Spunti tratti dalla Conferenza tenuta il 31 gennaio 2024 nel Centro Personalista di Teramo
1. Il paradosso umano
‘Sublimitas et miseria hominis’ (Nobiltà e miseria dell’uomo). È questo il titolo della Lettera apostolica che l’attuale pontefice ha pubblicato, nel giugno scorso, in occasione del quarto centenario della nascita del filosofo francese Blaise Pascal. Una lettera apostolica per un filosofo è cosa rara, avvenuta solo per giganti del pensiero cattolico, quali Agostino e Tommaso. Il titolo della Lettera pontificia è ispirato probabilmente ad un aforisma di Pascal:“La grandezza dell’uomo è immensa allorché si riconosce miserabile”. Tale pensiero significa che l’uomo è grande nella misura in cui si rapporta a Colui di cui è l’immagine. Un po’ come la Terra che si definisce a condizione che ammetta la sua relazione con il Sole che la illumina. “Grandezza e miseria dell’uomo – scrive papa Francesco – formano il paradosso che sta al centro della riflessione e del messaggio di Blaise Pascal”.
Il pensiero di Pascal, come già Socrate, col suo “Gnòti seautòn”, trova il suo fulcro nell’uomo. Egli si occupa dell’uomo e del senso dell’esistenza, come fanno Agostino ed altri filosofi esistenzialisti, quali Kierkegaard, Sartre, Heidegger, Jaspers, Marcel, Dostoevskij ed altri. Anzi, va detto che Agostino e Pascal sono ritenuti i principali ispiratori dell’esistenzialismo novecentesco, ossia di quel tipo di filosofia che non studia l’‘essere’ in quanto tale, come fa in genere la filosofia, ma parte dall’uomo concreto, ponendo l’accento sulle situazioni-limite della condizione umana, quali la nascita, la sofferenza, il passare del tempo, la morte, il mistero dell’universo, le infinite possibilità della vita, la libertà che ci condanna a scegliere col rischio di sbagliare e persino di annullarci. Ed ancora, Dio, l’anima, l’eternità.
Ma, l’uomo, per Pascal, è un mistero a sé stesso in quanto sospeso fra la finitezza della sua condizione materiale e l’infinito dei suoi interessi e delle sue aspirazioni. Il problema più importante da risolvere è dunque quello del senso della sua vita. Per Pascal, l’essenza dell’uomo risiede proprio in questo contrasto, contraddizione, dualità per cui egli risulta essere un “paradosso di fronte a se stesso”, un “mostro incomprensibile”. Infatti, da un punto di vista materiale, egli è parte infinitesima del Tutto, mentre, da un punto di vista spirituale (il pensiero) egli è capace di trascendere il mondo materiale ed i suoi meccanismi: “Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra, e i suoi reami non valgono il minimo tra gli spiriti, perché questo conosce tutte le cose, e se stesso; e i corpi, nulla”. In conclusione, è necessario ricordare all’uomo sia la sua grandezza, perché prenda coscienza di sé, sia la sua bassezza, perché trovi nel senso del limite la sua forza e la sua vera identità di creatura finita. Emblematici, a proposito, risultano queste due massime di Pascal: “L’uomo non è né angelo né bestia, e la sorte fa sì che chi vuol far l’angelo fa la bestia”. Ed ancora: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”. Con esso, Pascal intende che la persona è in una continua tensione ad andare oltre se stesso, sia per quanto riguarda lo svolgimento biografico del singolo, sia per quanto riguarda la storia del genere umano.
