Le vicende quasi sempre amare, spesso tragiche, legate ad emigrazione e guerre hanno per forza di cose ampliato il nostro lessico dialettale.
Mi tornano in mente parole o modi dire che ancora si ascoltavano durante la mia infanzia. Uno zio a me molto caro, ad esempio, non usava mai l’aggettivo sostantivato “tedesco”, ma chiamava i soldati germanici “li raus” (che significa fuori) oppure “kartoffeln” (patate). Anche mio padre, ricordando i quasi due anni di prigionìa trascorsi in Baviera, una volta rientrato a casa citava ancora, a volte, termini quali “arbeit” (lavoro) o “schnell” (veloce), Sembra di risentire queste urla perentorie, secche e gutturali, che non consentivano repliche e che noi, nati fortunatamente dopo il conflitto, abbiamo appreso dal cinema, principalmente da quello neorealistico.
Anche dall’America abbiamo importato qualche termine [speriamo che non lo scopra Trump, altrimenti saranno dazi anche qui ] ed alcuni sono entrati nei discorsi comuni: “business” per esempio, che significa “affare”. Inserirei in questo àmbito anche “shoes shine” (lustrascarpe) [ricordate sicuramente il celeberrimo capolavoro “Sciuscià” di Vittorio De Sica], ma anche “shoes maker” (calzolaio), che ha dato origine ad un soprannome noto a Mosciano: “sciumecche” (e muta).
Non possiamo non menzionare infine un termine che indicava mezzi a suo tempo conosciutissimi: il “truck pull o truck pulling”, ovvero un camion che trascina/tira. I più noti erano i “Dodge”, rimasti in servizio sino agli anni cinquanta. Molti di noi, penso, abbiamo detto “trucchepulle” (e muta), riferendoci a quelle corriere vecchiotte e malandate che servivano i paesi dell’interno e, in genere, a tutti i mezzi a motore molto logori.
Questo però è un altro discorso e dei “Dodge” del “Gruppo Produttori Ortofrutticoli” di Peppe Marziale e soci (lu gruppe), di Gitto Bacà ed Emilio di Pasquarosa (Di Paolo) parleremo un’altra volta.