L’invocazione all’Alma Venus di Lucrezio



In questi nostri tempi così ricchi di nuove conquiste tecnologiche e sociali ma così anche impoveriti nell’oscura nube delle guerre per la perdita della sicurezza della pace, si mostra alla mente con struggente consonanza l’invocazione di un messaggio poetico di tempi lontani e diversi dai nostri da parte di una delle personalità più grandi di tutta la letteratura mondiale. Un messaggio ugualmente assillato dall’angoscia per la perversa avidità umana di morte così aliena dal rigoglio della vita nella Natura. Come non ricordare la sofferta invocazione di amore e di pace all’Alma Venus nel Proemio del  primo Iibro del De rerum natura diLucrezio? Ricordandolo lo studio più ampio compiuto parecchi anni fa, qui ometto le varie e spesso contrastanti ma tutte interessanti interpretazioni stimolate dalla reale o apparente contraddittorietà del tessuto dottrinario e sentimentale della figura dell’alma Venus” per una identità della divinità eterodossa per un poeta collocabile nella visione laica di ascendenza epicurea.  

Con Epicuro e ancor più con Lucrezio, ogni principio di vita o di morte si concentra nell’uomo vivente terrestre assillato dalla ricerca di felicità. Questa posizione immanentistica e umanistica è certamente anche nel fondo dell’opera di Lucrezio non so però con quanta fiducia nella capacità costruttiva dell’uomo e soprattutto nella sua possibilità di felicità. La rarefazione intellettualistica della natura umana che troviamo in Epicuro, in Lucrezio è impossibile e la terrena, corposa realtà dell’uomo, delle sue sofferenze e dei suoi piaceri appare ben evidente qui, in questa Venus calda e vitale nella quale le reminiscenze cosmogoniche, altrove risolte razionalmente, si disperdono in un flusso di attualità vibrante. D’altra parte, se questo rende anche estremamente difficile ogni interpretazione esclusivamente razionalistica, gioverà forse per un tentativo di interpretazione più soddisfacente riportare Lucrezio più che di fronte ad Epicuro, di fronte a se stesso. Sarà utile cercare, più che una sua infedeltà dottrinale, una tonalità tutta sua che lo differenzia dal maestro e costituisce in un certo senso il problema e il segreto della sua grandezza.
In questa prospettiva si può allora ricercare nel testo l’inserimento della Venus nella teologia lucreziana ma appare subito ardua la qualificazione della divinità di Lucrezio; c’è, sì, ripetuta più volte l’aderenza alla visione di atarassia tipica di Epicuro nell’immortalibus atque beatis del V libro, nel summa cum pace del II o nel placida cum pace fino all’affermazione dell’infinita distanza del divino dall’umano nel V, ma l’attenzione di Lucrezio più che sulle possibilità per l’uomo di raggiungere l’atarassia degli dei batte sulla critica della religio con una violenza ed un sarcasmo che non possono nascere solo dal proposito di dimostrare razionalmente la qualità della beatitudine attraverso l’inesistenza di un intervento provvidenziale.

La negazione di Lucrezio, la sua bestemmia a volte amara ed acre nasconde, forse, una nostalgìa del divino, o meglio, uno sgomento esistenziale.
Certo è che davanti a questo cielo vuoto (poichè la sottile consistenza degli dei epicurei è in Lucrezio ancor più evanescente e lontana, tanto che la promessa descrizione delle beate sedi non è stata neppure attuata), il poeta sente crescere e gonfiarsi all’infinito l’angoscia delle tenebre e della deformità dell’uomo all’interno del rigoglio armonioso della natura e forse, più di quanto non sembri, del tempus iniquum. 
Di questo atteggiamento appassionato si può cercare la chiarificazione nella descrizione della Venus. Già nei primi versi, pur nella tradizionale invocazione innografica, si manifesta una visione tutta umanistica della divinità che non perde il suo valore paradigmatico neppure con l’interpretazione come principio razionalistico. La dimensione tutta terrestre della Venus già traspare da Aeneadum che, al di là della determinazione epica, racchiude in uno spazio circoscritto non tanto la genesi che da lì si diparte quanto l’interesse del poeta. Una conferma pare la stessa posposizione di divom a hominum.

Certamente la visione cosmica non è assente, come confermano i caeli …labentia signa ma appare come velata dalla lontananza perfino evanescente in quel labentia assecondato dalla trama ondeggiante degli omoteleuti precedenti e seguenti che, certo, contribuiscono a dare il senso di un perenne, armonioso fluire ma esiliano, nello stesso tempo, la vicenda dagli astri e dalla vitalità del mare navigerum, delle terre frugiferentis. Non è che in questa differenza si possa cogliere un contrasto dottrinario fra un principio naturalistico operante sulla terra e uno diverso che dirige i cieli: la fisica lucreziana è tutta interamente compresa, almeno per quel che consente la conoscenza di Epicuro, nel sistema epicureo. Certo è, però, che la vitalità della Venus,la sua forza generatrice e costruttiva, si esplica tutta sulla terra come accentuano gli aggettivi attivistici daedala, genitabilis. D’altra parte questa attività costruttiva apparirebbe solo in una dimensione rigidamente meccanicistica se non vi si inserisse la dolcezza di quel suavis e, soprattutto, la luminosità ricorrente come una trama cromatica dal lumina solis posto anche metricamente in evidenza e già preparato dall’intensivo visit, al rident aequora fino al bellissimo slargo del nitet diffuso lumine.

Entro questa prospettiva, allora, potrebbe apparire completamente ottimistica nel suo laico immanentismo la visione di Lucrezio se da questo rigoglio di vita, nonostante la presenza iniziale, non fosse assente l’uomo. Solo indirettamente esso vi appare attraverso un’immagine cupa e stridente nel luminoso contesto in quel fera moenera militiai che si spegne attraverso il sussurrato sopita quiescant in un senso di infinita stanchezza più che nella contemplazione di un ideale equilibrio. La figura di Marte nel suo abbandono appare non tanto come la fiducia di un dialettico risolvimento della morte nella vita, ma come una perenne, avida aspirazione alla vitalità e all’armonia.