Le donne nel Medioevo

Le donne nel Medioevo

Come osserva lo storico G. Duby “Per molto tempo le donne sono state lasciate nell’ombra della storia”, e anche quando le cronache  si interessavano di loro, erano considerate come una massa anonima, ad eccezione di quelle in qualche modo vicine ai centri di potere (regine, grandi dame, badesse, letterate). Per quanto riguarda la cultura europea possiamo pensare all’antichità greca, al mondo romano, all’alto Medioevo come ai periodi più difficili per l’universo femminile, ma ancora adesso la storia è  in prevalenza storia degli uomini e delle gesta degli uomini.

Il risveglio della società dopo il X secolo interessò in parte anche le donne; in quel periodo si ebbe una notevole crescita economica e culturale in tutta Europa: si delineavano le strutture dei futuri Stati europei, nascevano i Comuni, si sviluppavano i commerci, veniva bandita la I Crociata (1096-99) che segnò l’inizio dei pellegrinaggi religiosi, molto diffusi in tutto il basso medioevo. Accanto alla rinascita economica si sviluppava una cultura laica, che accompagnava le trasformazioni sociali dovute a nuove forme economiche: il sorgere dei nuovi ceti e l’aumento della popolazione influirono anche sulla condizione delle donne. Tuttavia la condizione femminile risentiva sempre del tradizionale modello maschile-patriarcale, anche se cominciarono a manifestarsi dei cambiamenti che passavano attraverso la spiritualità religiosa. 

Nell’immaginario medievale si trovano tre figure femminili: la tentatrice, la Regina del cielo e la peccatrice redenta; era un’epoca ottusamente misogina, e solo gradualmente si aprirono alcuni spiragli di novità e di tolleranza verso le donne.  Il modello dominante era quello fornito dalle Scritture, potenziato dagli influssi del pensiero greco. Gli scrittori laici o ecclesiastici trasmettevano il modello della tentatrice, contrapposto alla figura di Maria, simbolo della donna ideale. Da un lato si considerava la figura reale della donna figlia di Eva e segnata inevitabilmente dalla colpa originaria, incapace di moderazione e portatrice di caratteristiche proprie dovute anche alla sua inferiorità naturale (ribadita sulla base di Aristotele e di Paolo); dall’altro lato la figura di Maria, vergine ed esente dal peccato, assunta in cielo e quindi non soggetta a putrefazione, veniva presa a modello di santità e virtù: la prima era la porta della morte, l’altra la porta della vita. Alcuni studiosi, però, ritengono che la condizione femminile migliorò rispetto al passato proprio grazie al culto di Maria, che si diffuse in questo periodo. Ci si ispirava al modello virginale di Maria; si insegnava alle giovani a conformarsi a Lei, (anche assumendo atteggiamenti e gesti adeguati come abbassare gli occhi o guardare il cielo), a coltivare modestia, dolcezza e riserbo. La verginità diventò la virtù per eccellenza, il cui valore sociale era fondamentale sia in caso di matrimonio, sia in caso di  collocazione in un monastero. 

Nell’Alto Medio Evo le donne erano sempre soggette alla tutela dei padri, dei mariti, del confessore. La tutela, indice di inferiorità e sottovalutazione, non riguardava solo l’ambito personale, ma anche il piano giuridico: non avendo capacità giuridica, le donne, in caso di necessità, non potevano andare da sole nelle assemblee giuridiche e dovevano farsi rappresentare da un uomo, il quale aveva – se necessario – il diritto di punire e,  in casi estremi,  anche di uccidere. Nel De eruditione praedicatorum, Umberto da Romano (1193 – 1277) dava delle indicazioni sul comportamento delle donne: non dovevano dedicarsi a sortilegi né  essere sfrontate, ma dovevano dedicarsi alla recita del Salterio (libro dei Salmi) e delle Ore, assistere alle funzioni per i defunti e imparare le orazioni da rivolgere a Dio. Le donne nobili potevano imparare a leggere solo sul Salterio e dovevano assumere come archetipo della femminilità la figura di Maria; non dovevano occuparsi della bellezza e dell’abbigliamento, dovevano fuggire le frivolezze dei canti e delle danze, uscire sempre accompagnata e non incontrare mai da sole un uomo. Tra gli ornamenti della donna il primo doveva essere la temperanza nel parlare, meglio ancora il silenzio. Solo nel XIII secolo le donne nubili ottennero una certa autonomia, mentre quelle sposate rimanevano sotto la tutela del marito, custode dei beni e dell’onore della famiglia.

Secondo la classificazione della società di Adalbertone di Laon, gli uomini si dividono in tre stati: coloro che combattono, coloro che lavorano e coloro che pregano; parallelamente, parlando della condizione femminile, possiamo distinguere tre tipologie: donne della nobiltà, ma anche della ricca borghesia; donne del popolo, contadine e cittadine; donne votate alla vita religiosa.

