(dall’articolo pubblicato su Il sole 24 ore)
Il 31 dicembre Papa Benedetto XVI si è accomiatato da questo mondo che l’ha visto protagonista della vita culturale ed ecclesiale per oltre mezzo secolo, da quando, giovane sacerdote e accademico, ebbe modo di partecipare ai lavori del Concilio
Vaticano II. Tanto è stato scritto e si scriverà su Joseph Ratzinger, io mi permetto di abbozzare una breve e, necessariamente, sommaria riflessione sul contributo che Benedetto XVI ha offerto alla dottrina sociale e, in particolare, ai temi del mercato e
dell’ordine politico, avendo come quadro di riferimento la nozione agostiniana di Tranquillitas ordinis e prendendo spunto dall’enciclica Caritas in veritate, firmata il 29 giugno del 2009.
Per Benedetto, «Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano
beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri». Il mercato ci viene presentato come una forma di collaborazione basata sul principio contrattualistico della “reciprocità”, ciò significa che il presupposto del mercato è lo
scambio volontario. Due persone s’incontrano e, scambiandosi informazioni sulle aspettative reciproche, si accorgono di poter essere l’uno d’aiuto all’altro. Non si può dar vita al mercato per via legislativa, non si può decretare con un editto la nascita di
un mercato. Certo, lo si può regolare, facilitare, ostacolare, ma nessuno potrà costringere qualcuno ad intraprendere una transazione contro la sua volontà: saremmo al di fuori dell’economia di mercato.
In tal senso, i processi di mercato, per quanto virtuosi, non andrebbero mai confusi con il dono ed evidentemente, per quanto viziosi, neppure con la rapina. Il dono appare come quella indispensabile dimensione del vivere che rende autenticamente umani i rapporti e, di conseguenze, autenticamente umana l’esistenza. Sappiamo bene che la vita non si risolve nel mercato e l’esperienza del dono ci consente di constatare direttamente la parzialità della logica del mercato. La catallassi, il mercato, è la tipologia sociale propria degli uomini liberi che consapevolmente cum-petono per ottenere il miglior risultato possibile, in ordine all’allocazione di beni scarsi e disponibili; ciò che non è scarso e non è disponibile evidentemente non entra e non dovrebbe entrare nella logica di mercato.
È in questa cornice concettuale che emerge un’affermazione di grande valore propositivo: «Non si tratta solo di correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza. I poveri non sono da considerare un “fardello”, bensì una risorsa anche dal punto di
vista strettamente economico». In queste parole sono presenti tutti i temi affrontati già da Giovanni Paolo II in Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis e in Centesimus annus. Argomenti che spinsero alcuni commentatori dell’epoca a parlare
di barefoot capitalism, un capitalismo a piedi scalzi che ricorda le analisi dell’economista peruviano Hernando De Soto, ma anche quella decisamente più vicina a noi di economia sociale di mercato di Wilhelm Röpke e di Luigi Sturzo.
La prospettiva economica di Benedetto XVI si inserisce nella cornice di un nuovo ordine mondiale ispirato ai principi di sussidiarietà, solidarietà e poliarchia. Nella Caritas in veritate fa il suo ingresso nel lessico del Magistero sociale pontificio
il termine “poliarchico”. Il fatto che tale concetto sia entrato in una enciclica sociale e sia stato investito dell’alto rango di principio, credo che meriti attenzione sia per la novità in sé, sia per la funzione cruciale che l’enciclica gli assegna e le inevitabili possibili ricadute in termini di policy globali. Il termine in questione è collocato all’inizio della IV parte
dell’enciclica, nel paragrafo 57, lì dove si avanzano alcune istanze piuttosto concrete e, tra queste, quella di una riforma della governance globale sia in ambito politico sia in ambito economico: il sistema di poteri che può aiutare a cogliere l’opportunità
costituita dalla globalizzazione, afferma Benedetto XVI, deve essere strutturato in modo sussidiario e poliarchico, “per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico”. Quanto di più distante dall’idea di un’autorità politica a
competenza universale che facilmente si converte in Leviatano globale.
Purtroppo, non sono mancate interpretazioni del documento che sono andate proprio in questa direzione, soprattutto a causa della traduzione della versione italiana; lì dove nel testo latino appariva la locuzione “moderamen globalizationis”, la versione italiana ha adottato la formula “governo della globalizzazione”, a differenza delle versioni inglese e francese che, più correttamente, hanno tradotto con “governance della globalizzazione”, distinguendo la nozione di governo (gubernaculum) da quella di governance (moderamen).
L’insegnamento che possiamo trarre dalla ricca analisi di Papa Benedetto ci dice che le istituzioni economiche e politiche, sempre in competizione tra loro, irriducibili ad alcuna autorità monocratica, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non operano mai in uno vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un concreto contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate. Quando un sistema sociale nega il valore della persona umana, a partire dal diritto a nascere e a vivere partecipando alla dimensione economica e politica, si rivela disumano, e merita di essere criticato: «non può “avere solide basi una società che […] si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata“».
In questa prospettiva, una sana economia di mercato e un altrettanto sano sistema democratico, domestici o globali che siano, sono sempre limitati da un ordine giuridico che li regola e da istituzioni morali che interagiscono con essi e li influenzano, essendone esse stesse influenzate.