, di preferenza, con un verismo davvero molto devoto al sesso. Qualche volta riservandogli una sorta di tenerezza plastica che ne rendeva meno aggressiva la carnalità. E poco importa se, quando e quanto fosse o meno nella corrente dell’espressionismo o dell’espressionismo-impressionistico o chissà che d’altro: era Schiele, era un grande, e questo basta!
Di Schiele mostriamo l’ Autoritratto con alchechengi conservato al Leopold Museum di Vienna