Lo spessore umano della scrittura di Gianna Manzini

Lo spessore umano della scrittura di Gianna Manzini

Se osserviamo con una certa attenzione la personalità di Gianna Manzini attraverso un’analisi anche sommaria delle sue opere, possiamo accorgerci di quanto siano cambiati il ruolo e la posizione delle scrittrici del ‘900 rispetto a quelle della seconda metà dell’ ‘800. Nella scrittura della Manzini infatti, non esiste più quella specie di confinamento a una letteratura di intrattenimento più che di arte alla quale sembravano condannate le scrittrici del secolo precedente. Nel passaggio dall’800 al  ‘900 l’evoluzione della condizione femminile, oltre che le specifiche situazioni famigliari, hanno fatto sì che Gianna Manzini possa dedicarsi veramente a una scrittura alta, colta. Ne è prova del resto la sua frequentazione di circoli letterari raffinati come quello di Solaria caratterizzato dall’apertura verso i percorsi più innovativi della letteratura europea, ma anche la sua attività da letterata e giornalista sempre attenta alle raffinatezze stilistiche. Poichè, tuttavia, la sua non è assolutamente una scrittura puramente tecnica ma sostanziata da sentimenti  umani e spessore  etico, io credo che sia anche importante conoscere di questa autrice la personalità di donna nelle condizioni e nei fatti stessi della sua vita.

Per capire meglio come dalle sue vicende scaturisca poi anche la particolarità delle sue invenzioni letterarie, mi è parso opportuno rievocarne i fatti e le situazioni biografiche in retrospettiva, partendo dall’ultima opera importante, Ritratto in piedi, nella quale troviamo la figura affascinante del protagonista che era il padre di Gianna, anarchico nato da una famiglia aristocratica e benestante. Sono altrettanto determinanti le sue emozioni e i suoi tormenti di figlia per la particolarità dei suoi rapporti famigliari. Significativo in questo senso è anche  l’incipit del romanzo in cui lei userà una metafora ispirata alla figura di un animale. Perchè Gianna Manzini agli animali dedicherà successivamente non solo attenzione e affetto ma anche opere letterarie. La descrizione di un  cavallo ombroso è il primo termine del paragone con se stessa nell’atto di confrontarsi con la imponente e lontana figura del padre.

Perchè in fondo per capire, almeno umanamente ma non solo, la Manzini bisogna partire proprio  da qui, da quella vicenda anomala dei suoi genitori: il padre Giuseppe, che era stato capace di rompere con tutti gli assetti del contesto famigliare in nome degli ideali politici, e la madre, Leonilda Mazzoncini mitemente legata al perbenismo borghese. Gianna vivrà separata  da questo padre spesso imprigionato, costretto a vivere del suo modesto lavoro di orologiaio, per fedeltà ai suoi ideali, sempre in bilico tra cospirazione e persecuzione. E tuttavia questo padre le fu sempre vicino con il suo affetto.

Nella famiglia borghese della madre trova protezione e sostegno materiale, non del tutto la comprensione per i suoi bisogni  intellettuali. La sua sete di sapere troverà invece alimento nell’ambiente fiorentino quando vi si trasferisce da Pistoia con la madre nel 1914. Qui comincia a partecipare al dibattito culturale, tanto più che una specie di colpo di fulmine la avvicina a un intellettuale, il famoso giornalista Bruno Fallaci, zio della futura scrittrice Oriana. Si sposano nel 1920  e intanto Gianna comincia ad avere i primi riconoscimenti critici e soprattutto a frequentare l’ambiente della rivista Solaria, attorno alla quale gravitavano scrittori come Prezzolini, De Robertis, Montale. I suoi scritti, unici di provenienza femminile, vengono inseriti in un’antologia curata da Vittorini e Falqui.

Il suo matrimonio va in crisi e si separa nel 1933, lascia Firenze per Roma e si unisce in una lunga convivenza con il critico Enrico Falqui, fondando con lui una rivista che ospita anche le opere degli scrittori europei più innovativi (Woolf, Sartre, Mann ecc). Fa anche la giornalista e la cronista di moda con grande eleganza e raffinatezza. Precedentemente, nel 1928, aveva scritto il suo primo romanzo, Tempo Innamorato, ma è negli anni ’60 che arriva il vero successo con La sparviera, vincitore nel 1956 del premio Viareggio.

