Il santo d’Abruzzo: Camillo De Lellis

Il santo d’Abruzzo: Camillo De Lellis

S. Camillo è un grande santo abruzzese, proclamato tale da diversi Papi, in varie epoche, come “Patrono di tutti i malati e ospedali del mondo”, “Protettore del personale ospedaliero”, “Patrono particolare della Sanità Militare e dei portatori di elettrostimolatori”.

Nonostante tali riconoscimenti e il titolo di Patrono di Chieti (unitamente a S. Giustino) e d’Abruzzo (unitamente a S. Gabriele), nella nostra regione non ci pare adeguatamente conosciuto, amato, venerato. Neppure di recente, con l’incalzare dell’epidemia di Covid e le sue gravi conseguenze, con i disagi e i problemi della sanità, S. Camillo ha ricevuto riconoscimenti corrispondenti alla sua statura umana e spirituale. A noi pare che sia il più abruzzese dei santi, per tempra, formazione culturale, aspetti caratteriali; una persona ambiziosa, intelligente, tenace, operativa, dal carattere volitivo piuttosto rude e ribelle, ma al contempo sensibile, lineare, privo di ipocrisie, di poche parole e molti fatti, nel bene come nel male.

La sua vita è un incredibile e affascinante romanzo. Nasce il 25.V.1550 a Bucchianico, un paese del chietino, non popoloso e non particolarmente attrattivo, salvo che per il panorama che spazia dalla Maiella all’Adriatico. Tutti si conoscono e chi si distingue per ceto e potere gode di visibilità e prestigio.

L’epoca, il XVI secolo, è tormentata da guerre di religione conseguenti alla riforma protestante, dalle galee veneziane contro i turchi, dalla Controriforma cattolica. Bucchianico è lontana ed estranea ai grandi eventi storici, ma la famiglia del santo non lo è, per almeno due motivi. Il padre, Giovanni De Lellis, è capitano di fanteria alle dipendenze di chiunque lo assoldi. Ha un nome illustre e per la sua attività non è estraneo a quanto avviene in Italia e in Europa. La madre, Camilla De Compellis, è una nobildonna nativa di Loreto, devota e caritatevole. Partorirà Camillo a 60 anni, dopo aver perso il figlio primogenito. Risulta fosse a disagio per la maternità portata con le rughe e i capelli bianchi, ma anche che fu una madre piena di attenzioni e premure nei riguardi del suo bambino ‘miracoloso’. Lo educa praticamente da sola a causa delle prolungate e frequenti assenze del marito.

Incinta, fa un sogno che Camillo giudicherà premonitore: vede il figlio alla testa di una folta schiera di seguaci, tutti con una croce rossa sul petto. Vi legge, con doloroso presentimento, il futuro del figlio come capobanda di una compagnia di avventurieri, il che la turba e amareggia. Nella dolce attesa prega per vincere la paura. Quando il 25 maggio arrivano le doglie, Camilla è in chiesa. Corre a casa ma non fa in tempo a raggiungere il piano superiore dell’abitazione. Partorisce nella stalla dei cavalli. L’analogia con la vita di Gesù le è palese e la rincuora. Viene alla luce un bimbo sano e bello a cui dà il suo nome, Camillo e non un nome della famiglia De Lellis, il che è insolito.

Seguito dalle cure della madre Camilla, il bimbo cresce bello e forte e invidiato dai coetanei. S’impone anche da giovane per la sua altezza, due metri, che è fuori del comune tra compagni dalla statura media bassa. Verrà infatti chiamato “Il gigante buono”. La dedizione assoluta della madre stamperà sul cuore del figlio le migliori attitudini dell’amore, della tenerezza, della cura. Non a caso S. Camillo raccomanderà ai suoi di “mettere più cuore nelle mani” e soprattutto di accostarsi ai malati con lo stesso amore “che suole una madre verso il suo unico figlio infermo”, il che attesta la qualità del rapporto madre figlio da lui sperimentata.

