L’evidenza raccolta dalla comunità scientifica a dimostrazione del cambiamento climatico in atto causato dalle attività antropiche è ormai inconfutabile. E ne osserviamo gli effetti da decenni: ritiro dei ghiacci artici, scioglimento dei ghiacciai, estremizzazione degli eventi atmosferici con alluvioni lampo e ondate di calore, siccità, diminuzione delle precipitazioni, erosione delle coste, innalzamento dei mari. Il cambiamento che il pianeta Terra sta subendo a causa delle varie attività antropiche è tale da indurre la comunità scientifica a valutare l’opportunità di introdurre una nuova epoca geologica, chiamata Antropocene.
Oggi sappiamo che la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera non è mai stata così alta sulla Terra. Gli studiosi del clima sono stati in grado di ricostruire questa informazione dall’analisi di campioni di aria intrappolata nelle carote dei ghiacci antartici e della Groenlandia e dalla concentrazione dei due isotopi 16 e 18 dell’ossigeno nei gusci di alcuni organismi marini negli Oceani. La concentrazione di anidride carbonica in atmosfera non è mai stata così alta negli ultimi 2 milioni di anni almeno e la velocità con cui è aumentata negli ultimi decenni è senza precedenti.
Gran parte dell’aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera è dovuto alla combustione delle fonti fossili: petrolio, carbone e gas. L’aumento di anidride carbonica e di altri gas serra si è tradotto, ad oggi, in un aumento della temperatura media globale di circa 1 °C dovuto al cosiddetto effetto serra. I gas serra in atmosfera, infatti, hanno la capacità di intrappolare la radiazione infrarossa emessa dalla superficie della Terra; più è alta la concentrazione di questi gas in atmosfera, più aumenta la capacità dell’atmosfera di assorbire le radiazioni infrarosse ed intrappolare il calore.
La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) di Rio de Janeiro in Brasile (1992), è stata il primo accordo ambientale in grado di raggiungere un consenso sulla necessità di limitare le emissioni di gas serra, a cui ha poi fatto seguito nel 1997 il Protocollo di Kyoto, che ha avuto il merito di fissare limiti di emissione legalmente vincolanti. Dal 1990 l’Europa è stata in grado di ridurre le emissioni di gas serra del 28% mentre gli Stati Uniti di un 2%, ma a livello globale tali emissioni continuano ad aumentare, principalmente per l’ascesa economica della Cina e di altri paesi emergenti. La concentrazione di anidride carbonica in atmosfera ha raggiunto i 418 ppm (parti per milione) dai 280 ppm circa dell’era preindustriale ovvero prima dell’avvento della rivoluzione industriale.
Se siete curiosi di scoprire come è cambiata la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera, insieme ad altri indicatori climatici chiave che monitorano il cambiamento climatico, vi invito a visitare il sito dell’Agenzia NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) degli Stati Uniti. Contiene la serie storica continua di dati più lunga sulla concentrazione di anidride carbonica in atmosfera iniziata nel 1958. È chiamata curva di Keeling, dal nome dello scienziato che iniziò le misure dall’Osservatorio di Mauna Loa, un vulcano sulle isole Hawaii. La curiosità in questa curva, oltre al fatto di essere crescente, è la ciclicità annuale della concentrazione di anidride carbonica ovvero essa diminuisce in primavera ed estate mentre aumenta in autunno e inverno. Questo è dovuto all’intensa attività della fotosintesi durante le stagioni calde nell’emisfero boreale dove si trova la maggior parte delle terre emerse.
L’ultimo rapporto del IPPC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sul cambiamento climatico avverte che non abbiamo più molto tempo per invertire la rotta ed evitare la catastrofe climatica ed il collasso degli ecosistemi. Dalle proiezioni climatiche si evince che la temperatura globale continuerà a salire e molto probabilmente, a meno di drastiche riduzioni delle emissioni di gas serra, non saremo in grado di mantenere il riscaldamento della Terra entro gli 1,5 °C fissati come soglia di sicurezza nell’accordo di Parigi nel 2015. Nel rapporto si evidenzia anche che l’area del Mediterraneo è a grave rischio siccità con rovinose conseguenze sull’agricoltura, gli ecosistemi e l’uomo. I benefici economici che deriverebbero dal limitare l’aumento di temperatura eccedono i costi di mitigazione.
L’umanità ha dimostrato in altre occasioni di sapere affrontare e risolvere minacce globali con stupefacente celerità e risolutezza. Due esempi recenti sono significativi: il buco dell’ozono e l’epidemia da COVID-19. La prima emergenza, di carattere prettamente ambientale, fu causata dalle emissioni di clorofluorocarburi (o CFC), composti utilizzati soprattutto come liquido refrigerante, nocivi per lo strato di ozono stratosferico che ci protegge dalla componente ultravioletta della radiazione solare. Nel 1987 fu firmato il protocollo di Montreal che mise al bando queste sostanze e che consentì allo strato di ozono di riformarsi nei decenni successivi. Grazie a questo accordo, lo strato di ozono oggi si è quasi completamente ricostituito e i composti chimici nocivi sono stati sostituiti da nuovi composti innocui per lo strato di ozono. La seconda emergenza, di carattere prettamente sanitario, è stata causata da un nuovo virus. Grazie alla scoperta di un vaccino, raggiunta dopo soltanto un anno dall’inizio della pandemia, si è riusciti ad avere uno strumento efficace per proteggere la popolazione. In entrambi i casi il progresso tecnologico ci ha salvato da conseguenze peggiori. Queste emergenze ci hanno anche insegnato che nessuno si salva da solo, che siamo tutti interconnessi e che siamo parte di un delicato sistema naturale con cui dobbiamo vivere in equilibrio.
