Prima ancora di riuscire a capire come era fatto, l’uomo ha provato a rappresentarsi, a raffigurare il suo sembiante e quello della natura che lo circondava.
Da principio i motivi ispiratori erano principalmente i volumi spogli quali i tronchi d’albero, le montagne e poi anche le membra umane nel manifestarsi della loro potenza e il mistero dei fenomeni naturali.
Della natura si giunse presto a captare anche l’espressione spirituale. Pian piano nasceva il paesaggio ed esso emanava una grandezza ed una serenità sempre più interiorizzate.
Appare vero come ogni forma d’arte, fin dai primordi, galleggi, per così dire, sul fluire del tempo. utte le opere che hanno attraversato i millenni restano a testimoniare la capacità propria dell’essere umano di tradurre in arte, o quanto meno provare a farlo, tutte le doti e le inclinazioni che scopre di avere.
Vedremo ora come un gruppo di artisti, agli albori dello scorso secolo, volle, in qualche modo, riprendere gli stilemi primordiali tanto da meritare il nome di fauves, che sta un po’ per primitivi e un po’, alla lettera, per “belve”.
Il fauvisme vero e proprio non durò che due anni con seria adesisone di tutti i suoi rappresentanti, fra i quali, oltre Matisse, ricordiamo George Rouault e André Derain, il quale ultimo, pur affascinato dal colore puro e dall’espressione pittorica primordiale, tornò presto ad un uso più classico e dei colori e del segno. Così del resto anche gli altri, tutti illustri esponenti dell’arte contemporanea che ritroveremo in molteplici correnti come l’impressionismo, il verismo e l’espressionismo ma soprattutto come artisti unici, ciascuno col suo percorso, maturato come summa di tutti gli stili visitati, praticati ed innovati.
I fauves comunque amarono esprimersi essenzialmente, se non esclusivamente, attraverso il colore, sovrano incontrastato di quel momento artistico e traduttore delle loro emozioni: distese di colori puri, elementari, chiamati a generare le forme. Il colore stesso diventa oggetto.
Matisse fu senza meno il loro rappresentante più significativo e di lui chiamiamo in causa l’opera ritenuta suo indiscusso capolavoro, la celebre danza – che personalmente ebbi la fortuna di vedere all’Hermitage di S. Pietroburgo – la cui festosa plasticità, espressa in una forma volutamente essenziale fatta di tratti rapidi e accennati, raffinata e penetrante, sembra rivolgere un atto di gioiosa esortazione all’umanità a tenersi per mano per ballare la danza inarrestabile della vita. Lo sfondo reso da null’altro che da pennellate di verde e di blu, ben rappresenta la forza del cielo e della terra.
La versione di S. Pietroburgo è posteriore di un anno a quella che si trova a New York al Museum of Modern Arts ma la sovrasta per la potenza dei colori che svetta sulla tela americana: il marrone rossastro dei danzatori emoziona di più dell’incarnato roseo della prima tela e richiama ardentemente i taithiani di Gauguin.
Uno sguardo ad una seconda opera di Matisse, la donna italiana, conservata al Salomoon R. Guggenheim Museum di New York, dipinta nel 1916.
L’esperienza fauve appare già sedimentata lasciando un evidente amore verso il primitivismo. Si noti l’espressione seria, austera, sculturale del viso mentre i colori non sono più assoluti. Essi, ad eccezione del nero puro della chioma, riprendono il loro dialogo e la loro mescolanza, come si vede nei verdi dello sfondo e nell’incarnato stesso di Lauretta, la modella prediletta da Matisse. Pigmenti gialli e rosa si uniscono al grigio, l’olio assume un fascino tridimensionale formato dallo sfondo verde intenso sulla destra di chi guarda, dalla figura umana, e da un pannello velato, che ne copre metà braccio sulla sinistra.
Momenti sintomatici dello sviluppo della spesso maltrattata arte moderna.