La vita serena s’interrompe con la morte della madre. Ha 13 anni quando il padre lo affida dapprima ad un precettore, il quale però presto desiste dall’incarico poiché Camillo non ama lo studio ed è inquieto. Preferisce seguire le orme paterne e diventare cavaliere, perciò il padre lo porta con sé, lo istruisce all’uso delle armi, lo arruola nella milizia da lui comandata. Insieme partono per combattere a Zara e Corfù, ma al ritorno, ad Ancona, entrambi si ammalano. Il padre nuore. Camillo si salva, ma riporta una brutta ferita sul collo del piede che lo blocca. E’ ormai solo e si getta con accanimento e senza scrupoli nel gioco d’azzardo, di carte e dadi finendo col perdere tutto e sprofondare nella miseria. Confida di guarire e riprendere a fare il soldato, ma la ferita misteriosa e incurabile accompagnerà Camillo per tutta la vita, putrefacendosi di continuo, sempre a rischio dell’amputazione del piede. Per meglio curarsi, Camillo si trasferisce a Roma e viene ricoverato nell’Ospedale S. Giacomo, dedicato a malattie infettive incurabili. Per contribuire alle spese, gli viene proposto di dare una mano come inserviente, ma non è una buona idea. Muoversi tra pazienti fragili, indifesi e spesso allo stremo è una tentazione continua per chi vive di espedienti. Così appena la ferita si rimargina, viene dimesso, con sollievo dei responsabili, ma la ferita presto si riapre e Camillo, ancora giovane e pieno di energie, ma privo di mezzi economici e senza stabile identità lavorativa, riprende a giocare. A Napoli finisce col dover cedere persino la camicia di lino.

È costretto ad elemosinare, anche se si fa notare tra i mendicanti per la giovane età e l’aspetto distinto. Alcuni umili cappuccini, passandogli accanto, gli parlano, forse lo rimproverano esortandolo a riflettere e cambiare vita. Camillo decide allora di farsi frate e si rivolge ad un cugino cappuccino de L’Aquila per essere ammesso in convento. Questi lo dissuade esortandolo a pensare prima a guarire. Così tutto ricomincia come prima. Un giorno un brav’uomo gli propone di lavorare per lui: dovrà trasportare materiale edile al cantiere presso il monastero dei Cappuccini di Manfredonia. È un lavoro rischioso e faticoso che Camillo accetta per disperazione ed anche perché ha un buon ricordo dei Cappuccini. I padri di Manfredonia intuiscono che c’è del buono in quel giovanottone e gli danno fiducia, affidandogli continui incarichi che lo trattengono tra di essi nella vita semplice di ogni giorno e lo incitano a “mettere giudizio”, a dare un senso alla sua vita.

La svolta inaspettata che rivoluzionerà la sua vita arriva il 2.II.1575, una data che Camillo festeggerà per tutta la vita come la sua vera nascita. Avviene che il Superiore gli affida un carico di viveri per S. Giovanni Rotondo. Le “prediche” dei frati fanno breccia nel suo cuore e Camillo comincia a riflettere, a giudicare in modo nuovo l’educazione ricevuta, il presente senza futuro che sta vivendo, gli errori commessi. Nel freddo intenso della notte di quel 2 Febbraio ripensa alle parole ascoltate “Dio è tutto, il resto è nulla”, “Bisogna salvare l’anima che non muore…”. Le medita, ne rimane folgorato. Crolla. Ferma l’asino e in ginocchio piange e prega. Chiede a Dio di dargli il tempo di fare penitenza e questa volta decide per sempre di cambiare vita. A Manfredonia tutti si meravigliano della metamorfosi. Lo mettono alla prova e infine decidono di accoglierlo in convento. Tuttavia il saio, battendo sulla ferita la riapre e Camillo deve tornare a S. Giacomo. All’ospedale inizialmente non lo vogliono, lo controllano, ma infine si arrendono all’evidenza: Camillo è un altro.

