Con Euripide la grande potenza della tragedia greca abbandona il drammatico confronto con la sacralità del divino e svolge il suo cammino tutto nell’ambito del terreno umano. Questa desacralizzazione del confronto fra divino e umano che era stato irenico in Eschilo e sospeso su un silenzio ambivalente in Sofocle non è solo dovuto a una scelta di gusto personale ma si innesta nel clima ideologico e culturale del tempo di vita dell’autore e della parabola del potere di Atene. Le conclusioni della la guerra peloponnesiaca segnano per Atene non solo la perdita dell’egemonia militare ma anche di quella politica nel mondo greco con la fine del primato marittimo nella sconfitta delle Arginuse e lo sbiadimento del fascino della democrazia oscillante tra l’abolizione del colpo di stato dei Trenta e la restaurazione ambigua di Alcibiade. Queste perdite che trascinano nell’indebolimento progressivo il mondo greco tra egemonie fragili come quella spartana e quella tebana, rinvigorendo attraverso sotterranee alleanze le mire persiane, pongono le premesse per la perdita della libertà delle poleis di fronte al crescente potere del regno macedone.
Comunque questa fine di secolo non sigilla soltanto l’indebolimento politico ma è anche il tempo di un declino culturale della coscienza civica per gli errori stessi commessi nell’esercizio della partecipazione democratica, un declino accompagnato e vidimato dall’affermazione del primato feroce delle armi. C’è da chiedersi come in pochi decenni sia stata possibile questa perdita civile ma basterebbe esaminare gli eventi della politica ateniese sul finire del governo di Pericle per comprendere come l’egemonia culturale si fosse sempre più appiattita su una tendenza imperialistica che riattivando la competizione di potere fra le poleis aveva spinto alla guerra del Peloponneso e all’avventura sciagurata della spedizione contro Siracusa ottenebrando nella mente degli Ateniesi la considerazione della possibilità di conseguenze negative. Gli inavvertiti o sottaciuti rischi divennero realtà disastrose come l’invasione dell’Attica, l fuga dei contadini in città con la congestione dell’abitare e la conseguente peste, in ultimo la morte di Pericle seguita dalla sostituzione del populismo sfrenato e incauto di Cleone.
Ma certamente non furono solo gli eventi bellici a determinare la crisi ateniese e poi greca in generale. Una crescente crisi dei fondamenti istituzionali della democrazia già avvertiti in quel loro fragile equilibrio tra giustizia e potere dalla poesia di Sofocle aveva messo ormai a nudo anche nei fatti, oltre che nel sentimento comune, le contraddizioni di una democrazia bella ma imperfetta. Intanto l’attività stessa esplorativa degli intellettuali con l’affermazione del relativismo aguzzo e penetrante dei sofisti stava svelando la decadenza degli antichi valori della famiglia e della società. Queste operazioni di analisi critica avrebbero potuto, ma non avvenne, subito sfociare in ricerca intellettuale lucida e incisiva in grado di porre le premesse per un umanesimo nuovo e più largo, non più circoscritto negli spazi e nella categorie della polis e non più confinato nell’aurea sacralità del mito. E’ in questo complesso incrocio di mutamenti anche del senso comune che si innesta la visione tragica di Euripide senza più rivolgere lo sguardo più o meno riverente alla sacralità dello spazio mitico ormai deposto nella sua narrazione sul terreno più basso e orizzontale dei sentimenti e dei caratteri. E’ questo l’orizzonte verso il quale guarda Euripide, un orizzonte multiforme e complesso
Non un tentativo di elevazione alla fissità mitica dell’eroe come appare talvolta in Sofocle né la ricerca di consolazione nell’aurea sacralità della Dike divina come sembra suggerire Eschilo ma un mondo ribollente di impulsi e contraddizioni che nello stesso tempo può inquietare e affascinare. Sono anche le stesse innovazioni sceniche e narrative che Euripide più di tutti ha introdotto ad indicarci la nuova via tracciata: dal prologo informativo che sembra quasi necessario per additare allo spettatore la via per entrare nel groviglio degli eventi all’intreccio sempre più intricato capace di mettere in evidenza il capriccioso gioco del destino casuale e non più garantito dalle leggi sacre. Così significativa è anche la scelta del canto monodico come spinta alla partecipazione emotiva e l’adozione dello stile colloquiale o nell’indagine psicologica la complessità delle figure femminili e il protagonismo spesso conflittuale dell’irrazionale come segnalatore della prevalenza dell’umano. Un mondo nuovo da esplorare nella sua tragicità complessa e, a volte, intricata.
