Patrizia Lombardi divideva il mondo teramano in due, quello de “li mustre”, come lei amava appellarli in dialetto con la sua inimitabile “R” arrotondata, e tutto il resto. Bianco o nero, insomma. E non c’erano vasi comunicanti, qualcuno che potesse travasarsi da un universo all’altro. No, niente di tutto ciò.
Sgranava i suoi grandi occhi marroni alle ostilità della vita, rendendo l’arte della sua scrittura, che imprimeva su carta e web, un regime pressoché consolatorio, dove far rivivere i suoi innumerevoli fantasmi cittadini.
Tant’è che il suo libro preferito era La casa degli spiriti di Isabel Allende, come mi ripeteva con cadenza quasi mensile nei nostri brevi incontri nel cloud della teramanità. Sicché pare aver avuto un rapporto privilegiato con l’aldilà, un humus in cui i suoi abiti neri facevano pendant con la sua capigliatura corvina, maschere che alimentavano il suo vociante e allegro pessimismo storico. Un tratto di sentimento condito però da ilarità, smorfie, scherni da maschera napoletana, anche perché la sua anima partenopea la sobillava, soprattutto quando si prestava a caratterizzare i suoi personaggi cittadini, tra una frase in dialetto e idiomi cesellati ad hoc in una sintassi stretta, incisiva e spesso rara.
Del resto, ogni buona scrittrice che si rispetti ama il chiacchiericcio, però mai a fini vessatori, bensì portati a tratteggiare appieno quell’animo umano che l’ispirava fortemente, con le sue debolezze, i vizi e le virtù che in fondo lo redimono.
A Teramo li mustre erano tanti. Ma anche quegli altri, in un universo diviso in due. Senza vasi comunicanti. Potevi trasmigrare nell’altro solo per un breve battito di farfalla, terminata la giornata.
Stretta nel suo mondo di dolore, l’oasi faceva fatica a vedere zampillare l’acqua, eppure il suo tono canzonatorio spesso edulcorava il suo umore in battaglia.
Patrizia ha avuto la forza di una donna tempestata da uragani ciclici, tormente di cui non si vergognava affatto di fare menzione, in una spavalderia senza ritrosie, al confine della urticante sincerità, condita da gesti che sviavano e da occhi scuri dardeggianti e profondi che ti scandagliano l’animo, senza che te ne accorgessi.
Rari, immagino, i momenti davvero felici ma chi come lei viveva nella Casa degli spiriti, trovava forse la liberazione in un’altra dimensione, forse anche nella sofferenza di altri che placava agitando la sua indole materna ad amici, compagni e figli.
E per lei che ha vissuto di parole, non aver avuto la possibilità di veder scritto il suo addio, benché inverosimile, di incassare un commiato alla sua maniera, ironico e profondo, rende la sua dipartita più vuota. Senza un testamento che potesse rimarcare la sua rottura con questa vita e… coi suoi mostri.
À Bientôt, Patty