2. Il senso della vita
Parlando del senso della vita, Pascal osserva che gli uomini sono disposti a sopportare più il dolore che la noia: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci”. Ed ancora: “Nulla è così insopportabile all’uomo quanto trovarsi in pieno riposo, senza passioni, senza affari, senza divertimenti, senza occupazioni”. C’è un termine particolare utilizzato dal filosofo francese: ‘divertissement’ che, in italiano si traduce: divertimento o, meglio, distrazione, svago, passatempo. Esso, non è tanto una ricerca di piaceri quanto una fuga continua da sé, il tentativo incessante di distrarsi, di stordirsi col movimento, allo scopo di non pensare. In altri termini, secondo Pascal, l’uomo preferisce lasciarsi assorbire dal moto incessante dell’esperienza quotidiana pur di non pensare. L’uomo fugge da sé stesso, dalla propria interiorità perché sa che, rientrando in sé, deve confrontarsi con due realtà penose ed ardue: la consapevolezza della propria infelicità esistenziale ed i supremi interrogativi circa la vita e la morte. Ecco, dunque, due tipi di fuga: la fuga dal pensare e la fuga dal presente. Fuga che avviene attraverso: le occupazioni, il gioco, la conversazione, la guerra, la ricerca di cariche elevate, l’accumulo di denaro … Ecco allora gli uomini “occuparsi dell’inseguimento di una palla e di una lepre; anche i re vi trovano godimento”. In realtà essi non cercano le cariche, il denaro, la palla o la lepre ma l’essere occupati. Non cercano mai veramente le cose che sembrano cercare ma la ricerca delle cose, cioè l’occupazione, il movimento che impedisce di pensare: “Non cerchiamo mai le cose ma la ricerca delle cose … Si ama più la caccia che la preda”. Ed ancora: “Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente …Così non viviamo mai ma speriamo di vivere e, preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali”. L’uomo è consapevole che questa fuga da se stesso non risolve i suoi problemi ma lo aliena e tuttavia preferisce fuggire, fino a che non sia sorpreso dalla morte, anziché confrontarsi con le realtà prime e fondamentali dell’esistenza: chi sono io, da dove vengo, cosa c’è dopo la morte? Per Pascal, tutti usano come meccanismo di difesa il ‘movimento’. Pochi hanno il coraggio di stare fermi: “Ho scoperto che tutti i mali degli uomini nascono da una sola cosa e cioè dal non sapere essi restare in riposo in una camera”.
3. I limiti della scienza e della filosofia
Pascal, nei suoi ‘Pensieri’, passa in rassegna i limiti dei due principali strumenti di ricerca: la scienza e la filosofia. Egli affronta, per prima cosa, i limiti della scienza. Pur essendo uno scienziato, promotore, con Galileo, del metodo sperimentale, Pascal è convinto che la scienza presenti dei limiti strutturali. Ed il primo limite risiede proprio nella sua prerogativa fondamentale: l’attenersi soltanto a ciò che è sperimentale e dimostrabile. Ora il doversi confrontare con l’esperienza prova in modo lampante che i poteri della razionalità scientifica sono limitati ad essa. Infatti, tutta la scienza moderna, per lui, poggia su un presupposto mai dimostrato: quello secondo cui si può conoscere solo ciò che si percepisce. Del resto, la ricerca scientifica riguarda lo studio del mondo visibile, costituito da spazio, tempo, movimento. Si dà il caso, però, che proprio in queste tre dimensioni non possiamo procedere all’infinito perché esse, come avevano dimostrato i filosofi antichi, sfuggono al ragionamento e sono a noi ignote. Dunque, ecco la contraddizione della scienza: essa ignora proprio i principi primi del proprio ambito d’indagine. Inoltre, la scienza, per Pascal, da una parte, non può dirci molto sul mondo della natura e, dall’altra, è pressoché impotente sul mondo dell’uomo, anzi muta ed estranea. Ciò perché essa usa l’esprit de geometrie (cioè, un tipo d’indagine matematico-dimostrativa che può prendere in considerazione solo ciò che è percettibile e sperimentale) ma non può usare, per statuto epistemologico, l’esprit de finesse (cioè l’indagine intuitiva che comprende in modo fulmineo realtà che superano il livello sensoriale). Infatti: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. È per questo che: “Quando saremo afflitti, la scienza della realtà fuori di noi non ci consolerà dell’ignoranza morale, ma la scienza morale mi consolerà sempre dell’ignoranza delle scienze oggettive”.
