Puntare al cuore della poetica di Alda Merini non è cosa a portata di mano: bisogna fare un’operazione intellettuale, a ritroso nelle sue poesie, per ritornare alla scaturigine del suo pensiero. Occorre depurarla delle continue banalizzazioni cui assistiamo quotidianamente sui social, per i quali sarebbe la poeta dei baci Perugina e la poeta della porta accanto che canta l’amore.
In realtà, Alda Merini canta non solo l’amore, ma anche la disperazione, la dannazione, la profondità dell’ Esserci sulla Terra. Pensa, come Heidegger, che c’è stato un tempo felice in cui gli uomini non mancavano di niente; un giorno furono “gettati” nel mondo, provando la mancanza e la disperazione. La poesia è lo strumento di cui si avvale per salvarsi in questo pellegrinare sulla “nera terra”.
Nata il 21 marzo 1931 e morta il 2 novembre 2009, è Alda la Poeta che più conosce il dolore perché, come Leopardi, ha profonda cognizione della gioia e del dolore che attraversano l’essere umano. In entrambi la consapevolezza del dolore è direttamente proporzionale all’intelligenza, consapevoli, quali sono, dei propri talenti. Sono nata il 21 a Primavera,/ma non sapevo che nascere folle/aprire le zolle/ potesse scatenar tempesta… Da questa lirica si desume che chi ha una voce fuori dal coro, con il suo poetare tenace e spontaneo scatena tempesta. La polemica che le viene mossa dalla critica anche odierna sarebbe l’assenza di tecnicismo, derivante da scarsa cultura. Di cultura ne aveva, come dirò, e l’atecnicismo mi sembra piuttosto un elemento di forza che la trattiene al di qua del manierismo e del virtuosismo.
La sua è una poesia spontanea che si muove entro binomi oppositivi: Tempo/eterno; materia/anima; finito/infinito;carnalità/misticismo; immanente/trascendente, secondo contrapposizioni chiaroscurali tipiche del genio di Recanati. E’ una donna tenace e pugnace, ape furibonda, non domata nemmeno da 43 elettroshock senza anestesia: pensa infatti che l’esperienza manicomiale le abbia insegnato la grande potenza della vita.
Figlia di un’umile famiglia milanese, i suoi dati biografici sono desunti da un suo diario che è a prefazione di una raccolta poetica. In costante dialogo con Dio, ora crudele, ora benevolo, ma sempre presenza fissa delle sue opere, si recava in chiesa con una frequenza maniacale. Dopo il bombardamento della sua casa a Milano, si trasferisce con la sua famiglia a Vercelli a fare la mondina, frequentando comunque la scuola di avviamento e avvertendo una precoce vocazione poetica. Tornata a Milano, tenta il passaggio al Liceo Classico A. Manzoni, ma non viene ammessa alla Quarta ginnasio riportando un sonoro quattro in italiano, che si giustificherebbe per una sintassi un po’ sbilenca, poco curata. Talora la scuola conculca i talenti e punisce la genialità.
Spagnoletti, il cui circolo culturale Alda cominciò a frequentare nel 1947, in via del Torchio 11 a Milano, ci parla di una vocazione precoce, di un talento innato e di una naturalità del dire e del pensare. Ella si paragona all’albatros di Baudelaire che, sgozzato e disteso a terra, non smette di cantare canzoni di amore. Nonostante sia tacciata di poca cultura, presenta elementi greci con la consapevolezza che la poesia, quando è spontaneità di dire e potenza della parola, destina all’immortalità. Come Saffo, non vedrà il buio dell’Ade, perché conosce le rose della Pieria. La parola rompe il silenzio e si fa urgenza di dire, invasata da una platonica divina mania, che tocca le vette del sublime, sentimento misto di kantiana memoria. La sua fama comincia ad espandersi grazie al Circolo di Spagnoletti, dove conobbe il suo futuro amante Giorgio Manganelli, relazione durata dal 1947 al 1949, come ci informa Maria Corti, la sua editor di una vita, la meglio informata su di lei. Mario Luzi, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Luciano Erba ne parlano sul Corriere della Sera come la poeta della naturale spontaneità con le ginocchia piagate e piegate, fatta di lacrime e sangue.
Nel 1951 insorgono i primi segni della malattia mentale e Cesare Musatti, il massimo discepolo di Freud, ne fa una diagnosi infausta di bipolarismo incurabile. L’unica cura è la poesia: vivere non per il dolore, ma sul dolore. La poesia è varco, maglia nella rete che stringe: il che le consente di salire sulla vetta più alta e di illuminare l’Umanità con la luce della sua intelligenza. Come l’Inetto di Svevo, ha tanto da comunicare con la sua visione più alta, perché lei possiede il verbo ed è destinata all’incomprensione.