Lo ritroviamo così nella sua ribollente conflittualità tutta terrena in ognuno degli ambiti umani esplorati dalle tragedie euripidee: dal mondo femminile (Medea, Ippolito) alla tragedia dei vinti (Ecuba, Troiane, Andromaca), dalle tragedie di patriottica esaltazione della civiltà greca (Eracle, Supplici) alla eretica riscrittura del mito (Elettra, Ifigenia) anche nelle tragedie di intreccio, fino alla conclusiva apertura dell’abisso profondo dell’irrazionalità (Baccanti). A segnare il tragico non è più il contrasto tra l’adamantina compattezza dell‘eroe e il destino e nemmeno tra l’ingiustizia umana e lo splendore divino ma lo stesso terreno umano, un caleidoscopio di luci e ombre, di impulsi e lucide considerazioni che ritroviamo nelle figure femminili, escludendo la compattezza positiva ma ancora poeticamente incerta della primitiva Alcesti. Così vediamo in Medea l’alternarsi della passionalità più rabbiosa e la lucida elaborazione del piano di vendetta. Certamente è vero che la contraddizione emotiva si sposta anche su un piano più generale e quasi patriottico tra la fredda impersonalità dell’eroe greco Giasone quasi portatore della razionalità occidentale e la barbarica vitalità di Medea ma lo scontro non è solo tra culture generali di popoli diverse. Lo dimostra inequivocabilmente anche la figura di Fedra nell’Ippolito che dentro è lacerata dal conflitto tra l’invadente passione incestuosa per Ippolito che non riesce a dominare e le reticenze mosse dalla coercizione anche intima delle leggi che regolano la vita civile.
Perfino sul piano più concettualmente innovativo nella celebrazione tragica, quello dei vinti, nelle tragedie troiane emerge il conflitto interiore nella figura della regina troiana vinta tra la disperazione dell’umiliazione di Ecuba e la ferocia della vendetta espressa anche in forme truculente. Certo è che in questo mondo sconvolto delle passioni terrene non si accende nessuna luce di pacificazione divina e così ne Le Troiane la calpestazione dei vinti accentuata dalla scelta statica delle scene parallele non è consolata dall’indifferenza di Atena e Poseidone. E tuttavia su questo mondo violento e disordinato si piega a volte la pietas del poeta come sulla figura di Elettra che nella sua figurazione nuova di povera sposa di un contadino non ha più la granitica pietrosa volontà delle raffigurazioni precedenti ma appare più nobile dei personaggi della sua casata regale. Nelle tragedie di intreccio si manifesta certo la capacità creativa di Euripide nella folla dei personaggi e nell’intrico delle vicende che sembra quasi sterilizzare nel virtuosismo inventivo la tragicità ma l’invadenza della Tuche, il destino senza leggi e senza motivazioni comprensibili resta lì forte a segnalare la precaria debolezza della vita umana.
E’ forse l’ultima tragedia concepita nel mondo alieno della corte macedone che segna la novità più profonda della tragicità euripidea e che ha fatto addirittura parlare di una motivazione religiosa del laico ed eretico poeta. Io penso che nel confronto tra la piatta razionalità di Penteo e la sarcastica celebrazione dell’irrazionale da parte dell’inquietante Dioniso emerga soprattutto quasi l’affacciarsi del poeta sull’abisso infinito e inquieto dell’irrazionale che affascina e devasta. Un segno non solo del suo percorso interiore ma forse anche di tempi e sensibilità che assistevano del tutto impotenti, sebbene protesi verso nuovi valori, alla crisi di antiche certezze, di fiducie secolari e sperimentate consolazioni terapeutiche al male di vivere.