Venendo poi alla filosofia, Pascal ritiene che la grandezza dell’uomo sia tutta nel suo pensiero: “L’uomo è manifestamente nato a pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio”. Infatti, al contrario della scienza, la filosofia accetta di confrontarsi con i massimi problemi esistenziali e metafisici. Per questo, proprio nel pensiero, risiede, per lui, la nobiltà umana. Tuttavia, anche la filosofia s’impantana ogni volta nelle questioni irrisolvibili dell’essere, dell’uomo, di Dio: “Desideriamo la verità, e non troviamo in noi se non incertezza. Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte”. Pascal ammette dunque l’impotenza della filosofia: “Noi non stimiamo che tutta la filosofia valga un’ora di fatica. Nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione”. E ne spiega la ragione: “Invano o uomini cercate in voi stessi il rimedio alle vostre miserie. Tutti i vostri lumi possono giungere al massimo a capire che non troverete in voi né la verità né il bene. I filosofi ve l’hanno promesso e non vi sono riusciti. Essi non sanno né quale sia il vostro vero bene, né quale sia la vostra vera condizione”.
Pascal è dunque costretto a concludere che, nonostante la superiorità della filosofia sulla scienza, l’uomo è condannato, sul piano conoscitivo, ad una esperienza mediana. Il che significa che conosciamo solo il segmento di mondo che cade sotto i nostri occhi ma ignoriamo gli estremi della realtà: se l’universo sia finito o infinito, cosa c’è oltre e che c’era prima di esso, se siano possibili una vita senza fine ed una felicità assoluta… Eccoci allora sottoposti sia ad una Medietà ontologica: l’uomo sospeso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, un misto di essere e non essere: “Che cosa è l’uomo nella natura? – si chiede Pascal – Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla”; sia ad una Medietà gnoseologica: l’uomo è un misto di conoscenza e d’ignoranza e deve accontentarsi di apprendere qualche cosa della zona intermedia dell’universo, rinunciando a ciò che supera i due estremi: ciò che è troppo al di sopra delle cose e ciò che è troppo al di sotto di esse; sia, infine, ad una Medietà morale: l’uomo si propone la felicità totale ma deve accontentarsi dell’equilibrio, cioè della momentanea tregua tra una sofferenza e l’altra.
Pascal conclude, a questo punto, che il paradosso della conoscenza umana, insolubile sul piano filosofico, si spiega solo alla luce della fede, cioè a partire dal “superiore criterio di verità della irradiazione della grazia nell’anima”. La risposta, dopo la ‘Notte di fuoco’, per lui diventa: Gesù Cristo: «Non solo non conosciamo Dio se non tramite Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non tramite Gesù Cristo. Non conosciamo la vita, la morte, se non tramite Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo non sappiamo cos’è né la nostra vita, né la nostra morte, né Dio né noi stessi. Così senza la Scrittura, che ha per unico oggetto Gesù Cristo, non conosciamo nulla e vediamo solo oscurità».
4. La ragione non si oppone alla fede
In realtà, Pascal aveva in mente di scrivere una grandiosa Apologia del Cristianesimo, ma tale progetto non fu mai condotto a termine in quanto la morte precoce glielo impedì. Avvenne così che i suoi frammenti, pubblicati sette anni dopo la morte del filosofo, nel 1669, col titolo di ‘Pensieri’, benché in forma di aforismi, forse proprio per questo, costituiscono la sua opera più conosciuta.
Pascal è un grande filosofo ed un grande scienziato. Nietzsche lo definisce “l’unico cristiano logico’. Con questo elogio, Nietzsche riconosce implicitamente che la grandezza di Pascal consiste nel tenere unito, in un binomio inscindibile, la fede e la ragione. Tale convinzione, tipica dell’impostazione cattolica, ha i suoi vertici in Agostino e Tommaso ed è stata sancita da Giovanni Paolo II nell’enciclica ‘Fides et ratio’. Anche il pensiero di Pascal trova il suo nucleo motivazionale in questo binomio. In un’epoca caratterizzata da un crescente spirito di scetticismo filosofico e religioso, Pascal utilizza fede e ragione in un intreccio interattivo e fecondo. Egli è contrario sia al fideismo acritico e credulone dei semplici, sia al razionalismo agnostico di alcuni filosofi.
Questa tensione è espressa in due frasi emblematiche. La prima: “Due cose sono egualmente da evitare: fare a meno della ragione; non ammettere che la ragione”. La seconda: “L’estremo passo della ragione è di ammettere che c’è un’infinità di cose che la superano”. Tali aforismi significano che fede e ragione devono operare insieme, come due occhi che scrutano lo stesso oggetto. Devono volare unitamente, come le due ali di un’aquila. La fede e la ragione, per Pascal ed i grandi pensatori cristiani, sono, infatti, due realtà distinte ma non contrapposte. Per Anselmo d’Aosta, anzi, costituiscono momenti dello stesso processo conoscitivo. Dove si arena la ragione subentra la fede.