La sparviera parte da un’invenzione originale: la personificazione in una figura quasi demoniaca di una malattia infantile. E’ la stessa autrice a darci la notizia della scelta  di questo anomalo personaggio: A un tratto mi è balenata l’idea di fare d’una malattia la protagonista di un racconto. Una malattia e il suo uomo. La malattia come un grande movente segreto, coperto. Quell’idea la intriga a fondo e con diversi passaggi prova a darle la consistenza di un romanzo arricchendo sempre più i passi iniziali. Il personaggio apparentemente protagonista è un uomo, Giovanni Sermonti, accompagnato nella narrazione dall’infanzia alla morte. Un’infanzia nella quale appare la malattia, la tosse convulsa, e la prima conoscenza di Stella, una bambina che lo affascina, poi l’adolescenza con gli studi, gli amori, le recite, la maturità con la morte di Stella e infine la morte di Giovanni. Nella realtà inventiva la protagonista è la malattia. Lo dichiara la stessa autrice, La tosse sarà la vera protagonista del racconto:una presenza dittatoriale, una formidabile entità, in una intervista. E’ già visibile fin dalle prime pagine la capacità dell’autrice di creare atmosfere quasi magiche e paurose nel riemergere della malattia, meravigliose nel riemergere dell’amore per Stella. Si tratta di una narrazione raffinatissima, quasi sospesa in un alone indeterminato. Eppure quella malattia è un fatto reale autobiografico, come Gianna Manzini confesserà nel 1961 a Paolo Monelli. Ma l’addentrarsi nei percorsi interiori è da una parte determinato da quei conflitti famigliari di modelli e stili di vita che Gianna ha vissuto nella sua famiglia. La figura della madre di Giovanni, Giuliana, è in qualche modo una proiezione delll’incapacità della piccola borghese Leonilda di condividere gli ideali francescani del marito. Dall’altra parte c’è però la componente letteraria con la predilezione per la scrittrice Virginia Woolf con la sua scelta di narrativa introspettiva.

Man mano, però, forse sotto la spinta di quel conflitto esistenziale interiorizzato, Gianna evolve sempre più verso una narrativa che si rivolge ai fatti. La critica Ines Scaramucci parla di un progressivo tentativo da parte di Gianna Manzini di toccare terra con un cammino dall’astratto al figurativo, anche se aggiunge che l’anima della scrittrice rimane sempre fissa al dominio dell’invisibile. Questo, però, non la porta ad evadere dal mondo umano perché il suo interesse primario è sempre quello dell’indagine psicologica, dello scavo paziente e acuto nell’animo umano. Lo si vede già nel romanzo Un’altra cosa, dove si creano atmosfere surreali ma sempre con l’intento di esplorare l’infelicità dei sentimenti, soprattutto l’impossibilità di seguire fino in fondo le vocazioni personali. La finezza dell’analisi psicologica si può cogliere, per esempio, nella narrazione del primo incontro del protagonista Riccardo Rossi con la ragazza della quale si innamora nell’ambiente, ben noto all’autrice, della Biblioteca Nazionale di Firenze.

Ma è soprattutto nel romanzo diciamo così della sua anima, Ritratto in piedi, che si può cogliere come l’evocazione della figura del padre, quasi contemplata come una statua di moderno eroe dell’ideale (appunto in piedi), che la sua arte descrittiva si impregna della concretezza degli affetti: ammirazione, nostalgia, inquietudine, per questo padre eccezionale, amoroso e solitario. Qui si va dal ricordo dei suoi tormenti infantili, nella lacerazione tra l’ammirazione per la generosità del padre e la sofferenza repressa per il perbenismo un po’ vigliacco della madre, all’apparentemente distratta osservazione di quell’amore tormentato che comunque resiste tra padre e madre, nei rari incontri. La parte culminante di questo doloroso investimento dei sentimenti di Gianna Manzini nel descrivere la figura del padre sta certamente nelle pagine finali nel racconto scioccante dell’agguato che gli viene teso nel piccolo paese dove è stato confinato e successivamente della morte. Il racconto qui  ha quasi la suspense di un giallo. Il romanzo vinse il premio Campiello e dopo due anni, appena dopo pochi mesi dalla scomparsa di Enrico Falqui che era stato il suo grande amore, Gianna Manzini morì nel 31 agosto 1974.

C’è da dire che la sua raffinatezza linguistica non fu applicata soltanto all’indagine del mondo umano ma anche alla descrizione degli amati animali: Ogni tanto sul far di sera ricompare e si sofferma vicino al portone. si capisce che vuol notizie. Non può ammettere che il compagno si sia accasato:e alla morte ci crede soltanto per i nemici.