La Sanità dell’epoca, aggravata dal susseguirsi di guerre ed epidemie, è disastrosa. I malati giacciono nella sporcizia e nel cattivo odore, il personale è costituito da avanzi di galera. Camillo, che li conosce bene, comincia subito, con instancabile dedizione a prodigarsi nell’assistenza in modo nuovo, addossandosi i casi peggiori, i moribondi, i più difficili da curare. Egli vede in essi il Cristo, perciò li tratta con amore. Non si risparmia ma si rende conto che ciò che riesce a fare è solo una goccia nell’oceano. Quando i responsabili dell’ospedale lo nominano “Maestro di casa”, Camillo, con l’autorità conferitagli, comincia una graduale, intelligente e minuziosa attività riformatrice che anticipa norme e principi della moderna assistenza. Allontana il personale scorretto, rinnova la mensa combattendo ruberie e rifornimenti scadenti, decide che la confessione non si verifichi all’ingresso in ospedale, ma solo su richiesta del paziente, raccomanda soprattutto che si curi l’igiene della persona e dell’ambiente. Per esempio esige che si arieggi, mentre la mentalità dell’epoca considerava dannoso aprire le finestre. Controlla il bucato e obbliga a dotare ogni malato di biancheria pulita, ad essere presenti durante la visita medica, ad assistere ai pasti. Cose ovvie per noi, ma all’epoca per Camillo “una guerra titanica” che gli provoca resistenze, maldicenze, ritorsioni. Camillo è solo e teme di non farcela. Non ama le mezze misure ed è tentato di mollare tutto, ma il suo confessore, S. Filippo Neri, col quale rimane amico tutta la vita, lo convince a restare. Per 40 anni Camillo opera incessantemente. A incoraggiarlo è soprattutto il Crocifisso, davanti al quale prega quotidianamente. Cristo gli parla, spesso stacca le mani dalla croce e in un’occasione gli intima “Pusillanime, non perderti d’animo, perché quest’Opera è mia, non tua”.

Quando accudisce un malato, Camillo è come in adorazione e non c’è per nessuno. Fa dire “Ora sono occupato con nostro Signore”. Se ferma le carrozze per trasportare un ferito grave, chiede “Avete un posto per nostro Signore?”. Presto, per accelerare i tempi di trasporto ed intervento, istituisce una carrozza con tela chiara e croce camilliana, quella disegnata da mamma Camilla, che diviene l’emblema dei suoi seguaci, i “Camilliani”, chiamati al servizio e alla totale dedizione ai malati. La compagnia di volontari si moltiplica rapidamente. Diverrà un vero Ordine il 21.XI.1951. Per loro Camillo istituisce presso la Chiesa della Maddalena una casa Madre. Malati e disperati vengono raccolti per strada e nei tuguri, curati gratuitamente dai camilliani presenti a Roma e poi anche a Napoli, Genova, Bologna, Ferrara e Messina. Camillo si sposta da un punto all’altro della penisola; vorrebbe avere “cento braccia” per tutti gli infermi da lui definiti “Pupilla e cuore di Dio”.

Presto a Camilo non basta curare i corpi, vuole diventare per i suoi infermi strumento di salvezza: a 32 anni, lui che non ha mai amato lo studio, che non conosce il latino né la teologia, decide di farsi prete. Con infinita umiltà torna nei banchi di scuola e il 26 maggio 1584 viene ordinato sacerdote. Subito istituisce i Cappellani di ospedale, e ottiene il premesso di celebrare messa in corsia e nelle camere dei malati. Camillo non ha avuto vita facile, ma da sofferenze e sconfitte ha saputo ripartire con la forza e la decisione di un “soldato di Cristo”, sino a farsi santo. Senza cultura, potere, mezzi economici o importanti conoscenze ha percorso un cammino imprevedibile mettendo, in un’epoca di dispute dottrinali, il valore della carità operosa, secondo il dettato evangelico, verso gli ultimi del suo tempo: i malati e i moribondi che raccomanda ai suoi insistentemente.