Aiace è la più antica tragedia sofoclea. Rappresentata intorno al 445 a.C., incarna il senso tragico nel conflitto atroce tra due mondi (antico e moderno) ed è la tragedia della solitudine per antonomasia.
Segna l’irreversibile passaggio dalla civiltà omerica della vergogna, interpretata da Aiace, a quella della colpa e responsabilità, di cui si fa portavoce Odisseo. Divisi da abissale distanza fin da Omero, i due si distinguono nel senso in cui Achille è lontano da Odisseo, essendo Aiace Telamonio, re di Salamina, l’eroe più vicino ad Achille, per forza, coraggio, passionalità e determinazione d’intenti.
Precisiamo: Odisseo, per quanto eroe omerico, ha in sé germi di sorprendente modernità; l’astuzia e l’intelligenza lo fanno eroe flessibile che si adegua al reale, duttile e capace di cogliere il kàiròs, la circostanza favorevole. E’ colui che con le sue alte prerogative mentali, più che virtuose, piega a sé la realtà fino a rendere navigabile (pòntos) il mare infecondo (pèlagos). Esprime spirito di conservazione e attaccamento alle tradizioni della famiglia, per le quali rinuncia all’immortalità promessagli da Calypso; muore vecchio nella sua casa. Al contrario, Achille, eroe furibondo, famoso per la sua ira, che si scatenò dopo il ratto di Briseide, che egli amava più della sua sposa, è l’eroe forte di corpo e stravagante di anima. Colui che si ritira nella sua tenda per difendere l’ amore e il suo onore, quello dalle decisione forti e definitive; quello che non possiede kairòtes (adattamento al reale), ma che interpreta la realtà con gesti eclatanti e profondamente eroici. Muore giovane, ucciso da Paride, e la sua morte precoce è segno della particolare originalità dell’eroe che non si preserva, ma difende fino in fondo la sua dimensione passionale. Si racconta infatti che nell’atto di trafiggere Pentesilea se ne innamorò. Eroe sui generis, folle e bislacco, passionale e fremente. L’eroe più simile a lui è per l’appunto Aiace, che ne è la continuazione ideale.
Ma andiamo ai fatti narrati nella tragedia omonima: Achille Pelide è morto. Gli Atridi, Agamennone e Menelao, capi dell’esercito greco, consegnano le sue armi ad Odisseo, eroe moderno nel senso sopra spiegato. Aiace non ci sta, pensa di aver subito un’atroce ingiustizia: a lui spetterebbero quelle armi, in quanto amico di Achille e a lui assai simile. Il dramma si apre con l’ira di Aiace, non dissimile da quella di Achille, ma qui si tratta di un’ira autolesionista, indotta dagli stessi dei, che lo puniscono per la sua tracotanza (hybris ) inviandogli l’accecamento (ate). La punizione degli dei lo travolge nella sua follia (mòria) ed egli massacra i buoi e i montoni degli Achei, credendo di infierire sui suoi compagni.
La dea Atena, che ha reso pazzo Aiace, esorta Odisseo a vendicarsi di lui, ma questi rifiuta, modernamente consapevole che il destino di Aiace potrebbe essere il suo, in quanto entrambi mortali e, perciò, fragili; di qui il lungo discorso di Odisseo, che, interpretando il pensiero sofocleo, profondamente riflette sulla condizione dell’uomo, effimero, ombra di un sogno (come ebbe a dire anche Pindaro). I temi sono quelli che verranno trattati anche nel primo coro dell’Antigone: l’uomo ha progredito, ma nulla può contro la morte, e questo deve indurre ad un ripensamento circa la potenza dell’uomo e all’ accettazione di una sacrosanta verità: il dio è misura di tutte le cose, non l’uomo, come sosteneva Protagora.
La tragedia di Sofocle ha infatti il compito di riportare l’uomo dentro i suoi limiti, ad evitare che il suo secolo diventi “sciocco e superbo”; fondamentale è la percezione del tempo che tutto consuma e la consapevolezza della fragilità umana: concetti ben introiettati dal moderno Odisseo.
Aiace, al contrario, è tutto proiettato nel civiltà della vergogna, di cui interpreta virtù (aretè) e nobiltà (klèos); quando si riscuote dalla sua follia , si vergogna profondamente di sé, certo che la sua vergogna avrebbe coinvolto la sua sposa (Tecmessa), la famiglia e tutta la sua patria, Salamina. Finge di assecondare i consigli della sua sposa, che lo invita a più miti consigli, ma, solo, si dà la morte sulla riva del mare.
Tutti gli eroi tragici sono soli, ma la solitudine di Aiace è radicale e non scende a compromessi, non ascolta Tecmessa né le parole del coro, ed è il simbolo della solitudine disperata di chi non si adatta alla rivoluzione epocale che attraversò la Grecia nel V^ sec. a C. Egli è un eroe omerico e difende strenuamente questo mondo, certo che solo la morte può restituirgli quell’onore (klèos) che l’ingiustizia della storia gli ha sottratto. A fare brutta figura sempre gli Atridi, (come nell’Iliade, gente dispotica, figlia di una catena famigliare infame), che non vogliono concedere la sepoltura all’eroe Aiace, ma prevale il punto di vista mediatore di Odisseo, e sepoltura fu.
Tragedia che mette in scena i sentimenti umani, i moti dell’animo umano, fino alla spiegazione del dolore psicologico sotteso alle tragiche scelte. Il conflitto più marcato è quello tra l’ideale dell’eroe e l’impossibilità a portarlo a compimento, stante la fragilità dell’uomo, il cambiamento dei tempi, la Necessità divina (anànche) che schiaccia l’uomo e lo rigetta nella sua finitezza. La morte di Aiace è l’estrema ratio di chi non ci sta a sottostare alle leggi del reale: non accetta il mondo in cui vive, si sente l’erede di Achille e l’interprete dell’eroismo epico, ora fuori moda. La sua solitudine è quella a cui è votato chiunque non riconosca il “principio di realtà”, per dirla col viennese Freud.