Con i riti e i sapori scomparsi di una volta. Un racconto sulla Pasqua d’altri tempi già pubblicato sulla rivista monografica Il banchetto di Ruggero Gorgoglione, rimpianto editore creativo.
Quel palazzo di Tossicia, reso inagibile dal terremoto e in attesa d’una ricostruzione mai cominciata, dove tuttavia restano sempre vivi i ricordi della mia infanzia felice. Quando, per gli eventi speciali dell’anno, accendevamo il grande forno a piano terra. Nel palazzone senza ascensore, dove salivamo quarantadue gradini per arrivare fino all’ampio salone affrescato, con al centro un imponente lampadario di Murano e, per arredo, importanti mobili d’epoca.
Con la Pasqua alle porte, la nostra casa diventava teatro d’una chiassosa scenetta che divertiva molto noi ragazzi, ma pochissimo mia madre Rosa. Erano tempi di scarsa circolazione monetaria e, per tradizione, i clienti regalavano un agnellino vivo all’avvocato, mio padre. E man mano che le povere bestiole arrivavano, accuratamente legate venivano depositate lungo la scalinata vicino allo studio. Da immaginare l’assordante concerto belante che si diffondeva per tutto il palazzo e finiva con l’arrivo del buon Arturo, il macellaio del paese, che provvedeva a trasportare in macelleria le incolpevoli vittime del sacrificio pasquale. Fuori, pochi metri più in là, c’era (e c’è ancora, per fortuna) l’antica chiesa restaurata di Sant’Antonio Abate, con il suggestivo portale gotico di Andrea Lombardo (1471). Qui, sulla piazzetta dei nostri giochi, a fine gennaio, vedevo crescere la gigantesca torre di legna accatastata, per l’annuale focaraccio in devozione di Sant’Antonio.
Ma il ricordo più forte, ancora oggi, è per il tradizionale pranzo di Pasqua e i preparativi delle donne di casa, con quei sapori e profumi di una volta. Legati ad usanze che, per secoli, tramandano eventi stagionali, religiosi, contadini e, dulcis in fundo, enogastronomici della mia terra d’origine. Quando per noi ragazzi, specialmente la Pasqua, era una festa da vivere nel borgo, come ricorrenza straordinaria di devozione e fantasia. Con il vestito nuovo da indossare e, per la Settimana santa, il divertente “tric-trac”, rudimentale strumento di legno che portavamo in giro per le vie del paese. Mentre con la quaresima le campane della chiesa erano “legate” e toccava a noi ragazzi, suonando il tric-trac, ricordare l’ora della messa alle vecchiette della parrocchia. Intanto, per le strade e ovunque, si diffondevano i profumi inconfondibili del pranzo pasquale. A cominciare dal grande forno di casa mia dove, con le pizze ed altre specialità della tradizione, mia nonna Germana non dimenticava mai di infornare “li pupatte” e “li castille” (patetiche pupette di pasta e caratteristici tarallini), che noi divoravamo durante la scampagnata del lunedì di Pasqua. Per una Pasquetta da vivere in allegria sul prato della vicina chiesetta di San Liberatore, con un ruscelletto che scorreva a pochi metri e saltavamo da una parte all’altra della corrente, per “passare le acque”. “In segno di buon augurio”, dicevano i vecchi.
Non so perché (o, forse, sì?), ripenso sempre alla festa perduta in quel palazzo con il sapore de “li pupatte” e mai ricostruito. Ma vorrei ritrovare anche quel ruscelletto della chiesetta di campagna, ormai diruta, quando bastava “passare le acque” per sentirsi protetti tutto l’anno.