La raccolta poetica che la farà conoscere nei circoli intellettuali milanesi è La presenza di Orfeo . L’articolo che più segnerà la critica letteraria è del 1953 a cura di Pier Paolo Pasolini, uscito sulla rivista Paragone: misticismo e orfismo, spontaneità verace, assenza di tecnicismo sono le parole di PPP, il quale rintraccia dei modelli in RIlke, il poeta boemo, e in Dino Campana. Poiché la sua vocazione poetica la inchioda al foglio notte e giorno, chiede ripetutamente alla Poesia di liberarla e di avere una vita ordinaria. Il che la getta tra le braccia di un operaio, Ettore Carniti, lei sempre così innamorata (amori non corrisposti), così trascinata dalla foga del vivere. Nonostante si senta inadatta alla vita e profondo sia il senso di inadeguatezza anche per il suo fallimento scolastico, ha voglia di esserci sempre. Quindi, si sposa perché non vuole essere poeta perché la poesia è risorsa, talento, vocazione, ma anche dannazione.
Benché il marito si opponga, continua a poetare, e nel 1955 escono Nozze romane e Paura di Dio. Avverte un vitalismo dirompente nell’anima e nel corpo; tale foga si rispecchia nelle pupille, particolarmente vive, e chiede a Dio di chiuderle per sempre. Ma il dio, ora benevolo, ora crudele, si rivela qui indifferente. Il dio non ci consola né ci esalta, semplicemente non ci ascolta: questa la sua amara conclusione. Elementi biblico-evangelici si mescolano ad un’ idea di destino greco. Libertà si contrappone a Necessità, l’uomo non è libero per, ma destinato a: siamo tutti inchiodati ad una croce, come si desume dalla raccolta poetica Tu sei Pietro, scritti sul piede dell’endecasillabo, essendo influenzata dalle sue competenze musicali (suonava il pianoforte). La raccolta, robusta nei contenuti saldamente attaccati a terra ma oltremodo melodica, ha pochi consensi perché la fine della relazione con Manganelli ha raffreddato i rapporti con il circolo di Spagnoletti.
La vita familiare è difficile e un eccesso di realtà la spinge nel manicomio il 15 ottobre del 1965, data a partire dalla quale fino all’anno 1979 non compose poesie, ma solo diari dedicati ai medici di cui si innamora. Rompe il silenzio nel 1980 con la raccolta poetica Destinati a morire secondo l’idea greca della tyche che è nel primo stasimo dell’Antigone. Cotidie morimur, siamo esseri caduchi e insignificanti, epifanie di farfalle. Nel 1983 esce Vuoto d’amore, poesie a Charles, il pittore che ospitò nella sua mansarda; il 1983 è anno di dolore e desolazione: vi muoiono il marito Ettore Carniti e il padre Nemo. Ricorda allora di aver conosciuto tal Michele Pierri nel Circolo di Spagnoletti, celebre poeta tarentino. Rintracciatolo, lo sposa nel 1984: lui ha 85 anni, lei 53.
Il 1983 è un anno da segnare al calendario perché c’è l’uscita della massima raccolta poetica Terra Santa, nata dalla disperazione post-manicomiale. Il suo capolavoro non ha i consensi sperati: Manganelli ne fa una tiepida recensione; entusiasta ne è Spagnoletti, che parla di un’opera archeologica che affonda le radici nei suoi sentimenti più profondi tradotti in endecasillabi. Lo scarso riscontro lo si deve ai mutamenti di Milano che non è più quella città post-bellica così sensibile alle voci poetiche, specie se dannate; è diventata la Milano da bere, della superficialità e frivolezza. Inoltre, i suoi estimatori, Montale e Quasimodo, sono defunti.
Si apre il periodo più buio della sua vita, peggiore degli anni passati in manicomio: desolazione, disillusione, isolamento e incomprensione la fanno da padroni. Si aggira per i Navigli mal vestita, abbandonata a se stessa con tutti i suoi pendagli e vivaci rossetti. Nelle trattorie qualche avventore le offre una pizza e una pinta di birra. Frequenta il bar Chimera, dove conosce Tondelli e Luzi. E’ praticamente finanziata dal poeta e critico Giovanni Raboni, che le fa avere il sussidio Bacchelli. Quando la miseria è nera, quando tutto sembra volgere al peggio, nel 1990 nasce il caso Alda Merini. Le luci della ribalta la vedono in prima pagina sulle più importanti testate giornalistiche e presente il tutti i canali TV. Riporta una serie di premi, tra cui il Librex-Montale.
Nel 2000 esce la raccolta Superba è la notte, raccolta in cui parla il sé più profondo, il lupo di Gubbio, per ammansire il quale non c’è cura ma ci vorrebbe un’altra vita, come direbbe Franco Battiato. Nel 2001 è candidata al Nobel: il che è un grandissimo riconoscimento anche se il premio non le viene assegnato. Nel 2009 si ammala di tumore e si rafforza il rapporto con le figlie, due delle quali, Emanuela e Barbara, sono valenti poetesse; muore il 2 novembre del 2009. Il giorno prima della morte canta poesie di amore.
Di una delle voci più significative del Novecento potremmo dire ciò che Orazio ha detto della sua opera: ha innalzato un monumento più duraturo del bronzo.