Agli inizi del secolo scorso erano davvero tante le forme espressive coesistenti nelle arti figurative e tutte fondamentali. Esse si basavano sulla ormai conclamata certezza che bellezza e arte non sempre coincidono e che un vero artista non si può giudicare da come rende, ad esempio, la bellezza femminile quando essa per lui non sia né quella della Venere di Milo né quella di una bella fanciulla che vede per caso. In sintesi la bellezza nell’arte non è più un obbligo ma solo un genere, una possibilità.
Anticamente l’arte aveva stabilito di camminare nel rispetto della scienza e dei numeri esatti che essa assegnava alle proporzioni. Nel momento che esaminiamo, al contrario, se ne rende ancor più indipendente scegliendo di esprimere non soltanto la plasticità imitativa delle forme, ma, facendo appello alle astrazioni della mente, soprattutto i sentimenti, nei modi che vengono suggeriti dalla fantasia.
Nascono così, in questo multiforme momento, fra tante altre espressioni di liberazione e con voce originale di grande semplicità, tanto più evidente quanto più opposta agli sconcertanti approdi del dadaismo ed al potente scossone che esso aveva dato ad ogni genere di certezza, i cosiddetti pittori ingenui. Essi, però, stranamente, appartengono quasi tutti ad uno strato sociale, per lo più, privo di velleità intellettuali.
La loro arte si ispira al modello del disegno infantile ma mentre nel tratto dei bambini è insita la semplicità istintiva dell’età, in quello degli ingenui si esprimeva, invece, una scelta che, a giudizio di qualcuno, poteva nascondere una maturità non raggiunta.
Questa forma di espressione, inoltre, nasceva in luoghi sparsi ed in soggetti isolati. Mancava un punto di riferimento comune. Essa, difatti, non era apparsa come sottoprodotto della pittura intellettuale dominante, raggruppando così coloro che avevano deciso di remarle contro, ma come frutto spontaneo di una non sofisticata classe che esprimeva la sua natura e la sua civiltà, quale che essa fosse.
In particolare, a qualche voce critica, questo fenomeno parve non possedere una vera capacità di interpretazione di taluni parametri essenziali, come, ad esempio, quello delle prospettive lineari e che pure non fosse corretto nell’interpretazione dei particolari anatomici, pur se rivisitati in chiave infantile.
I suoi esponenti erano giardinieri, operai e pastori ma i loro nomi si ricordano e così le loro opere.
Uno di essi fu André Bauchamp, un giardiniere che amava i pennelli e fu addirittura scelto da Stravinskji come sceneggiatore di un suo balletto. E ancora la pastora Séraphine De Senlis coi suoi magici fiori, scoperta casualmente dal critico Wilhelm Uhde. E il nostro Antonio Ligabue, il contadino selvaggio e quasi demente che trovò la comprensione e l’aiuto dello scultore Marino Mazzacurati.
Tra i pittori umili e la vera e propria arte naive il passo è veramente breve, se non sovrapponibile.
L’artista ritenuto riferimento fondante di questa tipologia espressiva fu Henry Rousseau, che ancora oggi si preferisce chiamare semplicemente il doganiere con riferimento all’impiego che ricoprì in quell’ambito ed a cui fu sempre grato per i tempi di pausa che gli concedeva e che gli permettevano di dedicarsi ai pennelli. La critica lo ha definito un naif artista e non un artista naif come a dire che fu grande anche in questo stile ma che tutto il suo apparato successivo lo ha condotto ad abbracciare in sostanza le massime correnti del tempo: Realismo, Impressionismo e Simbolismo. La sua fu un’esistenza veramente provata: perse moglie e figli in un’epidemia di tisi e soppportò altri pesanti occorsi, tuttavia oppose al suo destino una sorta di atarassìa che probabilmente trasformò il dolore in ispirazione. Rousseau partiva, peraltro, da una base culturale classica, ben diversa da quella degli altri naifs, aveva studiato musica e preso parte, a più riprese, ad Esposizioni riservate nonché a Saloni ufficiali. Contava, fra i tanti suoi amici, il poeta Apollinaire ed anche il grande Picasso che lo stimavano ed amavano anche se spesso lo prendevano amabilmente in giro per la sua grande ingenuità. Di Apollinaire, il nostro pittore fece, fra tanti altri, un ritratto di particolare significato interioristico e con una precisa volontà compositiva di giungere al massimo dell’espressività col minimo del mezzo usato. Spesso egli prendeva le misure dei soggetti da riprodurre servendosi di un metro da sarto ma questa originalità da artigiano nulla toglieva alla profondità naturale delle sue opere, difficilmente sottoponibili ad un esame strettamente teorico. Qualcuno lo ha definito uno schizofrenico tranquillo ma in merito a ciò, è da osservare che, già da qualche tempo, si era delineata una sorta di generazione di pittori con molti richiami a situazioni neuropatologiche, per cui, tra il complesso dei fatti da lui subiti nel suo percorso di vita e le sue singolari scelte pittoriche, non deve essere stato difficile volerlo accostare a questo gruppo di artisti, tra i quali troviamo anche il nostro Ligabue.
Uno sguardo, ora, a qualche opera del nostro Doganiere, scegliendo fra quelle che meglio possono mostrare il versante naif dell’artista. Prendiamo Giocatori di palla ovale – del Salomon R. Guggenheim Museum di New York – dove i soggetti in movimento sono dipinti con mano gioconda e fanciullesca che li dota di una inconsueta leggiadria, ingenui e malandrini allo stesso tempo, dentro una struttura cromatica molto più complessa di quanto sembri a prima vista. Tutta la scena è soffusa di un colore autunnale, dorato, che indulge all’idea della caducità, come forse l’età stessa dei giocatori. Non sono fanciulli ma uomini che, col gioco, sembrano esorcizzare l’arrivo di quell’autunno della vita che è anche congedo dall’età più bella, la giovinezza.
La seconda opera conferma la volontà dell’autore di ritrarre singole azioni affrontate da più soggetti. Come i giocatori, anche Gli artiglieri – ancora del Guggenheim Museum di New York – sono tutti dediti alla stessa cosa, qui alla vita militare. Sono uomini in armi ma il tratto che li rappresenta è pacato, il clima sereno, come fosse un gruppo di amici in campagna, vagamente rassegnato ma positivo. Il nostro naif artista evita di mostrare scene di assieme, in particolare di lavoro, dove ciascuno fa una certa cosa, che si presume differente dall’altro, ripetuta in modo meccanico e spersonalizzante, restando, essenzialmente, del tutto solo.
Rousseau rifugge, in sostanza, dal vedere l’umanità preda dei nuovi mezzi tecnici. Accetta, talvolta, di rappresentarne il prodotto, come avviene per l’aereo in Pescatori con lenza – del Louvre di Parigi – dove nel paesaggio naif, in quel verde tenero del fiume, degli alberi e del cielo, mette i pescatori, intenti a guardare il nuovo, sorprendente mezzo di trasporto che vola alto sulle loro teste. Segno che il pittore accetta, almeno, il buon frutto delle nuove tecnologie. Ma quando egli sceglie di raffigurare scene di massa, preferisce dedicarle a momenti festivi, gioiosi, con la presenza di bambini, come uscite fuori porta o sfilate patriottiche, dove l’essere umano si astrae da tutto per mostrare solo la sua parte migliore.