Perché, allora, non siamo in grado di rispondere con altrettanta celerità e risolutezza alle minacce del cambiamento climatico? Questa volta, non sarà sufficiente il progresso tecnologico o un’invenzione a salvarci. C’è bisogno di una transizione culturale, non solo tecnologica. La lotta al cambiamento climatico non è seducente o attraente perché ci indurrà, volenti o nolenti, a cambiare stile di vita e a fare qualche sacrificio; certamente sarà così nel breve e medio termine ovvero nella fase di transizione tecnologica e di adattamento al cambiamento climatico.
La lotta al cambiamento climatico ci induce anche a riflettere sulla compatibilità del nostro modello di sviluppo, fondato sul culto fanatico della crescita economica infinita in un pianeta di risorse finite, schiavo del consumismo e del produttivismo spesso fini a sé stessi. Siamo dventati dei tossicodipendenti della crescita secondo l’espressione di Serge Latouche nel suo libro Breve trattato sulla crescita serena o, come affermava l’economista americano, Kenneth Boulding, “chiunque creda che si possa avere una crescita economica infinita in un mondo finito o è pazzo o è un economista”. Dobbiamo rendere la nostra economia circolare ovvero minimizzare gli scarti e massimizzare il riutilizzo e riciclo dei materiali.
È ora di emanciparci dal PIL come unico indice di ricchezza di una nazione e focalizzarci, piuttosto, sulla crescita umana, nel senso di qualità della vita, dell’ambiente in cui viviamo e della felicità collettiva. Un sistema economico che pensi a massimizzare la qualità della crescita e non la quantità. Come già denunciava J.F. Kennedy nel 1968, Il PIL come indice di ricchezza di una nazione conteggia anche le spese per la produzione di armi, l’inquinamento, la pubblicità di sigarette o alcol, la produzione di programmi televisivi violenti e la deforestazione, per fare soltanto alcuni esempi. L’indice Human Development Index (HDI) dello United Nations Development Programme (UNDP) o il Genuine Progress Indicator (GPI) sono nuovi approcci per superare il PIL.
Dobbiamo ridurre l’impronta ecologica: consumiamo le risorse naturali ad un tasso maggiore del loro tasso naturale di rigenerazione che significa che abbiamo bisogno di circa 1,7 pianeti Terra per soddisfare il consumo annuo globale. Dobbiamo sprecare meno cibo: siamo 8 miliardi di persone ma ne produciamo per 12. Dobbiamo consumare meno carne: utilizziamo oltre il 30% delle terre coltivabili per produrre foraggio per animali. Dobbiamo riforestare, investire massivamente nel risparmio energetico, nella produzione di energia rinnovabile, soprattutto da solare ed eolico, e nello stoccaggio di energia, aumentare l’efficienza energetica in tutti i settori, ammodernare la rete elettrica per adeguarla ad un sistema di generazione dell’energia distribuita e capillare sul territorio.
Questa transizione potrà avvenire solo grazie a massicci investimenti pubblici e privati. È recente la notizia dell’approvazione da parte dell’amministrazione Biden di un pacchetto di aiuti, denominato Inflation Reduction Act, che comprende sussidi finanziari pari a circa 370 miliardi di dollari per combattere il cambiamento climatico. Questa notizia è di buon auspicio per il pianeta, visto che gli Stati Uniti sono il maggior emettitore di gas serra. Ma è paradossale che gli Stati Uniti abbiano anticipato l’Unione Europea nelle politiche industriali per la trasformazione “verde”, considerato che il partito repubblicano americano per decenni ha negato il cambiamento climatico e fatto ostruzionismo a qualsiasi intervento in favore della transizione ecologica.
La transizione potrà avvenire solo con una politica che sia all’altezza di questa sfida, coraggiosa, che abbia una visione di lungo termine e che pensi ai giovani di oggi e a quelli che verranno. “La Terra non è un’eredità ricevuta dai nostri Padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli” secondo un noto detto degli indiani americani. Questo è ciò che mi preoccupa più di ogni altra cosa, molto di più della sfida tecnologica. Questa volta ognuno di noi dovrà prendere coscienza del problema e dare il suo piccolo contributo per realizzare questa transizione.
I giovani lo hanno già capito e si stanno mobilitando perché è in gioco il loro futuro e, al limite, la loro sopravvivenza.
Mariano Marinari, Ingegnere ambientale presso ARPA Lombardia