Attualità di Leonardo Sciascia, a cento anni dalla nascita

Attualità di Leonardo Sciascia, a cento anni dalla nascita

“ Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. ‘Mi ci romperò la testa’ disse a voce alta”. Così si conclude il più noto e il più letto, forse, dei romanzi di Sciascia : Il giorno della civetta. E veramente lo scrittore siciliano ci si è rotta la testa tutta la vita e in tutte le opere nella ricerca della verità, letteraria e reale, che infine si equivalevano perché la letteratura per lui non era finzione ma riflesso della società in un preciso momento storico.

 Un momento e una società che però nel caso della Sicilia possono assurgere a metafora di tutto il Paese in tutta la sua storia, a partire almeno dall’Unità d’Italia, come denunciavano i suoi conterranei Verga e Pirandello: corruzione, malaffare, soprusi, omicidi, dominio e sottomissione, connivenza tra potere politico e “galantuomini”, tra istituzioni religiose e rappresentanti del governo. Il tutto, favorito dal collante dell’omertà che ha creato depistaggi nelle indagini sugli omicidi, spostando fin da subito l’attenzione dal movente mafioso a quello amoroso-passionale.

Accade nel romanzo appena citato, dove il capitano dei Carabinieri Bellodi indaga su un delitto di mafia, parola misteriosa e impronunciabile, ma che traspare da parole e atteggiamenti, perfino dalle ellissi e dai silenzi; accade in A ciascuno il suo, dove il professore Laurana indaga per conto suo su quello che la polizia non vuol vedere e vuole frettolosamente archiviare come delitto passionale.

Accade in Todo modo, dove un pittore si trova ad essere testimone di più delitti in un eremo dove si sono radunati potenti politici e  religiosi, in un torbido intreccio di interessi. “ Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia (…): gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno…La linea della palma…io invece dico la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato (…), degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…”confessa Bellodi all’amico Brescianelli, una volta tornato a Parma, da dove era partito per l’indagine in Sicilia. La Sicilia rimane però una realtà sui generis per quella similitudine  che Sciascia ben definisce nel saggio pubblicato nel ‘70 nella raccolta La corda pazza: “(…) Si può dire che l’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita – paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo – della collettività e dei singoli (…) D’altra parte l’insicurezza dell’isola , la sua vulnerabilità, la sua tendenza al separatismo, la sua secolare disponibilità all’illusione della indipendenza, hanno portato le potenze dominanti alla concessione di privilegi che appunto servissero a dare illusione di indipendenza…”

A partire dalla pubblicazione di  Le parrocchie di Regalpetra  nel 1956, con le sue memorie di maestro elementare a Racalmuto (Agrigento), lo scrittore inizia a tessere un filo di denuncia sociale attraverso la forma del romanzo-saggio che non si spezzerà mai e darà vita ad un unico telo, sebbene intessuto di colori diversi perché in fondo, com’è stato osservato, Sciascia non farà altro che scrivere un’unica opera, sebbene con tipologie e titoli diversi. Quella che parla di un Paese dove la meridiana del tempo  si trova a luglio 1789, prima della rivoluzione francese, e “chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l’ora giusta”.

 Al pessimismo della ragione, lo scrittore ha però la forza e il coraggio di contrapporre l’ottimismo della volontà: “avrà l’autorevolezza e la capacità – osserva Matteo Collura in un articolo del 19 febbraio 2016 (Il Messaggero) – di contrapporre al pessimismo aristocratico (ma non per questo infondato) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa la salutare fiducia in un rivolgimento sociale e politico che porterebbe gli orologi siciliani a segnare finalmente l’ora giusta. Un’ora che stiamo ancora aspettando”.

 

Ostinatamente Sciascia lavora tutta la vita per questo, che poi non è altro che la ricerca della verità, che persegue anche nell’amore per la fotografia, la più vicina alla realtà tra le forme artistiche di rappresentazione e quella che gli sembra più vicina anche alla letteratura, in cui menzogna e verità si affrontano. Ed è compito dell’intellettuale coglierne le implicazioni, attraverso l’interpretazione e la comprensione dei fatti, con “l’intelligenza…mossa, principalmente e insopportabilmente, dall’amore alla verità”.

Nel riportare questa definizione dello scrittore siciliano tratta da “La Stampa” del ‘77, Felice Cavallaro chiosa:  “Nitido e tormentato l’avverbio ‘insopportabilmente’. (“Sciascia l’eretico”, Milano 2021). Perché, ricorda Cavallaro, Sciascia era anche quello che rimaneva “improvvisamente bloccato davanti al muretto a secco tirato su come labile confine alla proprietà di mio padre…” sorpreso dalla fosforescenza delle lucciole che non vedeva da quarant’anni. “Già le lucciole, i minuscoli insetti che…chiamavamo ‘cannileddi di picuraru’, piccole candele del pecoraio, conforto nelle notti buie per pastori lasciati a vigilare sulle pecore…”.

Ed era anche quello che fa dire a Nievo, nella novella Il quarantotto  (da Gli zii di Sicilia) “ Io credo nei Siciliani che parlano poco…Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice..  Garibaldi commenta il suo lirismo – è un poeta, un poeta che fa la guerra e canterà le nostre vittorie e il cuore dei siciliani – Il velo di ironia soffuso in queste parole costituisce la cifra stilistica della scrittura di Sciascia, rendendo lieve il tono e agile il ritmo perfino nel dramma.

Del peggiore dei drammi italiani, la mafia, lo scrittore fa dire al capitano Bellodi “ E’  molto complicata da spiegare, è…incredibile”, non facendogli trovare le parole per descriverla dopo tante indagini, mentre le fa trovare paradossalmente al maresciallo Ferlisi, colluso con il capomafia locale: “ …Una voce anche la mafia: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa…” e mette in bocca a don Mariano, l’anziano capomafia, la famosa distinzione dell’umanità in cinque categorie : “… gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà.” (Il giorno della civetta).