Nella storia del pensiero, c’è come una via regale che mette insieme fede e ragione. La caratteristica fondamentale del pensiero dei Padri e del pensiero del medioevo è proprio il presupposto che tra fede cristiana e filosofia greca non esiste contrapposizione ma unità sulla base dell’unica razionalità proveniente da Dio. Partendo dalla frase del Vangelo di Giovanni che Dio è “la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo”, i Padri ritengono che la verità, conosciuta dai grandi filosofi greci, in modo parziale ed imperfetto, è stata rivelata pienamente in Gesù Cristo. Per questo essi sono soliti interpretare il Cristianesimo attraverso i concetti della filosofia greca, operando una “cristianizzazione” del paganesimo. Harnack li ha accusati di aver compiuto un’‘ellenizzazione radicale’ del messaggio cristiano. Anzi, il fatto che il Cristianesimo non si sia arroccato in un fideismo meta-razionale, ma si sia posto in continuità con la cultura classica, ha permesso all’Occidente di proseguire sulla via della razionalità come criterio di conoscenza e di raggiungere i traguardi scientifico-tecnologici dell’epoca moderna.
“Fides quaerens intellectum”, afferma Anselmo d’Aosta. Cioè, è la fede stessa che chiede di comprendere in termini razionali. Agostino, poi, parte da due presupposti. Dal momento che l’uomo è un essere intelligente, è perfettamente naturale che egli voglia comprendere i misteri di Dio con la ragione, prima di aderirvi con la fede, anzi che ponga la comprensione razionale come condizione all’atto di fede: “Noi ciò che crediamo – afferma – vogliamo anche conoscerlo e comprenderlo”. Ma, d’altra parte, egli è convinto che per l’uomo, essere finito, è assurdo pretendere di comprendere tutto il mistero di Dio soltanto con la ragione. Bisogna fidarsi di ciò che Dio ci rivela, anche quando non comprendiamo tutto. Chi sceglie coraggiosamente di credere, senza capire, alla fine, come premio, vede aumentata la sua intelligenza e può, in un secondo momento, comprendere o, per lo meno, intuire il mistero. È la teoria dell’intelligenza come ricompensa alla fede, basata su un passo del profeta Isaia: “Se non avrete creduto non capirete”. Di conseguenza, per Agostino, si può essere compiutamente razionali e compiutamente credenti. La posizione di Agostino, in proposito, è riassunta in due formule in cui fede e ragione si reclamano e si potenziano a vicenda in un ‘circolo ermeneutico’: “Crede ut intelligas” ed “Intellige ut credas”. “Crede ut intelligas” significa che per capire è necessario, in una prima fase, credere anche senza comprendere e, “Intellige ut credas” che l’uomo, in quanto essere intelligente, per credere, ha bisogno prima di capire ciò in cui deve credere.
Il Papa, nella lettera apostolica citata, afferma che Pascal è “un infaticabile ricercatore del vero”. Ricercatore. La mente corre alle tre possibilità della ricerca filosofica, già messe in risalto da Socrate. Due errate ed una corretta. Quella corretta, è l’atteggiamento problematico o euristico (da heurisko = io cerco). Essa consiste nella ricerca metodica e continua, attraverso un intreccio di parziali certezze e di lacune d’ignoranza. Certezze e lacune che si alimentano a vicenda. In questo atteggiamento, la verità non è mai considerata un sistema chiuso, una conquista definitiva, ma sempre un processo aperto, in divenire. All’atteggiamento euristico, problematico e pluralistico, si contrappongono altri due atteggiamenti: da un lato, quello dogmatico, consistente nell’assolutizzazione di un sistema di verità e, dall’altra parte, quello scettico-agnostico che consiste nella negazione della possibilità conoscitiva della mente umana. Ora, sia il dogmatico, sia l’agnostico, smettono di fare ricerca. Il primo in quanto appagato dalle sue certezze, il secondo perché dispera di poterle raggiungere. Ora, Pascal, pur avendo delle certezze, è colui che accetta la sfida del dubbio, restando sempre aperto alla ricerca. In questo consiste la sua vera grandezza.
Luciano Verdone