– Nel mondo nobiliare e, in quello borghese delle città, le donne erano sicuramente favorite rispetto a quelle del contado, ma il loro ruolo veniva riassorbito nella loro natura di spose e madri: quelle che sapevano leggere  e scrivere svolgevano precise funzioni accanto ai mariti, anche come reggenti per figli minorenni (nei regni o nelle grandi signorie), ma si tratta di eccezioni. Le dimore signorili erano il luogo di riunioni festose in cui il feudatario accoglieva tutti coloro che erano tenuti a rendergli omaggio. In questi ambienti gli uomini si sforzavano di trattare le donne con una certa gentilezza e ciò permise, tra il  XII e il XIII secolo, l’affermazione del modello cortese, basato su una immagine idealizzata della donna, come veniva cantata dai poeti e dai “trovieri”; ma si trattava solo di una immagine, perché se la dama “regnava” nella fantasia del poeta, nella realtà rimaneva sempre legata al suo ruolo tradizionale di inferiorità rispetto all’uomo.  

Le città costituivano un centro di attrazione per le donne nubili e anche vedove perciò qui, come esisteva una certa eterogeneità di abitanti e di mestieri, così anche la condizione delle donne era più varia, sempre però in stato di inferiorità. Nel caso di donne lavoratrici la paga era inferiore a quella degli uomini; le donne potevano lavorare come domestiche, ma era diffuso anche l’utilizzo di manodopera femminile nell’artigianato, come apprendiste o come aiutanti nell’industria tessile e nella lavorazione di borse e pellicce, ed era esclusivamente femminile il mestiere di ricamatrice. Anche nella produzione alimentare (panetteria, pasticceria, produzione della birra, spremitura dell’olio), erano occupate molte donne. Erano loro precluse le professioni liberali, ma potevano esercitare l’ostetricia. 

–  Nelle classi popolari la povertà era molto diffusa e le donne prive di sussistenza venivano ospitate in ospizi per donne povere, mentre alcune si dedicavano alla prostituzione sia in città (in molte città erano presenti le “case chiuse”)  sia nelle campagne, e altre venivano inviate in Turchia, destinate agli harem. (R. Fossier, Enfance de l’Europe, I). Sulle donne  del popolo erano diffusi molti pregiudizi, si diceva, infatti, che credevano ai sortilegi, e in effetti alcune  facevano divinazioni, soprattutto a scopo di lucro. Le popolane erano immediatamente assimilate a Eva che si lasciò tentare dal serpente ed erano considerate maggiormente soggette ai peccati della carne. Riguardo al matrimonio le donne del popolo avevano una maggiore libertà rispetto a quelle nobili o borghesi, per quanto concerne la scelta dello sposo, tuttavia anche nel ceto inferiore si riscontravano matrimoni precoci, persuasioni o costrizioni da parte dei genitori, che pretendevano la sottomissione e l’obbedienza da parte delle figlie.

Le contadine erano soggette a vincolo maggiori rispetto alle cittadine; all’interno del feudo infatti oltre anche al padre e poi al marito, erano assoggettate al feudatario: per sposarsi dovevano avere il permesso del signore feudale, che poteva esercitare lo jus primae noctis. Inoltre se una donna rimaneva incinta al di fuori dell’unione ufficiale il padrone poteva esigere un risarcimento.

–  La rinascita, che interessò l’Europa sul piano economico e culturale, si estese all’ambito religioso e, in questa prospettiva , investì anche l’universo femminile. Si svilupparono forme di religiosità femminile diverse tra loro, come quella delle “perfette” dei catari o delle beghine, alle quali la Chiesa cercò di dare una guida e una normativa. Si assistette perciò in questo periodo alla fioritura  di numerosi monasteri femminili, in cui le religiose a volte entravano per libera scelta, ma molto spesso vi erano rinchiuse dai genitori in tenera età o perché non potevano godere di una dote adeguata o per convenienza, per contribuire al prestigio della famiglia. I monasteri accoglievano anche vedove, mogli ripudiate e fanciulle orfane, costituendo anche dei centri di educazione. Le ragazze imparavano a leggere sul Salterio e studiavano la Sacra Scrittura e – paradossalmente, al contrario delle donne sposate, dedite alle cure domestiche e parentali e del tutto sottomesse al marito –  godevano di una certa libertà; nei grandi monasteri femminili, infatti, anche le suore svolgevano attività di “amanuensi”: copiavano testi, creavano miniature, collezionavano e componevano. Alcune di esse raggiungevano alti livelli di formazione e scrivevano il racconto delle proprie esperienze spirituali o mistiche e delle proprie riflessioni sulla Scrittura, sviluppando a volte  un proprio punto di vista sui temi religiosi diverso dai teologi. Benché “alle donne non bisogna insegnare né a leggere né a scrivere“, come prescriveva Filippo da Novara, le donne sceglievano di esprimersi ugualmente, ma non componevano dei trattati, bensì degli scritti di tipo autobiografico o profetico. Le monache scrittrici usavano le lingue volgari: francese, fiammingo, italiano, tedesco, per una migliore comunicazione e maggiore diffusione, ma anche perché non tutte conoscevano il latino.