La figura femminile nelle opere “minori” di Dante, prefigurazione delle donne della Commedia

La figura femminile nelle opere “minori” di Dante, prefigurazione delle donne della Commedia

 Nel settimo centenario della morte di Durante Alighieri detto Dante, nel mese della festa della donna, l’analisi della sua funzione nell’opera dantesca mi è sembrata il più significativo omaggio celebrativo della duplice ricorrenza.

Dante è stato la “summa” di tutto il Medio Evo, accogliendo come epigono tutte le istanze, le discipline, i generi letterari, gli stili, i temi elaborati dall’inizio del volgare, radicandoli nella cultura classica di cui si fa continuatore e innovandoli con il suo spirito di sperimentatore.

Lasciando da parte la sua produzione in latino dal contenuto prevalentemente erudito, moraleggiante e religioso, didattico-didascalico, burocratico-amministrativo, filosofico-scientifico, in cui la figura femminile, laddove sia presente, ha una valenza puramente dottrinale, prendo in esame le opere in volgare, escludendo il Convivio, in cui essa è allegoria della filosofia.

Nelle Rime giovanili, nella Vita Nova e nella Commedia, invece, la sua funzione è quella di rappresentare le molteplici forme dell’Amore, sia di quello salvifico della cosiddetta “donna-angelo”, desunto dal filone letterario “cortese-cavalleresco” considerato “colto”, sia di quello malefico della “donna-demonio”del filone definito “popolareggiante”. In quest’ultimo, detto anche “carnescialesco”, il sommo Poeta trovava un armamentario ben nutrito a cui attingere: la poesia comico-realistica, giocoso-burlesca, giullaresca, con la parodia come denominatore comune , ossia il rovesciamento di valori, temi e stili della tradizione da parte di scrittori popolari e colti come Cielo d‘Alcamo, Cenne de la Chitarra, Folgore di S.Gimignano, Cecco Angiolieri

 

 

                            Lucio Fontana -‘Madonna Pietra’ ( 1956)

   Dante rielabora questa materia accogliendone temi e tecniche e portandole alla massima raffinatezza nelle note canzoni “petrose”, dedicate ad una donna Pietra malvagia, dura come “un diaspro”, che ferisce l’uomo anzi lo “ancide”, portandolo alla violenza, al desiderio di vendetta e quindi alla dannazione (“…e se Amore me ne sferza,/io mi vendicherei più di mille”). Il lessico, in perfetta analogia con la materia trattata, è aspro, reso duro dal contrasto di consonanti stridenti ed esaltato da una sintassi involuta e faticosa. Si apre, in nuce, lo scenario infernale delle rime “aspre e chiocce”che incominciano a farsi sentire già dai primi canti dell’Inferno e la cui efficacia espressionistica e visionaria culmina, secondo me, nei rami “nodosi e ‘nvolti”della selva dei suicidi, tra gli sterpi e gli “stecchi con tosco”(c.XIII Inf.).

 

J. Reynolds- ‘ Taide ‘(1781)

Oppure, per la violenza verbale e la trivialità, tornando alla tematica della donna, raggiunge l’apice nelle parole riservate a Taide, indicata come “la puttana…quella sozza e scapigliata fante /che là si graffia con l’unghie merdose”nella seconda bolgia, tra gli adulatori immersi nello sterco.

Uno stile del tutto opposto, è quello dolce e fluido riservato alle rime di ascendenza stilnovistica, alcune delle quali confluite nella “Vita Nova”, il “libello” considerato la vetta dello Stil Novo ( Guinizelli, Cavalcante, Dante…).Anche in questo filone “colto”della “donna gentile”, il Nostro attinge alla tradizione precedente affinandola ed elevandola ad un grado tale da poterla considerare la fucina dei versi del Purgatorio e infine del Paradiso.

La materia poetica della Scuola poetica siciliana (Pier delle Vigne, Giacomo da Lentini, Federico II…), a sua volta influenzata da quella provenzale e bretone, aveva già al centro la donna “gentile”ma nel senso di nobiltà di sangue di una “domina” che è la castellana, moglie del proprio signore feudale. Si tratta dunque di un amore adultero che è essenzialmente l’omaggio di un amante – vassallo.

La novità degli Stilnovisti e di Dante, il maggiore tra questi, è l’interiorizzazione del sentimento amoroso, che  nasce sempre da sguardi e gesti esteriori come anche nella scuola siculo-toscana (Bonagiunta Orbicciani,Guittone d’Arezzo…), ma rende il cuore gentile a prescindere dalla nascita e si esprime “come Amore ditta dentro”elevando spiritualmente l’animo dell’uomo.

Delle rime giovanili di questa tipologia, molte confluirono nella Vita Nova, tranne quelle che secondo il Poeta gravitavano ancora nell’orbita guittoniana e nell’atmosfera adulterina e magica dei romanzi arturiani, come il sonetto “Guido, i’vorrei che tu e Lapo ed io”, con il riferimento ad un “incantamento” del “buono incantatore” Mago Merlino.

La Beatrice del prosimetrum giovanile, infatti, nella progettualità “figurale” di Dante prefigurava la donna che donava la  salvezza spirituale da ogni deviazione da “la retta via”già quando passava per via “benignamente d’umiltà vestuta” manifestando con evidenza (pare= appare con chiarezza) di essere “tanto gentile e tanto onesta”, una creatura angelica venuta “da cielo in terra a miracol mostrare”.

 

 

                                 Henry Holiday -‘Dante incontra Beatrice’ (1883)

In questo sonetto del cap. XXVI dell’opuscoletto misto di prosa e versi, si possono ravvisare le anticipazioni dei tratti beatificanti di alcune donne del Purgatorio, in particolare di Matelda, che nel Paradiso terrestre è allegoria della felicità terrena ma al suo stadio di perfezione precedente al peccato originale, e della stessa Beatrice, che dopo la morte diventa “figura Christi”, allegoria della teologia.

Nell’ultimo sonetto “Oltre la spera che più larga gira”, Beatrice è trasfigurata in Amore mistico, “intelligenza nova, che l’Amore/piangendo mette in lui, pur su lo tira.”

 

 

Dante G. Rossetti- ‘Dante e Beatrice in Paradiso’ (1853)

Si completa il percorso “figurale”della donna che nel primo incontro da fanciulli solo con lo sguardo, nel secondo da adolescenti con il saluto, poi nell’opera letteraria giovanile con sogni e visioni, agiva in modo beatificante e miracolistico sul suo animo.

Infine, nel capolavoro della maturità, incarnava la stessa scienza divina per condurlo proprio nell’Empireo, la sede di Dio. La genesi della Commedia, dunque, definita poi “divina” da Boccaccio, è da ravvisare non solo nell’affermazione dell’ultimo capitolo della Vita Nova “io spero dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”, ma in tutta la produzione amorosa che la precede.

Così si porta a compiutezza l’immagine femminile prefigurata fin dall’inizio e si giustifica la preferenza per l’interpretazione figurale proposta dal critico Auerbach. Rimane la grande contraddizione tra la considerazione della donna nell’opera letteraria di stampo stilnovistico e la realtà storica del Medio Evo che “nella gerarchia dei sessi relega la donna (fatta eccezione per quella che occupa i vertici della società) in una posizione assolutamente subalterna.”(Giulio Ferroni)